MARCO CATALANO

Magistrato del Tribunale di Torre Annunziata

LA REVOCATORIA FALLIMENTARE

Brevi cenni al sistema fallimentare.

La qualifica del curatore, se terzo o parte.

Il sistema di tutela apprestato dal legislatore del 1942 (sezione III della legge fallimentare).

I sui rapporti con l' azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c.. Concorrenza dei due rimedi.

L' azione revocatoria fallimentare ex art. 67.

I casi di revocatoria previsti dall' art. 67 l.f..

Ogni moderno sistema giuridico necessita di una legge fallimentare che si ponga come rimedio alle crisi che può subire il singolo imprenditore nell' esercizio della sua attività di impresa ; come si sa per definizione l' attività imprenditoriale è frutto di un rischio, più o meno calcolato da colui che la intraprende. Nel caso in cui, vuoi per circostanze interne vuoi per incapacità imprenditoriale l' imprenditore commerciale si trova in stato di insolvenza, esso è assoggettato al fallimento.
Le due principali attività da compiere nel corso della procedura fallimentare costituiscono l' accertamento del passivo e la liquidazione dell' attivo al fine di permettere l' equo soddisfacimento dei creditori.
Tra le attività volte alla ricerca e liquidazione dell' attivo, lato sensu, rientrano quelle poste in essere dal curatore al fine di reintegrare il patrimonio del fallito depauperato nell' imminenza (o successivamente) alla dichiarazione di fallimento.
In questa ottica si inseriscono le norme di cui agli artt. 64 e ss. l.f. dedicate alla disciplina degli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori.
Attore nei giudizi instaurati in base elle citate norme è il curatore, rappresentato e difeso da un avvocato iscritto all' albo, a tanto autorizzato dal g.d..
Circa la qualifica del curatore nei giudizi di revocatoria fallimentare, ovvero se sia terzo o parte, dopo lungo dibattito la dottrina e la giurisprudenza uniformemente propendono per la qualifica di terzo. Invero numerose norme della legge fallimentare prevedono la successione del curatore nei rapporti giuridici in precedenza in capo al fallito. Mi riferisco primis all' art. 31 comma 1 l.f. il quale stabilisce che il curatore ha l' amministrazione del patrimonio fallimentare, e alle varie norme che attribuiscono al curatore la potestà di dare corso o meno ai contratti stipulati dal fallito in bonis, disciplinate dagli artt. 72 e ss l.f..
Poiché però l' azione revocatoria da un lato tende a dichiarare efficace un contratto o un atto già posto in essere e perfetto, dall' altro mira a recuperare nell' interesse dei creditori un bene già facente parte del patrimonio fallimentare, e poiché l' attività del curatore lede l' interesse di chi ha acquistato o comunque ricevuto legittimamente dei beni, unanimemente ormai si qualifica il curatore come terzo rispetto alle azioni che pone in essere ; la questione non è di poco conto per le sue conseguenze processuali ; se infatti si considera il curatore terzo allo stesso, ad esempio, non potrà essere deferito interrogatorio formale.
Dottrina e giurisprudenza oramai unaninemente concordano nell' attribuire al curatore la veste di terzo nell' esercizio delle azioni revocatorie. Circa l' ulteriore problema della qualifica di terzo, ovvero se sostituto processuale o di rappresentante dei creditori, o titolare di autonomo diritto, si propende per la terza ipotesi, in virtù delle caratteristiche pubblicistiche che connotano la disciplina fallimentare. Si tratta infatti di un istituto mirato al soddisfacimento, per quanto possibile, delle ragioni creditorie ed al terzo curatore, in questo interesse, è riconosciuta la possibilità di agire in giudizio ; diverso è invece il caso, per esempio, in cui il curatore agisce o resiste in giudizio in relazione ad una pretesa azionata dal o contro il fallito prima della dichiarazione di fallimento, in cui farà valere il singolo diritto del fallito qualora lo ritenga utile per la massa dei creditori.
