Gli amministratori sono responsabili come nelle spa
A questa conclusione giunge il Tribunale di Milano con la sentenza 501 del 18 gennaio 2011 che interviene sulla dibattuta problematica della responsabilità degli amministratori delle srl verso i creditori sociali.
I termini della questione
Nella riforma del diritto societario (Dlgs 6/2003) non è stata prevista espressamente l’esperibilità dell’azione da parte dei creditori sociali nei confronti degli amministratori delle società a responsabilità limitata.
In precedenza, l’articolo 2487, comma 2 del codice civile, nel disciplinare le regole delle srl, prevedeva l’applicazione, agli amministratori di queste società, delle responsabilità degli amministratori delle spa (articolo 2394). Gli amministratori delle spa, infatti, rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori qualora il patrimonio sociale sia risultato insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti.
Con il decreto 6/2003 il rinvio in questione non è stato più previsto, con la conseguenza che era stata esclusa la responsabilità verso i creditori sociali da parte degli amministratori delle srl.
Il contrasto interpretativo
La dottrina e la giurisprudenza non sono concordi sull’argomento, esistendo un contrasto in merito all’estensibilità dell’articolo 2394 del codice civile, in via analogica, anche nei confronti delle srl. Va detto che la tesi favorevole all’estensione appare maggioritaria (Tribunale di Roma, sentenza 17/12/2008, Tribunale di Nola, sentenza 18/6/2009, Tribunale di Pescara, sentenza 15/11/2006, Tribunale di Vicenza, sentenza 26/7/2010).
Secondo un altro orientamento invece, i creditori sociali delle società a responsabilità limitata non potrebbero più esercitare, in conseguenza della riforma del diritto societario, l’azione di responsabilità riferibile ora ai soli amministratori delle spa (per tutti, Tribunale Milano 25/1/2006).
Le conseguenza pratiche
Di norma le azioni di responsabilità vengono proposte dal curatore fallimentare al quale, in base all’articolo 2394 bis del codice civile, spetta questa incombenza in caso di fallimento.
A questo proposito la Corte di cassazione, con la sentenza 17121 del 2010 ha ritenuto legittima l’azione in questione da parte del curatore anche per le società a responsabilità limitata, nonostante la mancanza di una esplicita previsione normativa. Ciò in quanto, secondo la Cassazione, il curatore può esercitare qualsiasi azione di responsabilità contro gli amministratori di qualsivoglia tipologia di società.
La tesi del tribunale di Milano
La sentenza 501/2011 conferma la responsabilità degli amministratori delle srl verso i creditori sociali. Secondo i giudici, l’eventuale assenza di una disciplina della responsabilità degli amministratori delle srl verso i creditori sarebbe inconciliabile con il sistema di responsabilità degli organi gestori delineato dalla riforma.
La mancata espressa previsione nelle nuove norme sarebbe, quindi, la conseguenza di una svista di coordinamento della normativa e non invece una scelta legislativa, anche perché non vi è alcuna menzione di tale circostanza nella relazione illustrativa del decreto di riforma del diritto societario.
La sentenza, peraltro, avvalora anche la tesi che nelle srl con collegio sindacale obbligatorio, i creditori potrebbero agire contro i sindaci per l’omesso controllo che ha concorso a determinare l’insufficienza del patrimonio sociale ove questi non abbiano esperito i necessari controlli.
Ne conseguirebbe, in tale contesto, che l’eventuale esclusione degli amministratori, responsabili diretti della gestione, e non dei sindaci risulterebbe paradossale.
La sentenza, infine, evidenzia che una differente interpretazione determinerebbe problemi di legittimità costituzionale sia per una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai creditori della società per azioni, sia perché il legislatore delegato della riforma delle società non era stato autorizzato all’eliminazione dell’azione dei creditori sociali delle srl.
La decisione
Tribunale di Milano, sentenza 501 del 18 gennaio 2011
Anche alla luce della legislazione riformata, tuttavia, deve reputarsi che il curatore sia legittimato all’esercizio dell’azione sociale e dell’azione dei creditori della srl (…) Se si dovesse opinare diversamente si verificherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i creditori di una srl e quelli di una spa. Ciò deve indurre l’interprete a ravvisare la legittimazione in capo al curatore anche per l’azione dei creditori sociali, in ragione dell’irragionevole sfasatura tra la disciplina della srl e quella della spa. La norma di cui all’articolo 2394 del Codice civile deve dunque essere applicata in via analogica alle srl, sicché, in caso di fallimento, il curatore sarebbe legittimato a esperirla, e in via esclusiva, ex articolo 2394 bis Codice civile. In altre parole, l’applicazione analogica (…) alle srl discende dalla constatazione di un vuoto normativo che pare ascrivibile più a una svista di coordinamento della normativa in tema di srl, piuttosto che a una specifica scelta legislativa di cui non si trova traccia nella legge delega e nella relazione alla legge. Un’eventuale precisa scelta in questo senso – ossia l’assenza di una disciplina concernente la responsabilità degli amministratori di srl verso i creditori per la violazione degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio – sarebbe inconciliabile con il sistema di responsabilità degli organi gestori
I precedenti e le norme di comportamento
01|LA GIURISPRUDENZA
La motivazione del decreto del tribunale di Trieste segue la tesi di altri giudici di merito (tribunale di Roma, 6 settembre 2004; tribunale di Salerno, 26 febbraio 2008; tribunale di Napoli, 14 maggio 2008; tribunale di Milano, 26 marzo 2010). La sentenza 403/2010 della Cassazione era stata di diverso avviso e aveva affermato l’inammissibilità del controllo giudiziario previsto all’articolo 2409 del Codice civile nella società a responsabilità limitata
02|I COMMERCIALISTI
La norma 6.3 delle «Norme di comportamento del collegio sindacale» delCndcec, in vigore dallo scorso 1° gennaio, auspica che lo strumento di controllo giudiziario previsto dall’articolo 2409 venga ritenuto ammissibile, anche su ricorso del collegio sindacale, per ragioni basate sull’unitarietà del sistema dei controlli
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Tribunale di Milano – Sentenza 18 gennaio 2011, n. 501
FATTO E DIRITTO
Il FALLIMENTO X s.r.l., dopo avere ottenuto un provvedimento ante causam di sequestro conservativo, ha
convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Milano E.C., R.C. (padre e figlia) e D.C., quali amministratori della X
s.r.l., nonché la società D. srl chiedendo la condanna dei signori C. e C. al ristoro di tutti i danni derivati
dall’illegittima prosecuzione dell’attività dopo la perdita del capitale sociale, per distrazione di somme, pagamenti
preferenziali, oltre alla condanna di D. srl al risarcimento del danno per avere percepito pagamenti lesivi della par
condicio e per avere beneficiato di investimenti per migliorie sui propri beni, realizzati con risorse economiche
provenienti dalla fallita.
