Corte di Cassazione, sentenza n. 6538 del 18 marzo 2010
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente –
Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente di Sezione –
Dott. MERONE Antonio – Consigliere –
Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –
Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –
Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –
Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –
Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 451/2006 proposto da:
BANCA A S.P.A., aderente al Fondo Interbancario di Tutela dei
Depositi, Capogruppo del Gruppo Bancario ((OMISSIS)), in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in
ROMA, presso lo studio dell’avvocato, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato, per procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
CURATELA DEL FALLIMENTO DELLA S.R.L.;
– intimata –
sul ricorso /2006 proposto da:
CURATELA DEL FALLIMENTO S.R.L., in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliata in, presso lo studio
legale,rappresentata e difesa dall’avvocato, per delega in calce al
controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
BANCA S.P.A.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 570/2004 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,
depositata il 08/11/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
02/02/2010 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;
uditi gli avvocati per delega dell’avvocato;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI
Domenico, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Tribunale di Lamezia Terme con sentenza dell’8 febbraio
2002,in accoglimento della richiesta del Fallimento della s.r.l. A,
dichiarava inefficace il pagamento della somma di L. 2 miliardi, –
ricevuta a titolo di mutuo dalla B – mediante 7 assegni bancari
emessi dal legale rappresentante di detta società su di un conto
corrente presso la Banca popolare di C (poi incorporata dalla Banca
D) al fine di estinguere i debiti dei soci della A nei confronti di
detto istituto di credito. Condannava l’Istituto di credito alla
restituzione della somma di L. 2.136.000.000, oltre agli interessi
legali.
L’impugnazione di quest’ultima Banca è stata accolta in parte dalla
Corte di appello di Catanzaro che, con sentenza dell’8 novembre 2006
ha dichiarato inammissibile la domanda della Curatela rivolta al
pagamento degli interessi legali perchè tardivamente formulata nella
comparsa conclusionale; ha confermato nel resto la decisione di
primo grado osservando (per quanto qui interessa): a) che la domanda
della Curatela, costituita parte civile nel procedimento penale
instaurato per bancarotta fraudolenta nei confronti di S.R., P.L. e
V.C.S., era procedibile per essere diversi i presupposti dell’azione
revocatoria rispetto alla richiesta risarcitoria avanzata nel
giudizio penale; b)che l’azione intrapresa dal Fallimento andava
ricondotta nell’ambito di applicazione della L. Fall., art. 64, in
quanto gli assegni erano stati emessi dall’amministratore unico
della società poi fallita, S.R. e da questi fatti transitare su
altro conto corrente afferente al c.d. Gruppo A al fine di
estinguere i debiti di costoro, perciò da considerarsi terzi, nei
confronti della Banca popolare; ed era fondata anche ove gli assegni
fossero stati emessi in favore di S.R. in proprio e da questi
utilizzati per ripianare la propria posizione debitoria.
Per la cassazione della sentenza la s.p.a. Banca D ha proposto
ricorso per 3 motivi; cui resiste la Curatela del Fallimento con
controricorso recante ricorso incidentale per due motivi.
Questa Corte, con ordinanza 21 maggio 2009 n. 11822, ha rilevato la
sussistenza di un contrasto sulla qualificazione quale atto a titolo
gratuito ovvero oneroso del pagamento eseguito dal terzo ai sensi
dell’art. 1180 c.c., per cui la controversia è stata rimessa alle
Sezioni Unite per la sua composizione. Le parti hanno depositato
memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2. I ricorsi vanno,anzitutto riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.,
perchè proposti contro la medesima sentenza.
Con il primo motivo di quello principale, la D, deducendo violazione
dell’art. 75 c.p.p., e art. 295 c.p.c., nonchè difetto di
motivazione censura la sentenza impugnata: a) per non avere
dichiarato estinta per rinuncia l’azione civile malgrado in data
(OMISSIS) il Fallimento avesse esteso la propria costituzione civile
nel procedimento penale contro la A anche nei confronti della Banca
popolare; b) per non avere sospeso il giudizio in attesa della
definizione di quello penale in quanto entrambi vertenti sullo
stesso fatto illecito costituito dalla condotta distruttiva della
somma di L. 2 miliardi.
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata ha accertato, e le parti confermato che la
Curatela del fallimento: a) in data 19 novembre 1986 si è costituita
parte civile nel procedimento penale a carico di S.R., allora
amministratore della società, nonchè di P.L. e V.C.S.,
rispettivamente direttore e presidente della Banca popolare di C,
ora incorporata nella Banca ricorrente; b) con citazione del 28
luglio 1987 ha iniziato il presente giudizio nei confronti della
sola Banca, da entrambi i giudici di merito qualificato “azione
revocatoria L. Fall., ex art. 64”; c) ottenuta l’autorizzazione dal
giudice penale ha esteso la costituzione di parte civile anche nei
confronti della Banca popolare con atto del 23 ottobre 1987.