Occorre per l' agire o resistere in giudizio l' autorizzazione del g. d, resa con decreto, generalmente in calce alla istanza o alla nota o relazione con la quale il curatore avrà rappresentato al g.d. la necessità di agire in giudizio ; l' autorizzazione del g.d. è valida solo per l' azione indicata dal curatore ; sebbene al riguardo non rilevi il nomen juris dallo stesso attribuito in quanto sia il procuratore della curatela, sia il giudice nel corso della controversia possono cambiare denominazione all' azione, sempre che non muti la rappresentazione del fatto. L' autorizzazione, per giurisprudenza unanime vale sono per il grado di giudizio conferita e non è sufficiente per l' esperimento delle azioni cautelari che si rendono necessarie in concorrenza con il diritto fatto valere ; ciò per la peculiarità della tutela cautelare che presenta caratteristiche e presupporti di fatto diversi per il suo utile esperimento.
Per quanto riguarda in particolare le caratteristiche delle azioni a tutela (rectius volte alla ricostruzione) del patrimonio del fallito, il legislatore del 1942 ha previsto una serie numerosa di ipotesi, tutte comunque in concorrenza con il criterio generale previsto dagli artt. 2901 e ss c.c. dettati in tema di revocatoria ordinaria.
La caratteristica principale delle azioni a tutela del fallimento è l' utilità generale che se ne ricava ; mentre l' esercizio dell' azione revocatoria ordinaria comporta utilità per il solo creditore procedente, il quale può poi coattivamente soddisfarsi sul bene alienato dal debitore al terzo, le azioni revocatorie fallimentari permettono l' accrescimento delle attività fallimentari a tutto giovamento della massa dei creditori ; non è un caso infatti che nell' art. 2901 c.c. si indichi al singolare il creditore, mentre gli artt. 64 e ss. l.f. parlano di inefficacia nei confronti dei creditori.
Nulla osta comunque alla concorrenza dei due rimedi o all' utilizzo di uno al posto del' altro, laddove, per esempio, è decorso il termine di prescrizione per l' azione revocatoria fallimentare, in questo caso però il curatore dovrà assolvere agli oneri probatori previsti dall' art. 2901 c.c.. Infine potrà esservi il caso in cui un creditore abbia, precedentemente alla dichiarazione di fallimento, iniziato uti singulus un' azione revocatoria ; in questo caso, stante anche il divieto di cui all' art. 51 l.f. , egli non potrà più utilmente proseguirla ; pertanto spetterà al curatore decidere se proseguire il giudizio, questa volta però nell' interesse dalla massa o abbandonarlo ; in quest' ultimo caso, infine, una volta chiuso il fallimento, il creditore riprenderà la titolarità della sua azione nei confronti del debitore.
Competente a conoscere dell' azione revocatoria è il tribunale fallimentare, ovvero il tribunale che ha dichiarato il fallimento dell' imprenditore, a mente dell' art. 24 l.f.. Detta regola è di carattere assoluto e non trova eccezioni. Pertanto, nel caso di tribunale diviso in più sezioni, competente a conoscere delle cause di revocatoria è la sezione fallimentare del tribunale ; detto principio trova ingresso anche con l' adozione del nuovo rito civile, che ha previsto la composizione del tribunale quale giudice unico ; infatti non trova applicazione 48 ord. giud. il quale stabilisce i casi in cui il tribunale decide in funzione collegiale ; la riserva di collegialità è stata dettata solo per i giudizio di fallimento, opposizione al fallimento, omologazione di concordato preventivo e in quelli di cui agli artt. 98, 100 e 101 l.f..