I convenuti si sono tutti costituiti in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree.
Il procedimento è stato istruito con consulenza tecnica, e dopo alcuni rinvii motivati dalla pendenza di trattative
rivelatesi infruttuose, la causa è passata in decisione all’udienza in data 11.11.2010.
Prima di esaminare analiticamente le censure mosse dal fallimento all’operato degli amministratori e di D., vanno
risolte due questioni pregiudiziali o potenzialmente assorbenti relative alle domande proposte nei confronti di E. e R.
C., e di D. O.
Occorre subito esaminare – con riferimento alla posizione degli amministratori – la prima questione pregiudiziale
sollevata dai convenuti C. e C. che hanno contestato la legittimazione del curatore ad esperire l’azione di
responsabilità.
In proposito il Collegio rileva che l’azione proposta dal curatore concerne un’articolata vicenda della vita della società
che si pone a cavallo tra la disciplina previgente e quella novellata dal D.Lgs. n. 3 del 2003, entrato in vigore il
1.1.2004.
Ebbene, in ragione del carattere sostanziale, e non meramente processuale, della disciplina in materia di
responsabilità degli amministratori, deve considerarsi acquisito dalla società X srl, e dai creditori di questa, ogni
diritto maturato mentre era in vigore la precedente disciplina. A ciò consegue che il curatore fallimentare è
certamente legittimato a proporre sia l’azione sociale sia quella dei creditori sociali in forza del richiamo delle norme
sulla società per azioni nella disciplina della società a responsabilità limitata (combinato disposto dai previgenti artt.
2392-2394- 2487 c.c.; 146 l.f.), per i fatti antecedenti al 1.1.2004, data di entrata in vigore della riforma del diritto
societario.
Anche alla luce della legislazione riformata, tuttavia, deve reputarsi che il curatore sia legittimato all’esercizio
dell’azione sociale e dell’azione dei creditori della srl. Certamente non vi sono ostacoli a ravvisare la legittimazione
all’azione solidale, posto che essa è espressamente prevista dall’art. 2476 c.c. e 146 l. f., restando irrilevante, ai fini che
qui interessano, stabilire se l’azione sociale – in caso di società in bonis – preveda esclusivamente la legittimazione del
socio, ovvero anche quella della società. Con riferimento, poi, all’azione spettante ai creditori sociali, si osservi che la
nuova formulazione della norma dell’art. 146 l.f. va intesa come volta a ricostituire, attraverso il richiamo a tutte “le
azioni di responsabilità contro gli amministratori” quella completezza che in passato attribuiva il richiamo contenuto
nel vecchio testo dell’art. 2487 c.c., riportando il sistema a quella coerenza che aveva nella normativa abrogata.
Questa interpretazione scongiurerebbe l’illegittimità costituzionale dell’omessa previsione per i creditori delle s.r.l. di
una previsione che – analogamente a quanto avviene in forza dell’art. 2394 bis c.c. – consenta in caso di fallimento al
curatore di agire anche in nome dei creditori in via esclusiva contro gli amministratori. Se si dovesse opinare
diversamente si verificherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i creditori di una s.r.l. e quelli di una s.p.a.
Ciò deve viepiù indurre l’interprete a ravvisare la legittimazione in capo al curatore anche per l’azione dei creditori
sociali, in ragione dell’irragionevole sfasatura tra la disciplina della s.r.l. e quella della s.p.a. La norma di cui all’art.
2394 c.c. deve dunque essere applicata in via analogica alle s.r.l., sicché, in caso di fallimento, il curatore sarebbe
legittimato ad esperirla, ed in via esclusiva, ex art. 2394 bis c.c.
In altre parole, l’applicazione analogica dell’art 2394 c.c. alle s.r.l. discende dalla constatazione di un vuoto normativo
che pare ascrivibile più ad una svista di coordinamento della normativa in tema di s.r.l., piuttosto che ad una specifica
scelta legislativa di cui – peraltro – non si trova traccia nella legge delega e nella relazione alla legge. Un’eventuale
precisa scelta in questo senso – ossia l’assenza di una disciplina concernente la responsabilità degli amministratori di
s.r.l. verso i creditori per la violazione degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio – sarebbe
inconciliabile con il sistema di responsabilità degli organi gestori come delineato dalla riforma, dal momento che la
disciplina della s.r.l. non sarebbe coordinata con quella di cui agli artt. 2485 e 2486 u.c., con quella dei gruppi, con la
regolamentazione della responsabilità dei sindaci. Si osservi a quest’ultimo proposito, che:
• il creditore potrebbe agire contro gli amministratori della s.r.l. in stato di scioglimento ex art. 2486 c.c. ma non
contro quelli della s.r.l. operativa;
• il creditore potrebbe agire contro la controllante della debitrice s.r.l. e contro gli amministratori di quest’ultima (art.
2497 c.c.), ma non contro gli amministratori della s.r.l. qualora essa non fosse soggetta a direzione e coordinamento;
• in caso di s.r.l. con collegio sindacale obbligatorio ex art. 2477 c.c. dovrebbe essere applicata la norma di cui all’art.
2407 2° c.c. che richiama l’art. 2394 c.c., sicché i creditori di una s.r.l. con collegio sindacale obbligatorio potrebbero
agire contro i sindaci per l’omesso controllo che avrebbe concorso a determinare l’insufficienza del patrimonio
sociale, ma non – paradossalmente – contro gli amministratori che l’avrebbero direttamente provocata.
Deve quindi concludersi nel senso dell’affermazione della legittimazione del curatore del fallimento di società a
responsabilità limitata ad esperire l’azione sociale e l’azione dei creditori sociali.
