giovedì, 21 novembre 2024

Cassazione civile, sez. I, 23 maggio 2011, n. 11279, Il comportamento ostruzionistico del fallito non legittima la liberazione dai debiti.

Una coppia di coniugi, soci di una società di fatto dichiarata fallita, inoltrano istanza al Tribunale per ottenere la liberazione dai debiti residui nei confronti dei debitori non soddisfatti, di cui all’art. 142, L. Fall. Gli stessi si vedono rigettare la domanda poiché ritenuti responsabili di comportamenti preordinati a ritardare la procedura concorsuale. Propongono reclamo in appello ed in seguito ricorso per cassazione.

I ricorrenti deducono che le condotte definite dai giudici di merito come “ostative” rappresentano di fatto operazioni legittime, frutto di una lecita strategia di salvataggio dell’impresa. Contestano il fatto che il giudice abbia dato rilievo, peraltro, alla sentenza di patteggiamento per bancarotta fraudolenta emanata a loro carico, quando ai sensi degli art. 651 e segg. c.p.p. non fa stato nei giudizi civili e amministrativi.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, argomenta che il fallito può essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui verso i creditori non soddisfatti qualora non abbia ritardato, ovvero contribuito a ritardare, lo svolgimento della procedura, rilevando che il verbo “ritardare” rappresenta un sinonimo di “ostacolare” e che quindi le relative azioni si pongono in contrasto col principio di ragionevole durata del processo.

Evidenzia inoltre che l’espressione “in alcun modo” utilizzata dal legislatore, si riferisce a ogni azione o condotta che abbia contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura, comprendendo anche le azioni giudiziarie cd. “pretestuose”. Infatti i coniugi instaurarono un procedimento conclusosi con dichiarazione di inammissibilità e contestarono il rendiconto del curatore per poi abbandonare la relativa causa. Il giudice di legittimità spiega che nelle condotte definite ostative dalla L. Fall. debbono rientrare, nel caso di specie, gli atti di disposizione del patrimonio posti in essere dai coniugi con la consapevolezza che la crisi dell’impresa era divenuta irreversibile. Questi affittarono, ad un canone irrisorio, taluni beni immobili facenti capo alla società, poi fallita, al di loro figlio: a seguito del fallimento il curatore dovette intraprendere una procedura esecutiva stante il rifiuto opposto dal figlio al rilascio.

La condotta che ha determinato il ritardo della procedura non può imputarsi al figlio, poiché terzo, bensì ai coniugi che concessero immobili in affitto con la consapevolezza della crisi dell’impresa.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 23 maggio 2011, n. 11279

Svolgimento del processo

Con separati decreti in data 4.12.2008 il Tribunale di Rimini rigettava l’istanza di ammissione al beneficio della esdebitazione L. Fall., ex art. 142, (liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti) proposta da M.R. e B.A.M., dichiarati falliti quali soci della società LA.RE.M s.d.f. con sentenza in data 30.6,1994, procedura poi chiusa per compiuta ripartizione finale dell’attivo con decreto 31.1.2008.

Il diniego del beneficio veniva motivato dal Tribunale per avere gli istanti tenuto, nel corso della procedura concorsuale, un comportamento non conforme ai requisiti previsti dalla L. Fall., art. 142, nn. 1 e 2, essendo risultato dalla relazione del curatore che avevano posto in essere condotte volte a ritardare lo svolgimento della procedura e comportanti aggravio di spese.

Quanto a M.R. il primo giudice aveva inoltre ritenuto che la presenza di una sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. per il reato di bancarotta fraudolenta fosse, comunque, ostativa alla concessione del beneficio.

Avverso tale decisione il M. e la B. hanno proposto reclamo dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna, che con decreto in data 10.11.2009, ha respinto il reclamo, ritenendo fatti ostativi alla concessione del beneficio: 1) l’aver concesso in affitto al figlio R. per canoni inadeguati, prima del fallimento e quando era già sussistente la crisi dell’impresa, l’azienda e gli immobili di proprietà, che, intervenuto il fallimento del M. e della B., l’affittuario non aveva provveduto a riconsegnare immediatamente al fallimento, costringendo il curatore ad iniziare una procedura esecutiva per il recupero conclusasi nel 1999, ritardandone in tal modo la vendita; 2) l’avere proposto reclamo ex art. 26 avverso il decreto di trasferimento degli immobili, instaurando così una controversia conclusasi soltanto con decreto di inammissibilità del ricorso da parte della Corte di Cassazione; 3) l’avere il M. contestato il rendiconto finale depositato dal curatore, determinando così l’insorgere di un ulteriore procedimento contenzioso conclusosi con l’abbandono della causa da parte del predetto; 4) l’essere stati entrambi gravati da sentenza ex art. 444 c.p.p., emessa in data 293.2000, con la quale era stata loro applicata una pena detentiva di anni 1 e mesi 10 per il reato di bancarotta fraudolenta.