Ora, dalla disciplina del codice di procedura penale si ricava che
il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità
della giurisdizione, ma a quello dell’autonomia di ciascun processo
e della piena cognizione da parte di ciascun giudice, dell’uno e
dell’altro ramo, delle questioni giuridiche o di accertamento dei
fatti rilevanti ai fini della propria decisione;e quindi alla regola
della completa autonomia e separazione del giudizio civile anche da
quello penale pregiudiziale, non offrendo l’ordinamento altro mezzo
preventivo di coordinamento dei due giudizi all’infuori di quello
previsto dall’art. 75 c.p.p., relativamente ai giudizi risarcitori e
restitutori; con il duplice corollario della prosecuzione parallela
del giudizio civile e del giudizio penale, senza alcuna possibilità
di influenza del secondo sul primo, e dell’obbligo del giudice
civile di accertare in modo autonomo i fatti e la responsabilità
(cfr. Cass. 14.3.2002, n. 3753).
Questa disposizione disciplina nel comma 1, che riproduce
sostanzialmente l’art. 24 del codice previgente, l’ipotesi in cui
l’azione civile è proposta prima della costituzione di parte civile
e, nel comma 3, quella in cui è proposta dopo: nella prima ipotesi
prevede la facoltà di trasferire l’azione civile in sede penale con
il corollario che l’esercizio della facoltà comporta, in deroga al
principio regolatore della litispendenza – cioè quello della
prevenzione – rinuncia “ex lege” agli atti del giudizio civile a
preservazione dell’esigenza che non restino pendenti due giudizi
identici; sicchè il giudice civile deve anche d’ufficio dichiarare
l’estinzione del processo, senza che sia necessaria l’accettazione
della parte (Cass. 317/2009). Mentre alla seconda ipotesi, ravvisata
come eccezione in casi particolari,collega la sospensione necessaria
del giudizio civile, considerando quindi quale regola generale non
più la sospensione suddetta per la pendenza di quello penale, bensì
la separazione dei due giudizi e l’autonoma prosecuzione di essi
(Cass. 6185/2009; 13544/2006; 3753/2002). Per l’applicazione
dell’una o dell’altra disposizione,è tuttavia necessario che tra le
due azioni vi sia identità di oggetto (eadem res) oltre che di
soggetti; che l’identità suddetta venga accertata non in base alla
loro funzione ultima,ovvero al risultato concreto che l’attore
intendeva trarre,bensì esclusivamente alla stregua dei comuni canoni
di identificazione delle azioni: persone, petitum, causa petendi.
Nel caso in esame, invece il giudice di merito ha accertato che le
due azioni si fondano su presupposti diversi e perseguono finalità
egualmente differenti. E le Sezioni Unite devono aggiungere che la
loro causa petendi è addirittura opposta in quanto quella
dell’azione risarcitoria è necessariamente fondata su di un fatto
illecito – reato, nel caso ravvisato nella bancarotta fraudolenta di
cui si è detto; mentre in tutte le ipotesi contemplate dalla L.
Fall., artt. 64 e 67, l’atto contro cui l’azione è indirizzata è
lecito, valido ed efficace, e perde effetto – anche se al disponente
ed al beneficiario non si possa rimproverare alcunchè – solo a
seguito della pronuncia di revoca. Egualmente diverso è il petitura
delle due azioni, che in quella risarcitoria è rivolto a conseguire
la reintegrazione del patrimonio del soggetto depauperato
dall’illecito mediante la corresponsione dell’equivalente pecuniario
o tantundem del pregiudizio subito; mentre nella fattispecie di cui
alla L. Fall., art. 64, ha per oggetto la sanzione di inefficacia
del pagamento eseguito dal solvens (Cass. 1831/2001; 6929/1983;
3854/1980) e la restituzione della somma pagata assume carattere
strumentale al fine della ricostituzione della massa fallimentare
nella consistenza originaria.
A maggior ragione non è poi censurabile la sentenza impugnata per
aver escluso la sospensione del presente giudizio ex art. 75 c.p.c.,
comma 3, in quanto proposto dopo che la stessa Curatela si era
costituita parte civile nei confronti dello S. e dei coimputati (19
novembre 1986): difettandone anche il presupposto logico-giuridico
dell’identità soggettiva tra i due procedimenti dato che quello in
esame è rivolto esclusivamente nei confronti della Banca.
3. Con il secondo motivo, l’Istituto di credito, deducendo
violazione della L. Fall., art. 64, anche in relazione all’art. 112
c.p.c., nonchè carenza e contraddittorietà di motivazione su di un
punto decisivo della controversia,censura la sentenza impugnata per
non essersi avveduta che la Curatela aveva prospettato in primo
grado un’azione di impugnativa di negozi per frode ai creditori con
richiesta di annullamento di vari negozi; che esso ente con l’atto
di impugnazione aveva rilevato l’erronea qualificazione dell’azione
da parte del Tribunale; e che la Corte di appello si era limitata ad
esporre una motivazione per relationem alla sentenza di primo grado
ed a giudicare erroneamente corretta la qualificazione della domanda
come azione L. Fall., ex art. 64.
Questo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Costituiscono principi del tutto pacifici nella giurisprudenza di
legittimità: a) che il vizio di nullità della sentenza per omessa
motivazione, sussiste allorchè essa sia priva dell’esposizione dei
motivi in diritto sui quali è basata la decisione; b) che la
motivazione della sentenza di appello “per relationem” alla sentenza
pronunciata in primo grado è legittima purchè il giudice
d’appello,facendo proprie le argomentazioni del primo giudice,
esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della
pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo
che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva
delle due sentenze risulti appagante e corretto. Nel caso, la
sentenza impugnata ha anzitutto esposto dettagliatamente i fatti di
causa,evidenziando in particolare il mutuo contratto dalla soc.