Gli amministratori convenuti hanno inoltre eccepito la prescrizione dell’azione (per l’esame dell’analoga eccezione di
D. si rimanda al prosieguo).
Il FALLIMENTO ha dedotto che detta eccezione sarebbe tardiva, perché non è stata formulata nella comparsa di
risposta, ed è stata sollevata per la prima volta nella prima memoria di replica. Ebbene, il Tribunale reputa che la
questione sia stata tempestivamente prospettata, avuto riguardo al differente testo dell’art. 167 c.p.c. rispetto alla
norma speciale dettata dall’art. 4 del D.lgs. n. 5 del 2003, posto che quest’ultima disposizione, applicabile ratione
temporis al procedimento per cui è causa, non include le eccezioni in senso stretto tra le facoltà da esercitare a pena
di decadenza con la comparsa di risposta. Da ciò deriva che l’eccezione di prescrizione sollevata per la prima volta
con la memoria ex art. 7, D.Lgs. n. 5 del 2003 non può dirsi tardiva.
Sulla questione della prescrizione, è noto che – secondo giurisprudenza costante – l’azione di responsabilità nei
confronti di amministratori o sindaci di una società, esercitata dai creditori, ovvero dal curatore fallimentare, è
soggetta a prescrizione quinquennale ex art. 2949, 2° comma, c.c., che decorre dal momento della manifestazione
dell’insufficienza patrimoniale (si vedano, per tutte, Cass. n. 9815 del 2002 e Cass. Sez. Unite n. 5241 del 1981). Nel
caso in esame non è contestato che il dissesto poteva desumersi solo dal bilancio al 31.12.2003, mai pubblicato,
sicché l’insolvenza si è manifestata in concomitanza con la dichiarazione di fallimento della società X srl del
novembre 2004. Si osservi, anzi, che la stessa difesa C. non ha contestato che l’insolvenza sia stata percepibile
all’esterno solo con la dichiarazione di fallimento (si veda, in particolare, il contenuto della pag. 5 della comparsa
conclusionale, in cui si sottolinea solo la data di cessazione dell’incarico formale di E. O.). In ogni caso, i convenuti
non hanno adempiuto l’onere posto a loro carico in ordine all’indicazione, ed alla relativa prova, del diverso
momento in cui il dissesto sarebbe divenuto riconoscibile ai terzi. Non rileva, infatti, riguardo ai creditori sociali, ai
fini della prescrizione, il momento di cessazione della carica degli amministratori, tenuto conto che esso può venire
ad emergenza solo nei rapporti interni tra la società ed i suoi organi (art. 2941 n. 7), c.c.)
Considerato dunque che il tracollo è divenuto palese nel novembre del 2004 e che la citazione è stata notificata nel
luglio 2008, risulta evidente che per l’azione di responsabilità dei creditori sociali non è maturata la prescrizione.
I predetti rilievi rendono superfluo esaminare la questione della prescrizione con riferimento all’azione sociale di
responsabilità esercitata dal curatore.
Le contestazioni mosse dal FALLIMENTO agli amministratori.
Il FALLIMENTO chiede il ristoro dei danni cagionati al patrimonio sociale destinato alla soddisfazione dei creditori
dall’aggravamento del dissesto derivato dalla prosecuzione dell’attività dopo la perdita del capitale sociale, che era
stata occultata tramite la falsificazione dei dati di bilancio per gli esercizi dal 1999 al 2002 (mediante
sopravvalutazioni delle voci di “immobilizzazioni immateriali” ed “immobilizzazioni materiali”, oltre che, nel 2002,
della voce “fondo per rischi ed oneri”), perdita verificatasi alla fine dell’esercizio 1999. L’illegittima prosecuzione
dell’attività si risolveva nella gestione della sala da ballo a C. nel corso della quale sarebbero stati compiuti i denunciati
investimenti sui beni appartenenti a D. srl che formavano oggetto dell’affitto d’azienda per € 276.085,20.
L’attore ha denunciato inoltre la distrazione della cassa per € 91.301,29 e i pagamenti preferenziali rappresentati dai
corrispettivi per l’affitto d’azienda versati a D. srl dal 2000 alla data della dichiarazione di fallimento per € 254.220,73.
La distrazione della cassa (€ 91.301,29).
La circostanza, desunta dalla relazione del curatore, non è contestata dai convenuti. Non si dimentichi che la
ricordata relazione, in quanto formata da pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni (art. 33 l.f.) fa piena prova
fino a querela di falso degli atti e dei fatti che egli attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza
(Cass. n. 8704 del 1998), sicché il fatto materiale del mancato reperimento della somma in discorso tra i beni aziendali
risulta dunque incontrovertibile. I convenuti, sui quali grava l’onere probatorio dell’impiego di tale somma per fini
coerenti con l’attività sociale, hanno taciuto sul punto.
Si aggiunga, riguardo ai sigg. C., che in relazione a tale atto distruttivo è intervenuta la sentenza di patteggiamento,
con le descritte conseguenze probatorie nell’ambito di questo giudizio (v. capo 1). Sul punto, il Collegio condivide i
principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo i quali “la sentenza penale di applicazione della pena ex
art. 444 c.p.p. (cosiddetto “patteggiamento”) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il
quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe
ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto
riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere
utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile”, (tra le tante, si consultino Cass. n.
132 del 2008; n. 9358 del 2005; n. 4193 del 2003).
I convenuti C. non hanno ai riguardo allegato alcun argomento che possa indurre il Tribunale a credere che essi si
siano indotti ad una simile scelta per ragioni diverse dall’ammissione della propria colpevolezza. Deve per converso
sottolinearsi che l’entità della pena applicata agli imputati (tre anni per E. C. e due anni e quattro mesi per la figlia R.
depone a favore della consapevolezza e del riconoscimento da parte dei convenuti delle proprie responsabilità penali.
L’addebito non può essere riconosciuto nei confronti del sig. C. per le ragioni che saranno illustrate in prosieguo,
nella parte dedicata alla posizione del ricordato convenuto.
I pagamenti preferenziali (€ 254,220,731).