Il sistema delineato negli articoli che la l.f. dedica all' azione revocatoria è stato concepito dal legislatore secondo scansioni e presunzioni ; le scansioni riguardano il dato temporale di compimento dell' atto rispetto alla sentenza dichiarativa di fallimento, le presunzioni hanno ad oggetto l' onere della prova che si atteggia diversamente a seconda degli atti da revocare. E' bene precisare che il termine a ritroso del quale vanno computati gli atti inizia con la data del deposito della sentenza dichiarativa di fallimento ; nessun rilievo riveste la data di deliberazione in camera di consiglio o quella di comunicazione della sentenza o quella di affissione della stessa. Da questo punto di vista quello che rileva è il fallimento il quale secondo la legge e la giurisprudenza dominante, è assistito da una presunzione relativa di conoscenza che si atteggia in concreto diversamente a seconda degli atti da revocare.
E' naturale che i presupposti per l' azione revocatoria siano diversi a seconda che si tratti di azione revocatoria ordinaria o fallimentare ; nel primo caso ci si trova innanzi ad un soggetto che ha alienato il bene allo scopo di frodare, ovvero rendere privo di garanzia il suo creditore ; l' alienazione assume in questo caso un aspetto patologico, mentre per l' imprenditore commerciale l' alienazione, l' acquisto, la successiva alienazione di beni costituisce lo strumento normale per l' esercizio della sua attività ; si pensi ai frequenti casi di costituzione di garanzie sui beni anche personali dell' imprenditore al fine di ottenere erogazione di prestiti o somme di danaro, o credito nel mercato ; in questo caso, considerando l' alienazione o comunque la cessione di bene un aspetto fisiologico dell' esercizio dell' impresa, il legislatore ha voluto ancorare i presupposti per l' esercizio dell' azione revocatoria a dati di fatto oggettivi conosciuti o comunque conoscibili, come in seguito si andrà ad esporre.
Il primo caso di azione revocatoria è quello indicato nell' art. 64 l.f. che prevede l' inefficacia degli atti a titolo gratuito compiuti nei due anni precedenti alla dichiarazione di fallimento ; in questo caso la dichiarazione di inefficacia è ex se, senza la necessità di compimento di alcun onere particolare della curatela, che dovrà solamente dimostrare che l' atto di liberalità sia stato compiuto nei due anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento. La ragione di tanta facilità di prova è chiara ; non avendo l' atto di liberalità inciso sul patrimonio del donatario, la sua inefficacia nessuna conseguenza patrimoniale potrà comportare ( l' inefficacia dell' atto pertanto opererà senza che il beneficiario possa opporre la mancata conoscenza dello stato di insolvenza, che al riguardo si presenta come condizione neutra).
Il concetto di atto a titolo gratuito è stato inteso dalla giurisprudenza in una concezione piuttosto ampia, tale dal far ritenere che qualsiasi atto senza corrispettivo rientri nella disposizione in esame ; pertanto atto a titolo gratuito è considerato il pagamento di un debito scaduto, la costituzione di un fondo patrimoniale ex art. 167 l.f.. In particolare, per quanto riguarda il debito altrui, la non onerosità va commisurata con riguardo al fallito pagante ed il terzo soddisfatto, ma non tra il fallito e colui a favore del quale egli effettua l' adempimento ; pertanto anche in questo caso la disciplina applicabile è quella di cui all' art. 64 c.c.. Il problema si poi in particolare per il pegno rotativo, nel quale cioè alla scadenza di un termine il debitore può sostituire il bene dato in pegno o rinnovare la garanzia ; in questo caso vi è chi dubita che si tratti di atti a titolo gratuito in quanto la rinnovazione del pegno viene effettuata a garanzia di una obbligazione originaria ; qualora però il debito originario sia stato adempiuto e nonostante ciò venga effettuata una sostituzione dell' oggetto del pegno, si è in presenza di un atto a titolo gratuito, indipendentemente dal fatto che detta previsione sia stata contrattualmente prevista. Restano esclusi dalla disciplina ora esaminata gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, purchè la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante ; in questo caso occorre una indagine in concreto per accertare se la liberalità sia dovuta in adempimento di un dovere morale, cioè di un dovere ritenuto tale dalla morale comune, oppure per una discrezionalità del donante, come nel caso della donazione remuneratoria, ove in tal caso l' atto sarà revocabile ; incombe in questo caso, ad opinione di chi scrive, sul convenuto l' onere probatoria relativo all' adempimento del dovere morale o dello scopo di pubblica utilità.