F.lli A con l’B, e la successiva apertura di uno speciale conto
corrente presso la Banca popolare per il deposito della relativa
somma (e solo di essa); i 7 assegni per un totale di L. 2 miliardi
tratti nello stesso giorno dell’accreditamento sul conto suddetto ed
asseritamente emessi a favore di S.R. in proprio e portati a
scomputo dei debiti dei fratelli A nei confronti della stessa Banca;
ed infine la chiusura immediatamente successiva del suddetto conto
corrente senza che sullo stesso venissero effettuate ulteriori
operazioni.
Ne ha tratto il convincimento che l’intero rapporto e le operazioni
che aveva comportato rientrano nell’ambito di applicazione della
fattispecie di cui alla L. Fall., art. 64; e tale particolare
disamina sia del provvedimento appellato,che delle censure proposte
contro di esso,peraltro condotta avvertendo che la qualificazione
dell’azione da parte di entrambi i giudici di merito doveva
necessariamente adeguarsi al principio espresso dall’art. 112
c.p.c., della corrispondenza della pronuncia alla richiesta del
Fallimento, è già sufficiente ad esaurire l’obbligo di motivazione
gravante sulla sentenza impugnata,nonchè ad escludere il vizio di
mera acritica adesione alla decisione di primo grado prospettato
dalla Banca ricorrente.
4. Con il terzo motivo la Banca, deducendo violazione della L.
Fall., art. 64, anche in relazione all’art. 1180 c.c., nonchè
carenza e contraddittorietà di motivazione,censura la sentenza
impugnata: a) per non aver considerato che nel caso si era in
presenza di un adempimento del debito del Gruppo fratelli A da parte
del terzo (la società poi fallita) ex art. 1180 c.c.: perciò da
qualificare secondo la prevalente giurisprudenza a titolo oneroso
con riguardo all’accipiens, come dimostravano le clausole onerose
apposte dall’B nel contratto di finanziamento,e non connotato da
animo liberale, neppure prospettato dalla Curatela; b) che occorreva
perciò valutare anche i rapporti intercorsi da S.R. con il gruppo
familiare A ed esso Istituto di credito, prendendo atto che gli
assegni erano pervenuti alla Banca tramite il prenditore S.R. e non
direttamente dalla società fallita, la quale aveva invece emesso i
titoli a favore del primo (un assegno di L. 68 milioni era stato
emesso a favore di un terzo del tutto estraneo al giudizio); e)per
avere dapprima ritenuto che l’elemento psicologico resta irrilevante
nella fattispecie della L. Fall., art. 64, e poi concluso che doveva
ritenersi provata la conoscenza in capo alla banca dei rapporti
interni al gruppo, in assenza di qualsiasi prova al riguardo; e
senza indicare in alcun modo le ragioni di un tal convincimento.
Viene in tal modo posta all’esame delle Sezioni Unite la questione
concernente la natura – onerosa o gratuita – dell’atto con cui un
soggetto adempie il debito altrui,con particolare riguardo al
pagamento ad opera della società,del debito del proprio socio:
questione dalla quale dipende l’applicabilità della L. Fall., art.
64, in ipotesi di fallimento del solvens e che ha indotto la prima
Sezione della Corte con la ricordata ordinanza di rimessione a
segnalare la sussistenza e la persistenza di un contrasto di
giurisprudenza nell’ambito della Corte. Ciò in quanto,un primo
orientamento,radicato nel tempo ha sostenuto che il pagamento del
debito altrui costituisce per chi paga un atto a titolo gratuito
perchè il beneficio è destinato all’originario debitore rimasto
estraneo all’atto, con la conseguenza che tale liberalità, in caso
di fallimento del “solvens” è da considerarsi inefficace ai sensi
della L. Fall., art. 64 (Cass. 6918/2005; 11093/2004; 5264/1998;
6909/1997; 5616/1992; 6929/1983). Laddove altro indirizzo ha seguito
il principio opposto che in tema di pagamento compiuto dal fallito
per estinguere il debito di un terzo, la gratuità dell’atto ai fini
della revoca L. Fall., ex art. 64, può essere affermata unicamente
in relazione al debitore in quanto l’adempimento ex art. 1180 c.c.,
da parte del soggetto poi sottoposto a procedura fallimentare
configura un atto a titolo gratuito solo nei rapporti fra questi ed
il debitore ove manchi una causa onerosa che ne giustifichi la
liberazione, mentre nei rapporti fra il fallito ed il creditore che
ha ricevuto il pagamento ha carattere indubbiamente oneroso (Cass.
889/2006; 15515/2001; 9560/1991; 3265/1989; 5548/1983).
Infine, Cass. 6739/2008, muovendo dal rilievo che l’adempimento in
senso tecnico è solo il comportamento di chi sia obbligato alla
prestazione, ha affermato che il pagamento del terzo non costituisce
“mera esecuzione dell’obbligazione preesistente ma ha una sua causa
autonoma che può risultare onerosa o gratuita a seconda che l’atto
estintivo del debito dipenda o meno dalla controprestazione di uno
dei due soggetti dell’obbligazione estinta” e che di conseguenza,
agli effetti della L. Fall., art. 64, il pagamento del debito altrui
effettuato da soggetto poi fallito è atto gratuito qualora si tratti
di atto di disposizione del suo patrimonio senza contropartita anche
in un altro rapporto nel cui ambito l’atto risulti preordinato al
soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure
mediato e indiretto.