Relativamente ai pagamenti effettuati a D. in violazione della par condicio credito rum e per i quali è intervenuta
applicazione della pena ex art. 444 cpp nei confronti dei convenuti C. per il reato di cui all’art. 216, terzo comma, l.f.,
si pone il problema se sia configurabile un danno da pagamento preferenziale per la massa dei creditori, a tutela dei
quali il curatore agisce esercitando l’azione ex artt. 2486 c.c. e 146 l.f.
È certamente vero che la legge stabilisce che il patrimonio del debitore costituisce la garanzia dell’adempimento delle
sue obbligazioni (art. 2740 c.c.), e che su tale patrimonio i singoli creditori hanno diritto di soddisfarsi in eguale
misura, fatte salve le cause legittime di prelazione. Gli amministratori della società hanno certo l’obbligo di
conservare l’integrità del patrimonio sociale e, come si diceva, la violazione di tale obbligo che abbia determinato
l’insufficienza del patrimonio a soddisfare tutti i debiti sociali implica la responsabilità risarcitoria verso i creditori
sociali. Se poi la società, come nel caso in esame, si trova in stato di scioglimento, gli stessi hanno altresì il dovere di
conservare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale, e ne rispondono verso i soci, i creditori sociali, e i terzi (art.
2486 c.c.). In ogni caso, se il patrimonio è divenuto insufficiente rispetto alla massa dei debiti gli amministratori sono
tenuti, stante il disposto dell’art. 216 citato, ad agire in modo da non ledere la par condicio credito rum.
Ne consegue che qualora siano compiuti pagamenti preferenziali si produce, per effetto di questi, un danno specifico
nel patrimonio dei singoli creditori rimasti insoddisfatti corrispondente all’incremento della falcidia subita, ossia alla
minore misura in cui ciascuno può concorrere sull’attivo liquidato, salve le legittime cause di prelazione.
In altre parole, la soddisfazione di un creditore al posto di un altro, che a ciò sia legittimato secondo la corretta
graduazione dei crediti, può tutt’al più generare una contesa tra le posizioni soggettive individuali dei singoli creditori,
ma non anche un pregiudizio per la massa creditoria considerata nel suo complesso, che mantiene comunque la
medesima consistenza anche in caso di pagamento preferenziale, qualunque sia il creditore beneficiato dal pagamento
lesivo della par condicio tra quelli aventi diritto di partecipare al concorso.
Si noti, poi, che tale pregiudizio individuale diretto, verrebbe a delinearsi compiutamente e definitivamente solo con
l’esecuzione del riparto finale, e all’esito dell’esperimento infruttuoso o insufficiente di eventuali azioni revocatorie,
sicché esso sarebbe imputabile in via immediata e diretta agli amministratori solo se alla sua determinazione non
avesse dato causa lo stesso curatore che – ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, c.c. – non avesse esercitato per
tempo le revocatorie o le altre azioni recuperatorie possibili.
Così delineato il pregiudizio connesso alla condotta di bancarotta preferenziale, il pregiudizio extracontrattuale
direttamente cagionato nella sfera patrimoniale del singolo creditore, e circoscritto alla differenza tra quanto
percepito in sede di riparto e quanto sarebbe stato percepibile in assenza di pagamenti preferenziali, si tratta poi di
stabilire chi possa agire per il suo ristoro in caso di fallimento della società: in considerazione della regola generale di
cui all’art 81 c.p.c. sembra al Collegio che solo ciascun creditore possa agire contro l’amministratore che abbia
cagionato un danno alla propria ragione di credito ex art. 2043 c.c. o ex art. 2395 c.c., poiché nessuna norma ne
consentirebbe l’esercizio al curatore. Non vengono in soccorso, a tale riguardo, le norme di cui agli artt. 42 – 43 l.f.,
secondo le quali spetta al curatore fallimentare, in ragione del fenomeno del c.d. spossessamento, la legittimazione
sostanziale e processuale per l’esercizio e la tutela dei diritti del fallito; non aiuta invocare l’art. 2394 bis c.c. che
attribuisce al curatore una legittimazione straordinaria ad agire contro gli amministratori per far valere i diritti dei
creditori derivanti dal dovere di cui all’art. 2486 c.c., e dunque per ottenere una tutela del tutto diversa e assorbente
rispetto al danno al singolo creditore di cui si discute; non serve far ricorso all’art. 146 l.f. per il quale il curatore può
esercitare “le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo o direttori
generali e i liquidatori” e quella contro il socio ex art. 2476 comma 7° c.c., ovvero le c.d. azioni di massa, volte alla
ricostituzione dell’integrità del patrimonio sociale, ma non le azioni individuali spettanti ai singoli creditori.
Si deve quindi concludere che il curatore non è legittimato ad agire per il ristoro del danno subito direttamente ed
individualmente dal singolo creditore per effetto della condotta dell’amministratore, e che nella specie non sarebbe
comunque possibile, allo stato, definire puntualmente il pregiudizio sofferto dalla massa, in mancanza di ogni
specifica deduzione sul punto ad opera dell’attore.
Non può essere quindi riconosciuta la voce di danno dedotta dal FALLIMENTO per gli intervenuti pagamenti
preferenziali.
Resta da esaminare il profilo di danno denunciato relativamente all’illegittima prosecuzione dell’attività di rischio
dopo il verificarsi della causa di scioglimento.
Il Tribunale reputa che la perdita del capitale sociale al 31.12.1999, l’omessa convocazione dell’assemblea per le
iniziative conseguenti, l’occultamento delle perdite tramite falsificazioni in bilancio, e la prosecuzione dell’attività
aziendale in forma non conservativa rappresentino circostanze che in causa devono essere tenute per ferme con
riguardo al C., perché da questo non puntualmente contestate, ed in quanto la difesa da questo svolta si incentra –
come si dirà tra poco – sull’affermazione di non avere mai preso parte all’attività sociale, e dunque si risolve in una
dichiarazione confessoria della violazione dei doveri dell’amministratore. Non si dimentichi che dagli atti si ricavano
dati di segno contrario a quello indicato dalla parte, che depongono invece per la consapevolezza in capo a detto
convenuto dell’andamento negativo dell’impresa, posto che D. C. risulta avere partecipato alle assemblee persino in
epoca successiva alla comunicazione delle dimissioni (in tale contesto appare significativo che la rinuncia a proseguire
l’incarico, secondo quanto è pacifico, non sia stata oggetto di iscrizione al Registro delle imprese).