Simile al sospetto adombrato in caso di liberalità antecedente alla dichiarazione di fallimento è quello dell' imprenditore che paga in un lasso di tempo compreso in due anni prima del fallimento i debiti scaduti il giorno del fallimento o successivamente, e ciò indipendentemente dall' esercizio di tale facoltà accordata al debitore ; anche in questo caso la legge vede con sospetto un imprenditore commerciale, la cui attività ha per scopo primario il lucro, il quale invece di "procastinare" il giorno dell' adempimento, lo anticipi ; anche qui è indifferente la conoscenza dello stato di insolvenza o il pregiudizio arrecato agli altri creditori, ma quel che conta è il fatto oggettivo del pagamento entra l' arco temporale stabilito dal legislatore.
La disciplina degli atti a titolo oneroso è stabilità dall' art. 67 l.f..
Detta norma, come si è in precedenza accennato, stabilisce precisi limiti temporali al di là del quale essa non opera ed il curatore deve agire in base all' art. 2901 c.c., e presunzioni relative.
La prima presunzione è quella di cui al comma 1 in base alla quale, per gli atti elencati nello stesso, è l' altra parte che deve dimostrare l' inesistenza dello stato di insolvenza del debitore : detti atti sono :a) quelli a titolo oneroso compiuti nei due anni antecedenti la dichiarazione di fallimento in cui vi sia sproporzione tra prestazioni ;b) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con mezzi normali di pagamento, compiuti entro i due ani precedenti la dichiarazione di fallimento ; c) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituite entro l' anno dalla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti ; d) i pegni le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituite entro l' anno dalla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti. Come si vede la caratteristica principale degli atti in questione è la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza ; in sostanza, trattandosi di atti anormali di gestione in quanto o vi è sproporzione tra le prestazioni o non vi è un diretto utile economico (elemento inconciliabile con una corretta gestione imprenditoriale), grava su chi è convenuto in revocatoria provare di non essere a conoscenza dello stato di insolvenza. Naturalmente per tutta questa categoria di atti l' anormalità o sproporzione tra le prestazioni deve sussistere al momento in cui l' atto fu compiuto. Se per esempio un bene acquistato in un periodo sospetto perisce per caso fortuito non si può parlare di pregiudizio in quanto non vi è un nesso causale con il fatto ; così, per ipotesi, se il bene alienato improvvisamente ed imprevedibilmente aumenta di valore, tanto da rientrare nel nr 1) del comma 1, non si può parlare di sproporzione tra le prestazioni in quanto detta sproporzione all' epoca del compimento dell' atto era tutt' altro che scontata.
Per quanto riguarda il nr 1) dell' art. 67 l.f., si fa espresso riferimento ad atti a titolo oneroso a carattere sinallagmatico. Il caso più frequente è quello della vendita da parte del fallito, di beni di sua proprietà ( o della società) ad un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato. In questo caso, in genere, il convenuto in revocatoria potrà eccepire la simulazione relativa del contratto in quanto il prezzo dichiarato nell' atto di vendita è inferiore a quello di mercato poiché in questo modo si potevano trarre benefici fiscali (ed es. pagamento di tassa di registro in misura minore a quella dovuta) opponendo alla curatela una contro dichiarazione dalla quale si evince il prezzo effettivo. Ebbene, proprio in questa ipotesi riveste di particolare importanza la qualifica di curatore quale terzo, poiché se la contro scrittura non ha data certa anteriore al fallimento essa non gli sarà opponibile ed il giudice potrà dichiarare senza effetto l' alienazione ; analogamente varranno i limiti che il codice civile pone alla prova per testi nel caso si voglia provare l' esistenza di patti aggiunti o contrari all' atto scritto redatti anteriormente o contemporaneamente allo stesso, ex art. 2722 c.c.; per quanto riguarda la differenza di prezzo tale da potersi affermare la revocabilità, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che non deve trattarsi della differenza prevista dal legislatore per l' azione di rescissione, ma basta uno scarto tra il 25% - 30% tra il prezzo dichiarato e quello reale (accertabile con CTU) per rientrare nell' ipotesi contemplata.
