giovedì, 21 novembre 2024

Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 17.1.2012, n. 621; Prescrizione ed azione verso amministratori di società: il dies a quo è riferibile al momento dell’astratta conoscibilità.

Prescrizione ed azione verso amministratori di società: il dies a quo è riferibile al momento dell’astratta conoscibilità.


L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società è soggetta a prescrizione quinquennale, decorrente dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza dell’insufficienza del patrimonio sociale ai fini della soddisfazione dei loro crediti; detta insufficienza, consistente nell’eccedenza delle passività sulle attività, non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale, che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo, nè allo stato d’insolvenza di cui alla L. Fall., art. 5, trattandosi di una condizione di squilibrio patrimoniale più grave e definitiva, la cui emersione non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento, potendo essere anteriore o posteriore.

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Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 17.1.2012, n. 621

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 27.12.04, ha respinto l’appello proposto da F.M. avverso la sentenza 26.3.02 del Tribunale che, accogliendo la domanda L. Fall., ex art. 146, svolta nei suoi confronti dal Fallimento della S.A.RO – Società Appalti Roma – s.r.l., lo aveva condannato al pagamento della somma di Euro 1.219.100,42 a titolo di risarcimento del danno subito dalla società e dai creditori sociali in conseguenza delle illecite condotte, omissive e/o commissive, da lui tenute quale amministratore della società poi fallita.

La Corte territoriale ha, in primo luogo, respinto l’eccezione di prescrizione sollevata da F., rilevando che, ogni qualvolta non sia possibile individuare con esattezza la data a partire dalla quale il patrimonio sociale è divenuto insufficiente al soddisfacimento dei crediti, il termine di prescrizione dell’azione di responsabilità di cui all’art. 2394 c.c., decorre dalla data della dichiarazione di fallimento. Ha poi rilevato che – secondo quanto accertato dal ctu – F. era ripetutamente venuto meno agli obblighi impostigli dalla legge e dall’atto costitutivo, ed, in particolare: aveva omesso di eliminare dalle voci dell’attivo e del passivo dello stato patrimoniale i valori dei beni alienati e dei relativi fondi di ammortamento, mentre ne aveva riportato i ricavi nel conto economico; aveva attuato il depauperamento del ramo costruzioni dell’azienda della S.A.RO per poterlo trasferire, ad un prezzo vile, ad altra società da lui costituita; non aveva iscritto a bilancio l’ingente debito maturato dalla società nei confronti dell’INPS; non aveva convocato l’assemblea dei soci per deliberare la messa in liquidazione della società. Ha, da ultimo, escluso che, al fine di ritenere insussistente il danno – liquidato dal primo giudice nella misura di Euro 1.291.100,42 – potesse tenersi conto dell’ingente credito vantato dalla fallita nei confronti dell’ACEA, accertato giudizialmente, ma con sentenza che non risultava passata in giudicato e che era pertanto privo dei caratteri della certezza, della liquidità e dell’esigibilità.

F.M. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a tre motivi, cui il Fallimento della S.A.RO ha resistito con controricorso illustrato da memoria.
Motivi della decisione

1) Con il primo motivo di ricorso, F.M. lamenta violazione dell’art. 2392 c.c., comma 94, artt. 2935 e 2949 c.c., e L. Fall., art. 146.

Osserva, in primo luogo, che la Corte di merito ha erroneamente distinto fra termine di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità e termine di prescrizione dell’azione spettante ai creditori, senza considerare che quella esercitata dal curatore ai sensi della L. Fall., art. 146, è un’azione unitaria, che pur compendiando in sè le fattispecie contemplate dagli artt. 2393 e 2394 c.c., unitariamente si prescrive. Deduce, inoltre, che la prescrizione dell’azione inizia a decorrere dal momento in cui i creditori possono aver avuto conoscenza dell’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i loro crediti e rileva che il giudice d’appello si è discostato da tale principio allorchè ha affermato che, qualora tale momento non sia identificabile “con esattezza”, il dies a quo coincide con la dichiarazione di fallimento; sostiene, a riguardo, che la parola “esattezza” è priva di significato tecnico-giuridico e che, adoperandola, il giudice ha negato rilevanza alla conoscibilità da parte dei creditori dello stato di incapienza patrimoniale, che è invece l’unica circostanza della quale si deve tener conto per verificare la decorrenza del termine di prescrizione; assume, infine, che nel caso di specie l’INPS, che era pressochè l’unico creditore della S.A.RO, avrebbe potuto rendersi conto sin dalla pubblicazione del bilancio dell’esercizio del 1986 che il patrimonio netto della società, ammontante a poco più di 35 milioni di lire, era del tutto insufficiente a coprire il credito di oltre 5 miliardi di lire vantato dallo stesso istituto in forza di un decreto ingiuntivo esecutivo.

2) Il motivo deve essere respinto previa correzione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., della motivazione in base alla quale la Corte territoriale ha, conformemente a diritto, ritenuto infondata l’eccezione di prescrizione. Secondo la giurisprudenza costante e consolidata di questa Corte, l’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società è soggetta a prescrizione quinquennale, decorrente dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza dell’insufficienza del patrimonio sociale ai fini della soddisfazione dei loro crediti; detta insufficienza, consistente nell’eccedenza delle passività sulle attività, non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale, che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo, nè allo stato d’insolvenza di cui alla L. Fall., art. 5, trattandosi di una condizione di squilibrio patrimoniale più grave e definitiva, la cui emersione non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento, potendo essere anteriore o posteriore (cfr. da ultimo, fra molte, Cass. n. 9619/09).