Ed ancora, la perdita del capitale sociale, le falsificazioni dei dati di bilancio, e la prosecuzione vietata non sono
contestate neppure dai convenuti C. nelle note di osservazioni alla CTU; tali fatti vanno poi considerati come
riconosciuti in forza dell’intervenuta applicazione della pena ex art. 444 cpp. Si legga in particolare l’imputazione sub
3).
Il FALLIMENTO ha dunque prospettato – come si diceva – il danno da aggravamento del dissesto dal 31.12.1999
fino alla data della dichiarazione di fallimento (novembre 2004) che nel caso in esame – va subito anticipato – ben
potrebbe essere determinato con valutazione equitativa nella differenza tra lo sbilancio patrimoniale esistente alla
data di perdita del capitale sociale, e quella riscontrabile alla data di fallimento.
In passato la giurisprudenza soleva imputare alla responsabilità dell’organo gestorio la differenza tra attivo e passivo
fallimentare, ma tale indirizzo è stato poi abbandonato in seguito al rilievo dei profili di inadeguatezza di un simile
criterio, che si poteva rivelare erroneo per eccesso – posto che il deficit fallimentare può essere derivato anche da
scelte gestionali infelici, notoriamente insindacabili nel merito, e non soltanto da comportamenti colposi degli
amministratori – o persino per difetto, tenuto conto che esso non si esaurisce necessariamente nelle perdite derivate
dalla mala gestio, e che una parte dei creditori può avere rinunciato all’ammissione al passivo.
Da ciò deriva che il risarcimento da porre a carico degli amministratori non può prescindere dalla individuazione nel
novero degli atti produttivi di danno, di quelli che concretamente hanno cagionato danno, dovendosi espungere dallo
sbilancio fallimentare il deficit patrimoniale che promana da scelte gestionali compiute prima dell’insorgenza della
causa di scioglimento e che avevano logorato il capitale, sia quello scaturito da scelte gestionali legittime perché
strumentali alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, ancorché in concreto rivelatesi pregiudizievoli per
la società.
Occorre dunque – in linea generale – compiere uno scrutinio caso per caso delle conseguenze patrimoniali imputabili
alle singole operazioni poste in essere dall’organo gestorio dopo il verificarsi della causa di scioglimento, al fine di
delibare se si sia trattato di operazioni vietate incidenti negativamente sul patrimonio sociale, e nei limiti in cui si sia
effettivamente verificata una perdita (in questo senso l’orientamento ormai consolidato del Supremo collegio: si
vedano per tutte Cass. n. 2538 del 2005; n. 16211 del 2007 e n. 17033 del 2008). Da ciò deriva che il curatore
fallimentare che voglia far valere la responsabilità degli amministratori per violazione del dovere ex art. 2486 c.c. ha
l’onere di specificare i singoli atti gestori concretamente adottati dagli amministratori in violazione del ricordato
divieto, e di provare il danno derivato da tali comportamenti antidoverosi.
Nel passare in modo più stringente a calare i principi ora ricordati al caso che ci occupa, occorre tenere presente che
il criterio di determinazione del danno può essere operato in via equitativa, secondo l’illustrato indirizzo
giurisprudenziale a cui il Collegio aderisce, in caso di fallimenti di società per le quali si deduce una notevole
anteriorità della perdita del capitale rispetto alla dichiarazione di insolvenza. In queste ipotesi si tratta di valutare un
complesso di attività, a volte attraverso documentazione contabile non del tutto chiara o completa, con speciale
difficoltà nell’individuare in modo sufficientemente circostanziato le operazioni non coerenti con il fine conservativo,
sicché si può fare ricorso a criteri presuntivi e sintetici di allegazione e dimostrazione, che si basano sulla
verosimiglianza nel caso concreto dell’imputazione causale di un certo risultato negativo per il patrimonio sociale.
In tali casi, si può dunque ritenere assolto l’onere di allegazione – quando il curatore fallimentare deduce che la
perdita del capitale e lo stato di scioglimento della società sono anteriori alla dichiarazione dello stato di insolvenza, o
alla formale messa in liquidazione della società, e afferma che gli amministratori hanno proseguito l’attività d’impresa
provocando un’ulteriore perdita, ossia superiore rispetto a quella registrata al momento dello scioglimento di fatto,
alla luce della differenza tra i netti patrimoniali individuati, da un Iato, alla data di scioglimento di fatto, e, dall’altro,
alla data della dichiarazione di fallimento, salvo poi valutare se l’ipotizzato incremento dello sbilancio si sia
effettivamente verificato alla luce di una corretta comparazione tra i due dati contabili.
In altre parole, giungendo così più direttamente alla valutazione del dissesto di srl, si osservi che le rilevanti difficoltà
di valutare il complesso dell’attività vietata svolta dalla società fallita, che ha proseguito a gestire una sala da ballo
situata in [Omissis] nell’arco temporale di circa quattro anni (1999-2004), e l’impossibilità di ricostruire i dati con
I’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli amministratori, e
segnatamente alle operazioni non coerenti con il fine conservativo, costituiscono la premessa che legittima
l’utilizzazione del criterio presuntivo e sintetico della differenza dei netti patrimoniali, che ben può sorreggere una
valutazione equitativa del danno (v. Cass. n. 2538 del 2005).