Nessuna indicazione a favore dell’una o dell’altra tesi è fornita
dalle recenti riforme (L. n. 80 del 2005, e D.Lgs. n. 5 del 2006,
nonchè 169 del 2007), in seguito alle quali la disposizione
dell’art.64 è rimasta invariata rispetto alla formulazione
originaria.
5. Le Sezioni Unite ritengono che le due contrapposte tesi, così in
dottrina come in giurisprudenza,limitando entrambe l’esame nella
ricerca della prestazione e/o della controprestazione al rapporto
bilaterale terzo – creditore (la prima), ovvero debitore – creditore
(la seconda), peraltro nella sua connotazione astratta,finiscono per
risultare egualmente apodittiche e prive di collegamento con il
complessivo regolamento contrattuale predisposto dalle parti ed
ancor più con l’effettivo rapporto economico da esse inteso
perseguire. Al riguardo non può disconoscersi che la L. Fall., art.
64, disponendo l’inefficacia verso i creditori degli atti a titolo
gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori al fallimento
si rivolge,come indica inequivocabilmente il suo stesso tenore
letterale non già ad atti riguardati in funzione della posizione del
creditore,per il fatto che costui ne subisce comunque l’inefficacia,
bensì “agli atti a titolo gratuito” provenienti dal soggetto che
disponga del proprio patrimonio e successivamente venga dichiarato
fallito: tali qualificandoli in virtù della natura obbiettiva
dell’atto, rapportato unicamente ad un elemento oggettivo temporale
anteriore alla dichiarazione di fallimento; e con le sole eccezioni
previste nella seconda parte della norma (regali di uso ed atti
compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica
utilità),la cui previsione non avrebbe senso se la gratuità
dell’atto fosse stata considerata soltanto (o anche) nella
prospettiva del creditore.
Il che corrisponde del resto alla finalità della norma,di cui più
volte questa Corte ha sottolineato il particolare rigore –
equiparabile soltanto a quello del precedente art. 44 – di non
consentire il relativo pregiudizio alla disponibilità patrimoniale
del disponente, che si traduce, in fase fallimentare, nella
menomazione delle possibilità satisfattive della massa dei creditori
concorrenti; sicchè è proprio il pregiudizio provocato dall’atto di
disposizione del proprio patrimonio a divenire elemento essenziale
per giustificare la sanzione dell’inefficacia delle disposizioni,
proprio in funzione della tutela di interessi i cui titolari sono
chiaramente individuati subito nella parte iniziale dell’art. 64,
con riferimento al destinatario del beneficio dell’inefficacia
relativa (i creditori del disponente).
D’altra parte la norma suddetta fa parte integrante del sistema
revocatorio compreso nella 3^ sezione della legge fallimentare in
cui tutte le disposizioni sono ispirate dalla tutela della medesima
ratio del ceto creditorio o di alcuni particolari creditori ed in
cui la nozione di atto a titolo gratuito è utilizzata proprio con
riferimento alla situazione patrimoniale del soggetto poi fallito:
come dimostrano, l’art. 69 che dopo le modifiche introdotte dal
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 54, stabilisce che gli atti a
titolo gratuito compiuti tra coniugi più di due anni prima della
dichiarazione di fallimento, ma nel tempo in cui il fallito
esercitava un’impresa commerciale, sono revocati se il coniuge non
prova che ignorava lo stato d’insolvenza del coniuge fallito; nonchè
l’art. 123, il quale dispone che, in caso di riapertura del
fallimento, sono privi di effetto nei confronti dei creditori gli
atti a titolo gratuito, posteriori alla chiusura e anteriori alla
riapertura del fallimento,compiuti dal fallito (Negli stessi termini
gli artt. 192 – 194 c.p.). Per cui soltanto con un’inammissibile
salto logico è possibile trarre da questa normativa il risultato che
per l’art. 64 rilevano,contrariamente al suo apparente contenuto, il
punto di vista dell’accipiens e della natura gratuita ovvero onerosa
del suo acquisto,da individuare esclusivamente con riferimento al
negozio giuridico intercorso con il suo debitore di cui
l’adempimento del terzo costituisce attuazione,neanche menzionato
pur indirettamente dalla norma; e che per converso non possa venire
in rilievo ed essere considerata, perchè estranea alla pattuizione
tra creditore e debitore, la causa dell’atto di disposizione del
proprio patrimonio posto in essere dal fallito cui invece la
disposizione legislativa fa espresso riferimento.
Nè vale evocare a sostegno di questa interpretazione la L. Fall.,
art. 67, comma 2, che pone fra gli atti onerosi quelli costitutivi
di un diritto di prelazione per debiti,anche di
terzi,contestualmente anche creati; nonchè l’art. 2901 c.c., comma
2, secondo cui le garanzie contestuali per debito altrui sono
considerate a titolo oneroso,perciò privando di rilievo le ragioni
per le quali il garante vincola il proprio patrimonio a garanzia
delle altrui obbligazioni e spostando l’attenzione sulla posizione
del garantito: in quanto entrambe le disposizioni dimostrano
soltanto che il legislatore ha ritenuto di dettare un criterio
specifico per individuare la natura onerosa (o meno) di una
prestazione di garanzia ricollegandola alla contestualità del
credito garantito. E che in virtù della scelta legislativa per
queste situazioni soggettive resta inapplicabile la regola dell’art.