Accanto al contratto di vendita in cui vi è sproporzione tra le prestazioni, sono ritenuti revocabili il contratto di appalto, quello di transazione, quello di locazione ; in questo caso quanto il fallito sia locatore oltre alla revocazione del contratto al curatore spetterà un' indennità di occupazione fino all' effettivo rilascio ; nel caso in cui fallito è il conduttore è stata ritenuto revocabile il contratto se il canone di locazione era eccezionalmente oneroso; il contratto di cessione di quote sociali qualora il valore di vendita sia inferiore a quello reale, il contratto di appalto e quello di permuta.
L' altra ipotesi di anormale gestione imprenditoriale comprende "gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con denaro o altri mezzi normali di pagamento" I questo caso l' anormalità sta nei mezzi con cui viene pagato il creditore : in questa fattispecie rientrano la dazione di merci, i mandati a vendere con diritto di soddisfarsi sul ricavato, la compensazione convenzionale di un credito non pecuniario con un debito pecuniario scaduto ed esigibile, la prestazione di un servizio, l' accollo privativo disciplinato dall' art. 1273 comma 2 cc, la trattenuta, da parte del committente, di provvigioni dovute al commissionario al fine di recuperare il proprio credito verso quest' ultimo ; di contrastante indirizzo è la giurisprudenza in caso di pagamento con assegni post datati.
Rientrano inoltre nella azione revocatorie i pegni le anticresi e le ipoteche volontarie costituite nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti ; è evidente come in questo caso è anormale che per un debito preesistente non scaduto si costituiscano garanzie, cioè che le garanzie non siano state costituite contestualmente al nascere del debito ; in questa particolare ipotesi, oltre a ledersi la par condicio creditorum, al cui fine è protesa tutta la legislazione fallimentare, si ha in concreto un soddisfacimento di un singolo creditore il quale, per un motivo per l' altro, è stato in grado in maniera anormale di costituirsi una garanzia. Per quanto riguarda la sorte del suo credito una volta posta nel nulla la garanzia creata a suo favore, la legge fallimentare prevede il rimedio generale di ammissione al passivo per colui che ha restituito quanto aveva riscosso ; pertanto se l' esame dello stato passivo è ancora aperto, egli potrà insinuarsi ai sensi degli art. 93 e ss. l.f., in caso contrario non gli resta che l' azione ex art. 101 l.f.. Beninteso la sua ammissione sarà ristretta al pregiudizio che ha subito, da valutarsi in natura se, per esempio, viene revocato un pagamento, o per equivalente in caso di revoca di alienazioni o di pagamento con mezzi anormali. E' stato ritenuto revocabile, ad esempio, la fattispecie realizzatasi "qualora un mutuo ipotecario venga stipulato a copertura di un' anticipazione in precedenza concessa dalla banca mutuante, senza che il mutuatario acquisisca la disponibilità della somma mutuata, l' ipoteca integra garanzia costituita per un debito preesistente e, quindi, in caso di fallimento dell' obbligato, resta soggetta a revocatoria ai sensi dell' art. 67 comma 1 l.f."( Cass. sez. I 18.11.1992 nr 12342) ; ed ancora "quando l' apertura di credito sia destinata a ridurre passività pregresse, invece che ad assicurare una ulteriore disponibilità per il cliente, la garanzia eventualmente costituita in quella occasione deve intendersi riferita al debito preesistente e la sua revocabilità è conseguenza regolata dal primo anziché dal secondo comma dell' art. 67 l.f." (Cass sez. I 21.12.1998 nr 12740)
Infine vi sono le garanzie non contestuali per debiti scaduti. In questo caso da un lato il legislatore, proprio perché il debito è scaduto, limita ad un anno il periodo sospetto, ed amplia la casistica alle ipoteche giudiziali, in quanto in questa ipotesi il debitore avrebbe potuto evitare l' iscrizione con il richiede il proprio fallimento.