Nel caso di specie il Tribunale ribadisce che in astratto è possibile utilizzare il criterio equitativo della perdita
incrementale, ove si consideri che il lungo tempo trascorso tra il momento di integrale erosione del capitale sociale e
la data della dichiarazione di fallimento impedisce una minuziosa ricostruzione ex post delle singole operazioni
vietate – perché non conservative – depurate del valore dell’eventuale ricavo (art. 2449 c.c. vecchio testo, e art. 2486
c.c. vigente: si noti che l’illegittima prosecuzione dell’attività si è protratta dal 2000 al novembre 2004, sicché le due
norme citate, di segno pressoché corrispondente, per la parte che qui rileva, sono entrambe applicabili al caso di
specie ratione temporis). È noto che il previgente art. 2449 c.c. contemplava seccamente per gli amministratori il
divieto di nuove operazioni, mentre l’attuale art. 2486 c.c. dispone che questi ”conservano il potere di gestire la
società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”. Si ritiene tuttavia
comunemente in dottrina che la diversa formulazione della norma abbia avuto il solo scopo di esplicitare un
principio già affermatosi in giurisprudenza, che, in plurime occasioni, aveva spiegato che il divieto doveva riferirsi
solo alle operazioni fonte di nuovo rischio d’impresa, e che erano per converso consentiti gli atti di impresa
strumentali alla conservazione del patrimonio ed alle necessità inerenti alla liquidazione (si pensi, ad esempio,
all’assunzione di costi per il completamento di una commessa in corso, volti ad evitare gli obblighi risarcitoli derivanti
dall’inadempimento). Da ciò deriva che ben può essere ricercata la determinazione del quantum nel passivo
accumulato dopo il momento di raggiungimento del dissesto, vale à dire nella differenza tra i patrimoni netti al
31.12.1999 e alla data del fallimento.
Riguardo all’individuazione della data in insorgenza nell’amministratore della consapevolezza del raggiungimento del
dissesto (31.12.1999, oppure data di predisposizione del bilancio d’esercizio), basti considerare la linearità delle
osservazioni del CTP del FALLIMENTO (dr.ssa M.), che traendo evidente spunto dal corso ordinario degli eventi,
ha osservato come l’amministratore di una società sia in grado di ben apprezzare l’andamento della gestione nel corso
dell’esercizio, dovendo calibrare le proprie scelte operative di acquisto e di spesa di volta in volta, secondo il risultato
di gestione conseguito medio tempore, e non è pertanto credibile, in mancanza di deduzioni specifiche che
permettano di opinare in senso contrario, che l’esito dell’attività annuale possa essere apprezzato solamente alla
chiusura dei conti, ed al momento della redazione della bozza di bilancio.
Ciò posto, il dato riguardante lo sbilancio fallimentare, pari ad € 1.320.856, ed è di facile rilevazione, perché non più
contestato, a seguito della correzione dell’errore materiale da parte del curatore nel corso del giudizio.
Il CTU, a seguito della riclassificazione delle poste di bilancio, e recepite in buona parte le deduzioni del
FALLIMENTO attore riguardo alle falsificazioni denunciate, ha individuato l’incremento dello sbilancio
patrimoniale nell’importo di € 975.655,32 per E.C. (in carica alla data del 31.12.1999) ed in € 809.204,19 per gli altri
due amministratori, che hanno ricevuto l’incarico dal novembre 2000.
Le parti – si ribadisce – non hanno contestato la perdita del capitale sociale, come valutata dal CTU, al 31.12.1999, né
la maggior parte delle riclassificazioni operate dal consulente d’ufficio che l’attore aveva ricondotto alle falsificazioni
censurate in citazione. Paiono tuttavia condivisibili i rilievi svolti dalla CTP dei convenuti C. (dr.ssa G.), in relazione
alla cartella esattoriale 1996, e alle voci “immobilizzazioni materiali nette”.
Quanto al primo punto, è pacifico e dimostrato che lo stato passivo include un importo pari ad € 667.119
concernente l’insinuazione del concessionario per la riscossione ESATRI spa a titolo di IVA, IRPEG ed ILOR
relative al periodo d’imposta 1996, portate da una cartella esattoriale notificata nel dicembre 2002. La passività, è
evidente, inerisce ad un periodo antecedente alla perdita del capitale sociale, e non può pertanto essere considerata
causalmente derivata dalla illegittima prosecuzione dell’attività dopo il 31.12.1999 (per E.C., o anche dopo il
novembre 2000 per gli altri due amministratori), posto che essa si sarebbe comunque manifestata anche a prescindere
dall’insorgere della causa di scioglimento.
Neppure può essere presa in considerazione la domanda di condono presentata (e non onorata) nel 2002, poiché tale
atto gestorio è stato compiuto in epoca successiva alla liquidazione di fatto (si condividono sul punto i rilievi della
CTP dr.ssa G.).
Dal dato di sbilancio indicato dal CTU va dunque sottratto l’importo sopra indicato di € 667.119.
E ancora, va totalmente espunta la voce “immobilizzazioni immateriali nette” per Lire 508.520.093, pari ad €
262.629, che riflette costi capitalizzati non corrispondenti ad attività monetizzabili ai fini della liquidazione, tenuto
conto che le due grandezze in considerazione (sbilancio riferito alla data della perdita del capitale sociale – sbilancio
della procedura concorsuale) devono essere rese omogenee dal punto di vista dei criteri di valutazione utilizzati. In
altre parole, nel momento in cui una società viene a trovarsi in stato di liquidazione – sia pure in via di mero fatto – i
suoi elementi patrimoniali devono essere considerati in un’ottica liquidatoria e non secondo la prospettiva di
continuazione dell’attività imprenditoriale.
Dall’importo indicato dal CTU va dunque detratta l’ulteriore somma di € 262.629.
Lo sbilancio patrimoniale si risolve dunque astrattamente – stando ai calcoli del CTU come ora rettificati –
nell’importo di € 45.907,32 per il solo E. C., per gli altri due amministratori la differenza è evidentemente in positivo.
Con riferimento al convenuto C. si noti tuttavia che dovendosi avere riguardo al risultato di gestione riferito alla data
del fallimento, occorre includere nel computo dell’attivo anche la somma che figurava nella cassa sociale (€
91.301,29), posto che tale importo era in astratto compreso nell’attivo fino a quel momento, sebbene conseguito a
seguito della prosecuzione vietata dell’attività d’impresa. Da ciò discende che anche per E.C. il confronto tra i
patrimoni netti genera un saldo in positivo, tanto da comportare non un incremento, bensì una diminuzione dello
sbilancio rispetto alla data di raffronto del 31.12.1999.
Gli investimenti su beni di D. (€ 276.085,20).
È incontroverso che la società fallita ha sostenuto costi per effettuare migliorie sui beni inerenti all’azienda presa in
affitto da D. srl, società riconducibile alla famiglia C. per l’ammontare complessivo, dal 2000 al 2003, di € 276.085,20.
Il curatore ha sostanzialmente denunciato tali investimenti come profilo della condotta di prosecuzione vietata della
gestione d’impresa, posto che nella narrativa della citazione, ribadita o non smentita nei successivi scritti difensivi, tali
operazioni sono sempre prospettate in collegamento e in unione con l’illegittima attività non conservativa.