64, proprio per la mancanza del presupposto della gratuità dell’atto
di disposizione del fallito: al cui schema di riferimento nessun
accenno sia pure indiretto è contenuto in alcuna delle due norme,
che semmai confermano piuttosto che smentire l’interpretazione della
norma revocatoria appena recepita (Cfr. Cass. 5 dicembre 1992, n.
12948).
6. Se tuttavia deve ritenersi che agli effetti della L. Fall., art.
64, l’individuazione dell’atto gratuito vada compiuta privilegiando
la prospettiva del solvens, non per questo la relativa nozione e la
distinzione con la categoria degli atti a titolo oneroso, deve
continuare ad essere riferita alla causa del negozio quale
tradizionalmente individuata in base alla nota definizione della
Relazione al Codice civile – “la funzione economico-sociale che il
diritto riconosce ai suoi fini e che solo giustifica la tutela
dell’autonomia privata -; ed applicata negli anni immediatamente
successivi dalla giurisprudenza secondo una concezione unificante le
varie tipologie,necessariamente collegata al “tipo” individuato dal
legislatore (c.d. causa tipica) e perciò fondata sull’astrattezza di
tale requisito. Alla quale costantemente si è riferito il primo
orientamento riconducendo la natura onerosa o gratuita dell’atto
sempre e soltanto nell’ottica del rapporto bilaterale tra chi attua
l’attribuzione ed il creditore che la riceve: perciò richiedendo per
accedere alla prima opzione che le prestazioni siano legate sul
piano giuridico – formale da un nesso sinallagmatico e
corrispettivo; e concludendo sistematicamente per la gratuità
dell’atto di disposizione tutte le volte che non sia stato
costituito alcun corrispettivo con l’accipiens, o che comunque non
risulti un rapporto causale che la giustifichi secondo il modello
tipico.
Siffatta ricostruzione non tiene conto, anzitutto dell’evoluzione
che ha interessato la nozione di “causa del negozio” in questi
ultimi decenni,nè dei risultati al riguardo raggiunti dalla più
qualificata dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità. Le
quali, muovendo dalla categoria delle c.d. “prestazioni isolate”
(artt. 627, 651 e 1197 c.c., art. 1706 c.c., comma 2, artt. 2034 e
2058 c.c., ecc.), mancanti di una loro funzione aggettiva
astrattamente predeterminata,hanno preso in considerazione
particolari categorie di negozi,quali la prestazione di garanzia
(reale o personale) per un debito altrui, la modificazione del lato
passivo del rapporto obbligatorio (delegazione, espromissione,
accollo, art. 1268 c.c. e ss.), l’adempimento del terzo (art. 1180
c.c.), la cessione del credito (art. 1260 c.c.), la rinuncia a un
diritto, fra cui la remissione di debito e, secondo alcuni, la
cessione del contratto: osservando che per essi è difficile
individuare una causa oggettiva nel senso tradizionale, dato che non
c’è una coincidenza fra la funzione pratica del contratto e la causa
economico-giuridica tradizionale; e che tuttavia anche per questi
negozi,classificati “astratti” o “causa astratta o generica”, è
egualmente indispensabile individuare la causa sia pure in base ad
una impostazione differente non soggetta all’obbligo predeterminato
di modelli astratti,ma attenta strettamente al negozio posto in
essere dai contraenti, nonchè all’affare nel suo complesso: quanto
meno onde valutare la meritevolezza dell’operazione alla stregua di
quanto dispone l’art. 1322 c.c., comma 2, e pervenire ad una
giustificazione causale anche nei contratti più complessi,nei
fenomeni dei collegamenti negoziali e più in generale nei negozi da
sempre qualificati “astratti”. Per cui Cass. 10490/2006 ha definito
“causa del contratto”, qualificandola “concreta” in contrapposizione
alla nozione tradizionale, lo scopo pratico del negozio, la sintesi,
cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a
realizzare (c.d. causa concreta), quale funzione individuale della
singola e specifica negoziazione, al di la del modello astratto
utilizzato. E le successive decisioni di questa Corte, rese anche a
sezioni unite (sent. 26972 – 26975/2008), hanno ripetutamente
condiviso e ribadito la nozione di “causa concreta”, rendendo
superflua la nozione di negozio astratto,pur esso inserito in un più
vasto regolamento di interessi; e compiendo la verifica della
giustificazione causale nell’ambito dell’intera operazione economica
compiuta dalle parti.
7. Proprio per la particolare fattispecie dell’adempimento del
terzo, neanch’essa presa in considerazione dal primo indirizzo,e che
pur rientra tra i negozi in passato qualificati a causa astratta o
generica, la recente concezione della causa come funzione concreta
del contratto ben si presta ad interpretare il regolamento voluto
dalle parti in modo più aderente alla realtà.