Passiamo ora all' altra grande categoria di atti revocabili diversi da quelli or ora esaminati, ovvero i pagamenti.
Afferma la legge fallimentare al comma 2 dell' art. 67 che "sono altresì revocati, se il curatore prova che l' altra parte conosceva lo stato di insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati, se compiuti entro l' anno dalla dichiarazione di fallimento".
In questo caso il limite temporale per aversi azione revocatoria è più limitato di quelli stabiliti generalmente ai numeri precedenti in quanto i pagamenti e gli atti elencati al comma due costituiscono atti normali di gestione a meno che il curatore non fornisca la prova che l' altra parte provi la conoscenza dello stato di insolvenza. Al riguardo numerosissime sono le decisioni giurisprudenziali sul punto, attesa la varia gamma di atti ricompresi nel dettato della norma ed i vari tipi di pagamento che possono aversi in natura.
Il primo problema riguarda la revocabilità o meno di crediti assistiti da privilegio. In questo caso vi è una parte della dottrina che propende per l' ipotesi negativa in quanto essendo il credito privilegiato esso troverebbe comunque soddisfazione nel caso di esistenza di attività ; si è obiettato che in questo caso vi sarebbe disparità tra creditori privilegiati pagati entro l' anno dalla dichiarazione di fallimento e creditori privilegiati insinuatisi al passivo ; la giurisprudenza è comunque ormai propensa per la revocabilità, atteso il principio assolutistico ed inderogabile della par condicio creditorum. Un caso interessante è quello del pagamento coatto, effettuato tramite esecuzione presso terzi, da parte di dipendenti della società fallita. Premesso che in questo caso l' art. 2 della L. 297/1982 stabilisce a carico di un fondo istituito presso l' INPS il pagamento del TFR in caso di fallimento del datore di lavoro, non vi è alcun ostacolo concettuale a ritenere revocabile il pagamento ottenuto dal prestatore di lavoro a titolo di TFR ; questo sia per la diversità di procedura, in quanto vi potrebbe essere il caso di lavoratori che hanno ottenuto dal giudice l' assegnazione di somme e lavoratori che invece si sono insinuati al passivo attendendo la approvazione dello stato passivo, e sia perché comunque le somme ottenute dai lavoratori esecutanti fanno parte della massa passiva e deve concorrere tutta alla ripartizione dell' attivo. Per cui nella pratica l' azione revocatoria colpirà non il provvedimento giurisdizionale di aggiudicazione delle somme, ma il successivo pagamento effettuato in adempimento di quanto precede. Circa la prova dello stato di insolvenza, l' aver da parte dei lavoratori iniziato una procedura esecutiva individuale è già di per sé sintomo di decozione dell' imprenditore ; se a ciò si aggiunge, ad esempio, la presentazione da parte dei lavoratori di altri procedimenti monitori, provati documentalmente dalla curatela agente, non può non ritenersi soddisfatto l' onere previsto dalla norma a carico della procedura. Costituiscono comunque altri indici di prova dello stato di insolvenza la pubblicazione del nominativo del fallito sul bollettino ufficiale dei protesti, la presentazione da parte del creditore convenuto in revocatoria del ricorso che ha portato al fallimento dell' imprenditore o di ricorso aventi lo stesso fine ma reietti in data precedente dal tribunale, la presentazione di procedure esecutive individuali. E' ovvio che la casistica appena elencata lungi dall' essere esaustiva, costituisce solamente una esemplificazione delle varie ipotesi in cui si possa provare lo stato di insolvenza. Dubbi sorgono per le dichiarazioni rese dallo stesso creditore in cui si fa riferimento a dizioni quali stato di insolvenza, come per esempio nelle missive di messa in mora nelle quali si minaccia, in caso di inadempimento, la presentazione di ricorso di fallimento ; trattasi infatti di atti unilaterali che, a mio modo di vedere, non hanno alcun valore confessorio in quanto diretti verso terze persone ; ma nulla esclude che un attento esame del complesso contesto intercorso tra il creditore ed io debitore successivamente dichiarato fallito possa far propendere per l' ipotesi affermativa ; è comunque una questione da accertare con estrema attenzione e caso per caso, non potendo in materia sussistere certezze.