Il danno lamentato dal FALLIMENTO deve però essere limitato al risultato pregiudizievole per X srl degli
investimenti di cui si discute. Sul punto occorre ricordare che grava sull’attore l’onere della prova del compimento, da
parte degli amministratori, di iniziative di carattere non conservativo del patrimonio sociale, dell’ammontare dei danni
e del nesso causale rispetto al che ne è danno asseritamente derivato. Ebbene, nel corso della consulenza tecnica i
convenuti non hanno acconsentito – come pure era legittimo ai sensi della disposizione ex art. 198 c.p.c. – a dare
ingresso in causa alla documentazione (essenzialmente le fatture relative alle migliorie apportate ai beni aziendali) che
il FALLIMENTO solo in quella sede ha offerto di produrre, e dalla quale sarebbe forse stato possibile ricavare
qualche dato utile per l’accertamento in parola. Il CTU ha potuto dunque solo desumere il dato globale risultante
dalla contabilità disponibile, ma non ha potuto individuare le illegittime operazioni compiute. Giova ribadire che
grava sul FALLIMENTO l’onere di allegazione e di prova del fatto che dopo la perdita del capitale sociale, gli
amministratori hanno intrapreso l’iniziativa imprenditoriale al di fuori di una logica meramente conservativa, e di
indicare quali conseguenze negative sul piano del depauperamento del patrimonio sociale ne sarebbero derivate, al
netto dei ricavi conseguiti.
Ciò è mancato nella prospettazione attorea, che si è limitata ad attribuire agli amministratori la responsabilità
risarcitoria per ogni spesa relativa alle migliorie sui beni dell’azienda presa in affitto.
La voce di danno in esame non può dunque essere posta a carico degli amministratori.
In conclusione, gli amministratori C. sono tenuti a ristorare il FALLIMENTO della complessiva somma
corrispondente alla distrazione della cassa per € 91.301,29, importo che – per evitare ogni possibile duplicazione di
danno con rifermento ad C. – va considerata assorbente, per le ragioni già dette, rispetto alla perdita incrementale dal
31.12.1999 alla data del fallimento. Da tale responsabilità dovrà invece andare esente D. C. per le ragioni che si
illustreranno in prosieguo.
La posizione degli amministratori.
E. C.
È incontestato che il convenuto C. è stato amministratore di diritto dalla costituzione della società fino all’anno 2000.
La deduzione dell’attore secondo la quale egli sarebbe stato amministratore di fatto fino alla data della dichiarazione
di fallimento trova un determinante elemento di sostegno nella sentenza di patteggiamento emessa dal Tribunale di
Milano (v. doc. 9 del FALLIMENTO). Tra i fatti di cui all’imputazione, oggetto di pena concordata tra l’imputato e il
pubblico ministero, è incluso – tra l’altro – il ruolo di amministratore di fatto del sig. C. fino alla data della
dichiarazione di fallimento. Oltre al già svolto rilievo sull’entità della pena inflitta al C. deve constatarsi che in atti
sono riscontrabili alcuni indici che tendono ad avvalorare il convincimento del ruolo svolto in ambito societario da
E.C., quali:
– le dichiarazioni rese al curatore dal convenuto C. (pag. 55 della relazione del perito del pubblico ministero);
– la lettera inviata al curatore da un creditore della società fallita, che ha indicato in E.C. la persona che si occupava
dei rapporti con i fornitori: pag. 42 della relazione ex art. 33 l.f.;
– la presenza in azienda in occasione del pignoramento da parte dell’ufficiale giudiziario.
R.C.
La convenuta ha assunto l’incarico di amministratore di diritto dal novembre 2000 fino alla data del fallimento.
D.C.
Ha ricoperto l’incarico di amministratore di diritto dal novembre 2000, ed ha rassegnato le dimissioni in data
26,11.2003. Il FALLIMENTO chiama D. C. a rispondere di ogni voce di danno, al pari dei convenuti C.,
imputandogli la violazione del dovere di vigilanza. Il sig. C. nell’ammettere di essersi disinteressato
dell’amministrazione, finisce per riconoscere di avere violato il dovere di vigilare sul buon andamento della gestione
societaria, e dunque di non essersi adoperato affinché non fossero compiute nuove operazioni. Va tuttavia constatato
che a fronte del riconoscimento di responsabilità dei sigg. C. riguardo alla distrazione di somme dalla cassa sociale, il
sig. C. ha invece contestato di avere preso parte all’illecita sottrazione. Il FALLIMENTO, tuttavia, non ha indicato
alcun elemento utile alla collocazione temporale della condotta distrattiva, sicché essa non può essere univocamente
riconducibile ad un’epoca antecedente alla cessazione dell’incarico del C.
La domanda proposta nei confronti di D. deve dunque essere rigettata.
La posizione di D.
Va ricordato che il FALLIMENTO ha chiesto la condanna di D. srl al risarcimento del danno per avere percepito
pagamenti lesivi della par condicio, e per avere beneficiato di investimenti per migliorie sui propri beni, realizzati con
risorse economiche provenienti dalla fallita.
Valgono le osservazioni svolte in precedenza – quanto ai pagamenti preferenziali – sull’assenza di legittimazione del
curatore, e comunque di danno per la massa dei creditori globalmente intesa.
Riguardo agli investimenti asseritamente effettuati su cose proprietà di D. e segnatamente sui beni aziendali che
questa aveva concesso in affitto alla società fallita va esaminata anzitutto l’assorbente eccezione di prescrizione.
Non sembra mettere in dubbio che la domanda proposta dal FALLIMENTO nei confronti della convenuta D. srl è
volta a far valere un ordinario risarcitorio da fatto illecito, e costituisce esercizio dell’azione di risarcimento da
responsabilità aquiliana, azione che era già presente nel patrimonio del fallito alla data della dichiarazione di
fallimento. Da ciò deriva che il termine di prescrizione quinquennale ex art. 2497 c.c. del diritto al risarcimento danni
da fatto illecito inizia a decorrere dal verificarsi del fatto causativo del danno. Dalla relazione del CTU risulta che alla
luce dei dati contabili gli investimenti in parola sono cronologicamente collocabili negli anni dal 2000 al 2003 (per
quest’ultimo esercizio nella misura di € 56.214,78).