Come rilevato, infatti, da questa Corte, detto istituto presuppone
che il terzo estraneo ad un rapporto obbligatorio intercorrente tra
altre parti,e dunque non obbligato in proprio ad estinguerlo (come
nel caso del fideiussore o di altro garante), paghi spontaneamente
al creditore dell’obbligazione in questione perciò rivestendo la
natura di figura composita, da un lato negoziale e dall’altro
esecutiva nel momento in cui, attuando un precedente rapporto, si
perfeziona con la diretta esecuzione della prestazione in favore del
creditore,estinguendone la pretesa in forza della specifica
disposizione dell’art. 1180 c.c., (perciò discostandosi
dall’adempimento in senso proprio previsto dall’art. 1218 c.c.):
senza la quale l’adempimento del terzo costituirebbe soltanto una
invasione dell’altrui sfera giuridica (Cass. 889/2006).
Trattandosi allora di un vero e proprio negozio giuridico avente
l’effetto di soddisfare, in modo diverso dallo schema predisposto
dall’art. 1218 c.c., l’interesse del creditore,anche l’adempimento
del terzo resta soggetto alla regola per cui il carattere oneroso o
gratuito dell’attribuzione patrimoniale che esso comporta non può
sfuggire alla regola che deve essere stabilito in riferimento alla
sua causa concreta. La quale rende palese l’irrilevanza
dell’indagine prospettata dal secondo indirizzo giurisprudenziale,
qui non accolto, con riguardo esclusivamente al rapporto bilaterale
debitore-creditore,senza percepire l’interferenza o l’affacciarsi
del terzo nel suddetto rapporto,che diviene necessariamente
trilaterale e comporta comunque la sovrapposizione di un nuovo più
complesso rapporto a quello originario; nè che solo per effetto di
essa e del conseguente coinvolgimento della sfera giuridica del
terzo è apprestato lo strumento di soddisfacimento del creditore,
che diviene oggetto della speciale disposizione della L. Fall., art.
64, ove non disveli, a livello causale,alcun vantaggio patrimoniale
o comunque una qualche utilità economico-giuridica per il solvens.
Ma la qualificazione dell’adempimento del terzo, in sede di azioni
revocatorie, non può limitarsi nemmeno ad una visuale incentrata sul
solo rapporto bilaterale terzo – creditore, e dunque sull’atto o
negozio in sè, nella sua connotazione causale astratta quale
funzione economico-sociale nella ricerca di un nesso diretto fra le
due eventuali controprestazioni di detti soggetti,come preteso
dall’orientamento opposto, sotto tale profilo pur esso inadeguato:
in quanto attraverso lo schema-base individuato dal legislatore
nell’art. 1180 c.c., le parti possono perseguire variegati interessi
meritevoli di tutela, ricorrendo anche ad un collegamento di atti o
negozi diversi, pure non coevi,ma susseguitisi nel tempo; il quale
permette, grazie a semplici connessioni economiche, di realizzare
uno scopo, a seconda dei casi, oneroso o gratuito, mediante
l’utilizzo di atti astrattamente a causa neutra, oppure onerosa o
anche gratuita,ma tutti egualmente strumentali e necessari alla
realizzazione del risultato antitetico. Ed al quale, dunque, deve
guardarsi per valutare se l’atto sia stato compiuto o meno, a titolo
gratuito. Consegue: 1) che variando la causa concreta che ha indotto
il terzo ad adempiere in luogo del debitore, dall’una o dall’altra
ragione discendono effetti o rimedi giuridici diversi, o diversi
rapporti giuridici susseguenti tra il terzo e il debitore; e deve
concludersi che nell’adempimento del terzo sono egualmente
configurabili gratuità o,per converso, onerosità; 2) che seppure la
tipizzazione legislativa dell’istituto avviene con riguardo
all’effetto del negozio (l’estinzione dell’obbligazione), la ragione
concreta, per la quale il terzo interviene nel rapporto creditoredebitore,
deve quindi essere necessariamente verificata caso per
caso dal giudice di merito; 3) che l’atto deve qualificarsi a titolo
gratuito,quando dall’operazione che esso conclude – sia essa a
struttura semplice perchè esaurita in un unico atto, sia a struttura
complessa, in quanto si componga di un collegamento di atti e di
negozi – il terzo non ne trae nessun concreto vantaggio patrimoniale
ed egli abbia inteso così recare un vantaggio al debitore; mentre la
ragione deve considerarsi onerosa tutte le volte che il terzo riceva
un vantaggio per questa sua prestazione dal debitore, dal creditore
o anche da altri, così da recuperare anche indirettamente la
prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio, cui l’ordinamento
pone rimedio con l’inefficacia ex lege come esemplificativamente
avviene nell’ipotesi già esaminata da Cass. 5616/1992, -in cui si
possa allegare e provare l’esistenza di fatti idonei a individuare
un qualche vantaggio, sia pure mediato e indiretto (nel caso
individuato nella cessione di credito), della società poi fallita
con riguardo all’esecuzione della prestazione; nella surrogazione
nel diritto del creditore verso il suo debitore; nella conclusione
di un contratto a favore di terzo, in tale posizione dovendo porsi
il disponente; nell’esistenza di una delegazione di pagamento da
parte del debitore e così via.