Revocatoria dei pagamenti effettuati al difensore. Nulla quaestio per i pagamenti effettuati al difensore nella fase di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, i quanto si rientra nell' ipotesi dell' art. 44 l.l.. Il problema si prone per l' assistenza prestata nel caso di presentazione di concordato preventivo poi rigettato dal tribunale. Sul punto la norma è chiara, in quanto l'imprenditore che si trova in stato di insolvenza può chiedere ai creditori un concordato preventivo. Sebbene proprio il debitore possa di persona presentare ricorso per concordato preventivo, nulla esclude che egli si faccia assistere da un difensore, che, necessariamente, verrà fatto partecipe dello stato di insolvenza. Pertanto non è il caso di soffermarsi sulla conoscenza dello stato di insolvenza, ma sulla opportunità di un azione revocatoria in questo caso. Se si ammettesse la possibilità di agire in revocatoria, o si priverebbe il fallendo di assistenza o si obbligherebbe il difensore a prestare la sua opera per il momento gratuitamente, salvo poi ad ammettere il credito in sede di verifica. La soluzione più equa e più rispondente al dettato costituzionale è quella di una interpretazione evolutiva dell' art. 67 l.f. adattandola all' art. 24 della Costituzione che garantisce il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, sebbene, per gli scarsi precedenti in materia, la questione è ancora aperta.
Altro punto rilevante è la revocabilità dei pagamenti che l' imprenditore è obbligato ad effettuare, non previsti da una normativa speciale, come nel caso del pagamento agli enti gestori delle somme dovute per forme obbligatorie di assistenza e previdenza (art. 1 comma 223 L 662/1996 ) ai crediti per le medie e piccole industrie e imprese artigiane ex art. 20 L. 30.7.1959 nr 623).
Infine in via di fatto la giurisprudenza ha escluso la revocabilità dei pagamenti effettuati ad imprese che esercitano attività in regime di monopolio legale, dato che "le imprese che operano in regime di monopolio legale si sottraggono all' applicazione della revocatoria fallimentare per il pagamento di debiti liquidi ed esigibili, in quanto la normativa che impone all' impresa monopolistica di contrattare con chiunque e di trattare allo stesso modo tutti gli utenti, attiene non solo al momento genetico del contratto ma anche a quello che riguarda la fase di esecuzione del negozio, posto che deve essere esclusa per il monopolista legale la facoltà di avvalersi, nel caso di insolvenza dell' utente, del rimedio della sospensione dell' erogazione del servizio" (Cass S.S.U.U. 11.11.1998 nr 11350)
Altra categoria di pagamenti per i quali vi è grosso dibattito in dottrina ed in giurisprudenza riguarda la revocabilità dei versamenti effettuati attraverso Istituti di Credito, con eccezioni di quelli di cui al comma 4 dello stesso articolo.