L’atto di citazione è stato notificato nel luglio 2008, sicché l’asserito danno per investimenti eseguiti negli anni 2000-
2002 è certamente prescritto. Per l’anno 2003 si deve giungere a conclusione opposta, poiché la convenuta D. srl non
ha dato alcuna prova dell’esecuzione delle spese in commento in epoca idonea a fare ritenere fondata la eccezione di
prescrizione (v. sull’onere della prova Cass. 17832 del 2002; n. 4295 del 1990).
Per detti ultimi investimenti il FALLIMENTO ha tuttavia trascurato di offrire una puntuale dimostrazione del
carattere pregiudizievole dei fatti censurati, per le ragioni già illustrate, e del quantum del danno cagionato alla massa.
La domanda nei confronti di D. srl deve quindi essere respinta.
In conclusione, gli amministratori E. e R.C. devono essere condannati in solido al pagamento, in favore del
FALLIMENTO srl della complessiva somma di € 91.301,29. Su tale somma vanno calcolati la rivalutazione
monetaria fino alla data attuale, e gli interessi, ai sensi di legge, dalla data del fallimento fino al momento del saldo
effettivo.
Ed infatti, l’obbligazione risarcitoria da fatto illecito extracontrattuale, costituisce un debito di valore, non assumendo
alcun rilievo, al riguardo, il fatto che l’evento dannoso coincida con la perdita della somma di denaro, tenuto conto
che nella responsabilità aquiliana – dove l’obbligazione risarcitoria mira alla reintegrazione del patrimonio del
danneggiato – viene in rilievo la perdita del valore oggetto della sottrazione del denaro dal patrimonio della società
fallita, e ciò di cui è debitore il responsabile del danno non è una data somma di denaro, ma l’integrale risarcimento
del danno, di cui la somma originaria costituisce solo una componente ai fini della relativa commisurazione. Ne
consegue che l’obbligazione di risarcimento del danno costituisce un’obbligazione di valore sottratta al principio
nominalistico, sicché la rivalutazione monetaria va riconosciuta, tenendo conto della svalutazione sopravvenuta fino
alla data della liquidazione. E altresì risarcibile il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato
conseguimento della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la tecnica degli interessi computati
non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione ma sulla somma originaria rivalutata
anno per anno (sul punto si vedano Cass. n. 5234 del 2006 e n. 4587 del 2009), oltre agli interessi anatocistici ex art.
1283 c.c. – espressamente richiesti dall’attore – a decorrere dalla domanda giudiziale.
Va dichiarata l’integrale inefficacia del provvedimento cautelare emesso nei confronti di D. srl e D. C. il sequestro
conservativo è inefficace nei confronti degli altri due convenuti per la parte che supera l’importo riconosciuto a
credito dell’attore per capitale, interessi e rivalutazione, e spese di lite (art. 669 novies c.p.c.).
Le spese sopportate da D. srl e da D.C. vanno poste a carico del FALLIMENTO in ragione della soccombenza, e si
liquidano per la prima in complessivi € 18.637,00 di cui e 15.000 per onorari, e per l’altro in € 12.500,00, di cui €
9.500,00 per onorari, per entrambi oltre rimborso forfettario, IVA e CP.
In relazione alla regolazione delle spese, va osservato che in relazione al rapporto processuale instauratosi tra il
FALLIMENTO ed i convenuti E. e R. C. non può porsi a carico dei convenuti soccombenti l’integrale ristoro delle
spese sostenute dal FALLIMENTO, posto che l’attore ha rifiutato in corso di causa un’offerta conciliativa che
prevedeva il pagamento in suo favore di una somma largamente superiore – € 360.000 – rispetto a quella che ora gli
viene riconosciuta (artt. 91 e 92 c.p.c.). Le spese di lite vanno dunque compensate per la metà. La residua metà va
posta a carico dei convenuti sigg. C. in solido tra loro, e si liquida in € 11.068,00, di cui € 9.250,00 per onorari, oltre
ad € 7.860,00 pari alla metà delle spese di CTP.
Le spese di consulenza tecnica vanno poste definitivamente a carico del FALLIMENTO per un quarto, ed a carico
dei convenuti C. in solido per tre quarti.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza disattesa o assorbita, così decide:
1. condanna E. C., R. C. in solido tra loro al pagamento, in favore del FALLIMENTO X srl, della complessiva
somma di € 91.301,29, oltre alla rivalutazione monetaria fino alla data attuale, e gli interessi da computarsi sulla
somma originaria rivalutala anno per anno, ed oltre agli interessi anatocistici ex art. 1283 c.c. a decorrere dalla
domanda giudiziale;
2. compensa per un mezzo le spese di causa in relazione al rapporto processuale, instauratosi tra l’attore ed i
convenuti C. e condanna i predetti convenuti al pagamento del residuo mezzo in favore del FALLIMENTO,
liquidato detto mezzo in complessivi € 11.068,00, di cui € 9.250,00 per onorari, oltre ad € 7.860,00 pari alla metà delle
spese di CTP;
3. respinge la domanda proposta dal FALLIMENTO nei confronti di D. C. e D. srl;
4. condanna il FALLIMENTO al rimborso delle spese di lite sostenute dalla convenuta D. srl, che liquida in
complessivi € 18.637,00 di cui € 15.000 per onorari, oltre rimborso forfettario, IVA e CP;
5. condanna il FALLIMENTO al rimborso delle spese di lite sostenute dal convenuto C. che liquida in complessivi €
12.500,00, di cui € 9.500,00 per onorari, oltre rimborso forfettario, IVA e CP;
6. pone le spese di consulenza tecnica definitivamente a carico dei convenuti E. C., R. C. e D. C. in solido per tre
quarti, ed a carico del FALLIMENTO per il residuo quarto;
7. dichiara l’inefficacia del sequestro conservativo emesso nei confronti di D. srl e D.;
8. dichiara l’inefficacia del sequestro conservativo emesso nei confronti degli altri due convenuti per la parte che
supera l’importo riconosciuto a credito dell’attore per capitale, rivalutazione, interessi e spese di lite.