In tal modo i concetti di “gratuità ed “economicità” vengono assunti
nel loro significato economico proprio, con spostamento della loro
qualificazione dal negozio all’attribuzione patrimoniale: per la
quale deve tenersi conto dell’interesse economico che si intende
realizzare,anche in via mediata,attraverso la complessa operazione
economica, da parte di chi apparentemente paga il debito altrui
senza corrispettivo: nell’ambito, quindi, del regolamento globale
degli interessi non limitato al singolo “atto di disposizione” da
lui compiuto.
Questi risultati trovano naturale applicazione proprio in relazione
all’individuazione del vantaggio per il terzo nell’ambito del gruppo
societario cui è stato riconosciuto in quest’ultimo decennio
gradualmente rilievo giuridico, e si saldano perfettamente con la
più recente giurisprudenza di questa Corte; la quale ha in
particolare riconosciuto la rilevanza, per la singola società del
gruppo, del soddisfacimento di un ben preciso interesse economico,
sia pure in ragione di un rapporto diverso, quale contropartita del
depauperamento diretto derivato alla società da un’operazione: per
tale ragione non considerata liberale. Ed ha statuito in termini
generali che al fine di verificare se un’operazione abbia comportato
o meno per la società che l’ha posta in essere un ingiustificato
depauperamento occorre tener conto della complessiva situazione che,
nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo
l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente
derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e
l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben
preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto (Cass. 673
9/2008; 12325/1998; 2001/1996).
Per cui le Sezioni Unite devono concludere che pur in presenza del
pagamento del debito di società collegate (ovvero del pagamento del
debito del socio da parte della società partecipata, come nella
fattispecie,© viceversa) può essere esclusa la gratuità del negozio,
quando la società disponente abbia comunque realizzato un suo
vantaggio economico: in quanto, ancorchè manchi il corrispettivo
immediato in termini di diretta sinallagmaticità, tuttavia può
verificarsi, da parte dell’impresa che svolga la sua attività
economica a monte, o a valle, di quella del disponente,
l’acquisizione di un’utilità economica in rapporto di causalità
mediata e indiretta con la prestazione eseguita; che tuttavia si
traduca in un vantaggio patrimoniale concreto. Altrimenti il terzo,
adempiendo ad un debito non proprio,si procura comunque una
diminuzione patrimoniale, costituente un nocumento, che restando
perciò stesso estraneo all’esercizio dell’impresa,diviene come tale,
immeritevole di tutela nell’ambito della disciplina dello statuto di
questa;ed a maggior ragione al lume della disposizione revocatoria
della L. Fall., art. 64.
8. Resta da esaminare come si ripartisca l’onere della prova nel
relativo giudizio:ricordando a tal fine, che secondo i principi
generali, di cui all’art. 2697 c.c., il curatore che agisce deve
provare l’integrazione della fattispecie della norma invocata,e
dunque, che l’atto – di cui vuole si dichiari l’inefficacia – sia a
titolo gratuito; ma che detta prova può essere offerta anche tramite
presunzioni.
Ed in relazione all’adempimento del terzo,tanto la dottrina,quanto
la giurisprudenza di merito hanno correttamente ritenuto che,
mancando nello schema causale tipico la controprestazione in favore
del disponente, si presume che l’atto sia stato compiuto
gratuitamente:pagando il terzo per definizione un debito non proprio
e non prevedendo la struttura del negozio alcuna attribuzione
patrimoniale a suo favore ; sicchè diviene onere del creditore
beneficiario provare con ogni mezzo che pure il disponente ha
ricevuto un vantaggio in seguito all’atto che ha posto in essere, in
quanto questo perseguiva un suo interesse economicamente
apprezzabile (Cfr. Cass. 4770/2007 in relazione alla concessione
della garanzia da parte del fideiussore; nonchè Cass. 26325/2006 in
tema di atto compiuto nell’interesse del gruppo sociale; Cass.
1831/2001 in tema di concessione di ipoteca a garanzia di debito
altrui).
Nel caso,invece,pur essendo pacifico che la soc. A, poi fallita
ricevuto il mutuo per cui è causa dall’B, attraverso le operazioni
bancarie avanti menzionate, ha attribuito la relativa somma alla
Banca popolare di C, creditrice dei propri soci per estinguerne i
debiti verso l’istituto di credito, dalla sentenza impugnata non
risulta che quest’ultimo abbia dimostrato o quanto meno allegato la
sussistenza di un interesse apprezzabile di detta società in ordine
all’atto dispositivo dalla stessa compiuto. Ed anzi la Corte
territoriale ha accertato senza specifiche e motivate contestazioni
al riguardo della banca creditrice, che la prova documentale
acquisita (sentenze penali, perizie, relazioni della curatela in
sede penale, ecc.) dimostrava che si era trattato di una vera e
propria distrazione dei fondi societari (di cui peraltro erano a
conoscenza la Banca ed i suoi funzionari) senza corrispettivo e con
pregiudizio del patrimonio immobiliare sociale, al solo fine di
ripianare i rapporti personali dei soci A.