Altrettanto consolidato è il principio secondo il quale grava sull’amministratore, che eccepisca la prescrizione dell’azione di responsabilità promossa nei suoi confronti dal curatore, di provare non solo la preesistenza al fallimento dello stato di incapienza patrimoniale della società, ma anche la sua conoscibilità da parte dei creditori (Cass. nn. 17121/010, 9619/09, 941/05, 5287/98).

Tanto basta al rigetto del motivo, non avendo F. denunciato un vizio di omessa o insufficiente motivazione della sentenza per aver il giudice del merito trascurato elementi istruttori atti a provare l’anteriorità, rispetto al fallimento, dell’emersione dello stato di in capienza patrimoniale della S.A.RO e dovendosi, in ogni caso, escludere che la conoscenza di tale stato, acquisita da uno solo (ancorchè dal principale) dei suoi creditori, ma sicuramente non ancora manifestatasi agli altri (atteso il non contestato accertamento della mancata iscrizione, fra le passività del bilancio, del debito maturato dalla società nei confronti dell’INPS), possa rilevare a tal fine.

3) Con il secondo motivo, il ricorrente, denunciando ulteriore violazione dell’art. 2392 c.c., comma 94, e L. Fall., art. 146, nonchè vizio di motivazione, lamenta che la Corte territoriale si sia limitata ad elencare una serie di sue condotte, astrattamente illecite, senza chiarire quale sia stata la loro rilevanza causale nella determinazione del danno.

4) Il motivo è infondato.

La Corte d’Appello, dopo aver specificamente indicato le operazioni poste in essere da F. in violazione dei doveri impostigli dalla legge e dallo statuto societario e delle cui conseguenze pregiudizievoli per il patrimonio della società egli era, pertanto, tenuto a rispondere, ha correttamente ritenuto – in assenza di contrarie emergenze processuali – di potersi limitare a condividere le conclusioni del ctu in ordine “all’inconfutabile correlazione fra l’effettuazione di dette operazioni e lo stato di insolvenza della società”.

Va aggiunto che, poichè in relazione ad uno degli addebiti rivolti all’odierno ricorrente (svendita di un ramo d’azienda) il danno è stato indicato nel suo preciso ammontare, mentre in relazione ad altro addebito (mancata convocazione dell’assemblea dopo il verificarsi della causa di scioglimento della società costituita dalla perdita del capitale sociale), esso costituiva (ai sensi dell’art. 2249 c.c., nel testo applicabile ratione temporis al caso di specie) conseguenza automatica del compimento da parte dell’amministratore di nuove operazioni dall’esito negativo, F., in ossequio ai principi di specificità e di autosufficienza del ricorso, avrebbe dovuto precisare quali circostanze di fatto, ignorate o trascurate dal giudice del merito, inducevano ad escludere che la cessione fosse stata conclusa ad un prezzo vile o che la S.A.RO avesse contratto ulteriori debiti dopo la perdita del capitale.

5) Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia ancora violazione dell’art. 2392 c.c., comma 94, e L. Fall., art. 146, nonchè dei principi in materia di certezza, liquidità ed esigibilità del credito e vizio di motivazione.

Afferma che la Corte territoriale lo ha condannato a risarcire un ingente danno, nonostante la radicale insussistenza di qualsivoglia pregiudizio economico causato da una sua condotta illecita.

Lamenta, poi, che il giudice d’appello non abbia riconosciuto rilevanza alla sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato ACEA a pagare al Fallimento della S.A.RO la somma di Euro 2.734.699 oltre accessori. Osserva, per un verso, che la riscossione da parte del curatore di tale somma, sufficiente al soddisfacimento di tutti i crediti insinuati al passivo, escluderebbe la configurabilità stessa del danno preteso dalla controparte e sostiene, per altro verso, che la palese pregiudizialità della causa pendente fra Fallimento ed ACEA rispetto alla presente avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a sospendere la decisione ai sensi dell’art. 295 c.p.c..

6) Il motivo è, nella sua prima parte, manifestamente inammissibile, in quanto privo dell’illustrazione di qualsivoglia ragione di fatto o di diritto atta a sorreggere l’affermazione dell’insussistenza del danno liquidato in sentenza.

7) Nella sua seconda parte il motivo è invece infondato.

Il processo pendente fra il Fallimento della S.A.RO e l’ACEA non è pregiudiziale rispetto al presente: l’eventuale sussistenza di un ingente credito della società fallita nei confronti di un soggetto terzo non può infatti influire sulla decisione in ordine alla responsabilità L. Fall., ex art. 146, di F.M. nè può determinare il venir meno (od una riduzione) del pregiudizio economico cagionato alla società ed ai creditori sociali dagli illeciti da questi commessi.

Ne consegue che correttamente la Corte di merito non ha ravvisato la ricorrenza dell’ipotesi di sospensione necessaria del processo di cui all’art. 295 c.p.c.. Diversa questione, che potrà, semmai, porsi in sede esecutiva e che nella stessa sede dovrà essere risolta, è quella attinente al perdurante interesse del curatore a riscuotere il credito risarcitorio vantato dal Fallimento contro l’amministratore, nel caso in cui l’ammontare dei crediti insinuati al passivo e delle spese della procedura risultasse interamente coperto dal pagamento da parte di ACEA del debito, ad oggi ancora controverso.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna di F.M. al pagamento delle spese del grado, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna F.M. a pagare al Fallimento della S.A.RO – Società Appalti Roma – s.r.l., le spese del giudizio, che liquida in Euro 10.000 per onorari ed Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

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