giovedì, 21 novembre 2024

Corte di Cassazione, Sentenza 32899 del 26 agosto 2011, Responsabilità per imprudente prosecuzione dell’attività in stato di insolvenza.

Guai a “credere” troppo in una società decotta. Se un imprenditore si rende conto che l’azienda è impantanata in una situazione di crisi grave e irreversibile ha il dovere di chiederne il fallimento. Perseverare in un’attività improduttiva, anziché chiuderne i battenti, è giuridicamente “diabolico” e può far scivolare dritti dritti verso una condanna per bancarotta semplice.

A queste conclusioni è giunta la Corte di cassazione, con la sentenza n. 32899, depositata ieri. Una sentenza che conferma le precedenti decisioni di merito, rendendo irrevocabili le sanzioni a carico di due imprenditori i quali, appunto, si erano astenuti dal chiedere tempestivamente il fallimento della propria società e avevano continuato a finanziarla. «Correttamente – scrive la quinta sezione penale della Cassazione – i giudici di merito hanno evidenziato come fin dall’inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell’attività imprenditoriale dei due imputati, con l’accumulo di perdite che avevano eroso l’intero capitale sociale già nel primo anno, ed hanno rilevato (…), come lo squilibrio fosse progressivamente aumentato proprio a causa della caparbia, pervicace, ma altrettanto imprudente prosecuzione dell’attività».
I giudici hanno, inoltre, sottolineato come «in mancanza di un’attenta valutazione delle reali prospettive della impresa e di interventi di ricapitalizzazione», siano state sostanzialmente irrilevanti «le immissioni di fondi personali dei soci, che, in quanto avvenute sotto forma di finanziamenti e non di aumento di capitale, avevano ulteriormente aggravato la posizione debitoria della società, divenuta per tale motivo irrecuperabile».

A nulla è valso perciò eccepire, da parte dei due imputati, che avevano continuato a immettere fondi nella società «per la fiducia che nutrivano nel progetto imprenditoriale», poi «fallito perché rivelatosi non attuabile nelle concrete condizioni di mercato».
Per la Corte lo stato di dissesto costituisce «non tanto una condizione di generico disordine dell’attività della società», quanto una situazione
«di squilibrio economico patrimoniale progressivo e ingravescente, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei debitori».

Scarica sentenza:  corte-cassazione-sentenza-32899

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