Per cui il Collegio deve confermare il carattere gratuito nel caso
concreto dell’atto di disposizione e la sua assoggettabilità
all’inefficacia di cui alla norma menzionata; ed enunciare,infine,
il seguente principio di diritto: “In tema di revocatoria
fallimentare di atti a titolo gratuito, ai sensi della L. Fall.,
art. 64, la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va
compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta,costituita dallo
scopo pratico del negozio, e cioè dalla sintesi degli interessi che
lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione
individuale della singola e specifica negoziazione, al di la del
modello astratto utilizzato; per cui la relativa classificazione non
può più fondarsi sulla esistenza o meno di un rapporto
sinallagmatico e corrispettivo tra le prestazioni sul piano tipico
ed astratto,ma dipende necessariamente dall’apprezzamento
dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del solvens,
quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del
rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva
di subire un depauperamento collegato o non collegato ad un sia pur
indiretto guadagno o ad un risparmio di spesa. Pertanto,
nell’ipotesi di estinzione da parte del terzo, poi fallito, di
un’obbligazione preesistente cui egli sia estraneo, l’atto solutorio
può dirsi gratuito, agli effetti della L. Fall., art. 64, solo
quando dall’operazione che esso conclude – sia essa a struttura
semplice perchè esaurita in un unico atto, sia a struttura
complessa, in quanto si componga di un collegamento di atti e di
negozi- il terzo non ne trae nessun concreto vantaggio patrimoniale
ed egli abbia inteso così recare un vantaggio al debitore; mentre la
ragione deve considerarsi onerosa tutte le volte che il terzo riceva
un vantaggio per questa sua prestazione dal debitore, dal creditore
o anche da altri, così da recuperare anche indirettamente la
prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio, cui l’ordinamento
pone rimedio con l’inefficacia ex lege”.
9. Deve, infine, respingersi anche il ricorso incidentale del
Fallimento,che si articola in due motivi,con i quali la Curatela,
deducendo violazione degli artt. 820, 1224 e 1282 c.c., nonchè art.
112 c.p.c., censura la decisione di appello: a) per avere
considerato nuova la richiesta di attribuzione degli interessi
legali,malgrado la stessa fosse compresa in quella di restituzione
di tutte le maggiori somme dovute per interessi corrisposti per i
depositi attivi;e comunque formulata nella memoria conclusionale
depositata in primo grado; b) per avere dichiarato di valuta il
proprio credito senza considerare la natura illecita dell’atto
revocato che doveva indurre la Corte ad attribuire e calcolare di
ufficio sia gli interessi legali,che la svalutazione monetaria.
Quanto a quest’ultimo profilo,infatti,la ricorrente pur
menzionandolo, non ha tenuto in alcun conto il principio più volte
enunciato da questa Corte, che in ipotesi di vittorioso esperimento
della revocatoria fallimentare relativa ad un pagamento eseguito dal
fallito nel “periodo sospetto”, l’obbligazione restitutoria
dell'”accipiens” soccombente in revocatoria ha natura di debito di
valuta e non di valore: atteso che l’atto posto in essere dal
fallito (che va tenuto distinto dalle pregresse vicende dalle quali
è derivato) è originariamente lecito e la sua inefficacia
sopravviene solo in esito alla sentenza di accoglimento della
revocatoria. Mentre in ordine al primo è sufficiente ricordare la
distinzione tra l’ipotesi in cui il giudice di merito incorra
nell’omesso esame di una domanda e quella in cui si censuri
l’interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa
compresi, o esclusi, alcuni aspetti della controversia, base ad una
considerazione non condivisa dalla parte: poichè soltanto nel primo
caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112
c.p.c., denunciata dal Fallimento. La quale non ricorre nel caso
concreto, avendo la Corte di appello preso specificamente in esame
la sua richiesta di interessi legali sulle somme che la controparte
è stata condannata a restituire:ritenendola tuttavia infondata e
specificandone dettagliatamente le ragioni.
Pertanto le Sezioni Unite, devono ribadire: a) che gli interessi
sulla somma da restituirsi da parte del soccombente decorrono dalla
data della domanda giudiziale e che il risarcimento del maggior
danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma
di denaro oggetto della revocatoria spetta solo ove l’attore alleghi
specificamente tale danno e dimostri di averlo subito (Cass.
14896/2009; 6991/2007; 887/2006; nonchè sez. un. 437/2000); b) che
fuori dell’ipotesi di interessi su una somma dovuta a titolo di
risarcimento del danno, i quali ne integrano una componente nascente
dal medesimo fatto generatore, gli interessi stessi, siano moratori,
corrispettivi o compensativi, hanno un fondamento autonomo rispetto
all’obbligazione pecuniaria cui accedono; e, pertanto, possono
essere attribuiti solo su espressa domanda della parte, che ne
indichi la fonte e la misura, in applicazione dei principi previsti
negli artt. 99 e 112 c.p.c., (Cass. 4423/2004); c) che la relativa
domanda non può essere avanzata per la prima volta nella comparsa
conclusionale; e che non può neppure ipotizzarsi un’accettazione del
contraddittorio ad opera della controparte, consentito soltanto fino
al momento della rimessione della causa al collegio per la
discussione.
Le spese del giudizio vanno gravate sulla Banca D. rimasta
soccombente e si liquidano in favore della Curatela come da
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna
la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in
favore della Curatela in complessivi Euro 12.200,00 di cui Euro
12.000 per onorario di difesa,oltre spese generali ed accessori come
per legge.
Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2009.
Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2010