Avverso detto provvedimento M.R. e B.A. M. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. Il Fallimento di M.R. e B.A. M., quali soci di fatto della LA.RE.M. s.d.f. non si è costituito in giudizio. I ricorrenti hanno presentato osservazioni per iscritto sulle conclusioni del pubblico ministero ex art. 379 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la nullità del provvedimento impugnato per il mancato intervento del pubblico ministero nella procedura di esdebitazione. Secondo i ricorrenti, siccome la L. Fall., art. 143 (nella nuova formulazione) prevede che il decreto che provvede sul ricorso, inteso ad ottenere il beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, può essere impugnato con reclamo L. Fall., ex art. 26 anche dal pubblico ministero, il decreto di reiezione dell’istanza degli attuali ricorrenti avrebbe dovuto essere comunicato al pubblico ministero ai sensi degli artt. 740 e 71 c.p.c.. Tale omissione renderebbe nullo il provvedimento impugnato.

Il motivo di ricorso in esame è inammissibile.

L’art. 158 c.p.c. stabilisce che la nullità derivante dai vizi relativi all’intervento del pubblico ministero è insanabile e deve essere rilevata d’ufficio, salva la disposizione dell’art. 161.

L’art. 161 stabilisce a sua volta che la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione. Alla luce di tale normativa devesi ritenere che la denunciata nullità non sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ma che si converte in motivo di impugnazione, ossia che può essere fatta valere solo nei limiti e secondo le regole proprie dell’appello e del ricorso per cassazione (cfr. per tutte cass. n. 14699 del 2003 resa a sezioni unite). Nel caso che ne occupa non risulta che i ricorrenti abbiano denunciato la nullità, di cui sopra, in sede di reclamo, per cui la denuncia di detta nullità con il ricorso per cassazione devesi ritenere preclusa.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al combinato disposto della L. Fall., artt. 26, 142 e 143, giusto la novella normativa del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e del D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 – in sostituzione dell’intero capitolo titolo 2, capo 9 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 -, nonchè dell’art. 360 c.p.c., nn. 2, 3, 4 e 5.

Deducono i ricorrenti che le condotte, ritenute dal giudice a quo ostative alla concessione del beneficio in questione, non possono essere ritenute rientranti nel disposto della L. Fall., art. 142, nn. 1 e 2, atteso che il ritardo nella definizione della procedura non sarebbe il risultato di colpevoli condotte sabotatrici dei falliti, ma conseguenza di comportamenti di terzi e di lecite operazioni da collocare nell’ambito di una legittima e comprensibile strategia di salvataggio dell’impresa e di un doveroso intervento contestativo, specificamente volto ad un previsto controllo giurisdizionale, trattandosi di contestazioni legittime e disciplinate dalla legge.

In particolare, per quanto riguarda il ritardato rilascio degli immobili, affittati al figlio prima della dichiarazione di fallimento, assumono i ricorrenti che tale ritardo non potrebbe essere loro imputato, essendo conseguenza del comportamento di un terzo, l’affittuario degli stessi. Il reclamo avverso il decreto di trasferimento degli immobili e la contestazione del rendiconto del curatore non potrebbero essere sussunti sotto il disposto della norma summenzionata, atteso che, anche se hanno contribuito a ritardare i tempi di chiusura del fallimento, tale accadimento non sarebbe riferibile a condotte intese colpevolmente a ritardare la definizione della procedura concorsuale, ma conseguenza di lecite operazioni volte al controllo del regolare svolgimento della procedura stessa.

Deducono ancora i ricorrenti che avrebbe errato il giudice a quo nel dare rilievo al fatto che gli stessi siano stati “gravati da sentenza ex art. 444 c.p.p., emessa in data 29.3.2000, con cui è stata loro applicata pena detentiva di anni 1 e mesi 10 per il reato di bancarotta fraudolenta”.

Secondo i ricorrenti il giudice di merito non avrebbe dovuto dare rilievo a detta sentenza, nè ai sensi della L. Fall., art. 142, comma 1, n. 5, nè ai sensi del successivo n. 6, considerato che la sentenza, emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., non fa stato in processi civili o amministrativi (art. 651 e segg. c.p.p.), e che la sentenza di applicazione della pena su richiesta costituisce una condanna sui generis, che non può contenere dichiarazione alcuna di condanna. Tale motivo di ricorso è infondato.

La L. Fall., art. 142, nella nuova formulazione introdotta dal D.Lgs. n. 5 del 2006, tra le condizioni, perchè il fallito persona fisica possa essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, richiede (comma 1, n. 2) che “non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare Io svolgimento della procedura”. Il termine “ritardare” è sinonimo di “ostacolare” e, quindi, indicativo di un comportamento da ritenersi antigiuridico, perchè in contrasto con il fondamentale principio di durata ragionevole del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed all’art. 111 Cost., comma 2.

La generica espressione “in alcun modo” implica, poi, che qualsiasi azione o comportamento, che abbia ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura – vale a dire che abbia determinato o contribuito a determinare una irragionevole durata della procedura fallimentare -, rientri nell’ambito di applicazione di detta norma e che, pertanto, debbano esservi incluse anche eventuali azioni giudiziali, introdotte dal debitore fallito, che si siano rivelate destituite di fondamento e pretestuose e che possano, quindi, ritenersi proposte all’unico scopo di ritardare o, comunque, contribuire a ritardare lo svolgimento della procedura fallimentare.

Ciò è quanto è accaduto nel caso di specie, avendo accertato ed evidenziato il giudice a quo che gli attuali ricorrenti presentarono reclamo L. Fall., ex art. 26 avverso il decreto di trasferimento degli immobili acquisiti al fallimento, determinando la instaurazione di un procedimento conclusosi con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso dei falliti da parte della Corte di Cassazione, e che M.R. contestò anche il rendiconto depositato dal curatore, determinando così l’insorgere di un altro procedimento contenzioso, conclusosi, poi, con l’abbandono della causa da parte del medesimo ricorrente.

Tra i comportamenti antigiuridici, di cui alla disposizione in questione, devono essere ragionevolmente inclusi anche gli atti di disposizioni del proprio patrimonio, posti in essere dall’imprenditore, nella consapevolezza della irreversibilità della crisi dell’impresa, avendo da tale momento il dovere di astenersi dal compiere tutti quegli atti che possono in qualche modo pregiudicare o ritardare la liquidazione dei beni dell’impresa, destinati ormai, in conseguenza della crisi in atto, ad essere liquidati per provvedere al soddisfacimento dei creditori nel rispetto della par condicio degli stessi. Anche chi, consapevole della irreversibilità dello stato di insolvenza, omette di chiedere il fallimento e nella consapevolezza di tale situazione compie atti di disposizione del proprio patrimonio, ritarda o contribuisce a ritardare lo svolgimento della procedura, atteso che rende necessarie azioni recuperatorie da parte della curatela (azioni revocatorie, azioni di rilascio di beni immobili), che spesso comportano un lungo e impegnativo contenzioso.

Anche siffatto comportamento devesi ritenere, pertanto, condizione ostativa alla concessione del beneficio della esdebitazione.

Nel caso in esame il giudice a quo ha evidenziato che gli attuali ricorrenti, pur consapevoli della irreversibile crisi della loro impresa, anzichè richiedere il fallimento, affittarono l’azienda e gli immobili di proprietà ad una società, allo scopo costituita ed amministrata dal figlio R., concordando canoni di affitto del tutto inadeguati. Intervenuta la dichiarazione del fallimento dei predetti (in data 30 giugno 1994), l’affittuario si rifiutò di provvedere alla riconsegna dei beni alla prevista scadenza contrattuale (31.7.1996), costringendo il curatore ad avviare una procedura esecutiva per il rilascio degli immobili, conclusasi soltanto alla fine di 1999, e rendendo in tal modo difficile la vendita.

In simile contesto non si può ritenere con i ricorrenti che tale ritardo debba essere esclusivamente imputato al comportamento di un terzo, avendo il loro comportamento precedente al fallimento contribuito a determinare il ritardo nella definizione della procedura concorsuale, avendo reso più difficoltosa, con l’affittarli, la futura vendita dei beni affittati da parte della curatela fallimentare.

Per quanto riguarda la censura, con la quale si contesta il rilievo dato alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., il collegio osserva che, anche se tale sentenza non può avere efficacia di giudicato nel processo civile, potrebbe pur sempre valere come utile indizio.

Comunque tale censura si palesa irrilevante, atteso che il giudice di merito ha ritenuto assorbenti, al fine di negare il beneficio della esdebitazione, gli altri comportamenti sopra esaminati e non ha ritenuto, quindi, l’esistenza della condanna ai sensi dell’art. 444 c.p.p. determinante ai fini della decisione.

Il ricorso, pertanto deve essere respinto, senza alcuna pronuncia sulle spese non essendosi l’intimato costituito in giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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