Premessa di carattere concettuale è l' inquadramento del più diffuso contratto bancario, ovvero il contratto di apertura di credito in conto corrente. In questo particolare contratto l' apertura di deposito e le altre operazioni bancarie sono regolate in conto corrente, e pertanto le parti annotano in apposito conto le reciproche rimesse, da considerarsi inesigibili fino alla chiusura del conto. Orbene, data la particolare natura del contratto di conto corrente, è innanzitutto da stabilire se le operazioni effettuate in conto corrente siano esecuzione di un medesimo contratto o se siano atti dotati di particolare autonomia ; nel primo caso, infatti, la banca potrà eccepire di aver adempiuto al contratto di conto corrente per andare esente da responsabilità, a meno che non si voglia impugnare l' intero contratto di conto corrente bancario, mentre nel secondo caso, considerando ogni prestazione come dotata di propria autonomia, ben potranno singole rimesse essere assoggettate ad azione revocatoria.
Sul punto è stato affermato, in via di fatto, dalla giurisprudenza il principio della revocabilità delle rimesse effettuate dal cliente oltre il limite di "scoperto" convenzionalmente pattuito con l' Istituto di credito ; ed infatti nel caso di versamenti entro il limite del fido si è affermati che i medesimi non hanno natura solutoria, ma lo scopo di ripristinare la provvista ; nel caso in cui invece il cliente abbia agito oltre i limiti dello scoperto, in quanto permesso dalla banca, il successivo versamento ha natura solutoria di un debito verso l' istituto ed è pertanto revocabile ai sensi dell' art. 67 l.f.(I versamenti sul conto corrente del correntista poi fallito hanno natura di pagamenti, e sono quindi soggetti alla revocatoria fallimentare ai sensi dell' art. 67 secondo comma l.f. (se eseguiti nel periodo sospetto e ricorrente la scientia decoctionis), soltanto nell' ipotesi di conto "scoperto", quando cioè la banca abbia anticipato somme oltre il limite del fido, mentre nell' ipotesi di conto semplicemente "passivo", assistito da apertura di credito, non è configurabile, durante lo svolgimento del rapporto e fino a quando i prelievi sono contenuti nei limiti del fido, un credito esigibile della banca verso il correntista, in quanto i versamenti - eseguiti direttamente dal cliente e mediante beneficio di somme provenienti da terzi - consistendo in semplici operazioni di accreditamento dirette a ripristinare la provvista, non hanno funzione solutoria. In caso di conto assistito da apertura di credito sono tuttavia revocabili le rimesse che appaiono, con accertamento ex post, avere concretamente e definitivamente concorso a ridurre il debito verso la banca, determinando (come quando il conto sia chiuso anticipatamente) un rientro della banca stessa mediante il prelievo dalla provvista di una somma pari al fido utilizzato dal correntista Cass sez I 29.7.1992 nr 9064). Corollario di siffatto principio è stato affermato di recente dalla giurisprudenza nel caso di pagamento effettuato da un terzo a mezzo accredito di somme sul conto corrente del fallito ; infatti è stato stabilito dalla Corte di Cassazione (Cass. sez. I 16.11.1998 nr 11520) che il pagamento del terzo avente natura ripristinatoria non è soggetto a revocatoria, ma quello a carattere solutorio per scoperto del fallito oltre i limiti del fido va considerato revocabile sussistendo il presupposto soggettivo ; è stato inoltre precisato che è questione di fatto, da accertare in concreto caso per caso, se il terzo abbia pagato un debito del fallito o un debito che il fallito aveva nei suoi confronti.
E' stato inoltre affermato il principio in base al quale la banca non può operare la compensazione in relazione a rapporti di debito credito nascenti da unico contratto di conto corrente. L' art. 1853 c.c stabilisce che, salvo patto contrario, se tra la banca ed il correntista vi sono più rapporti o più conti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente. Detto principio è l' estensione naturale dettata in tema di compensazione legale dall' art. 1243 in base al quale la compensazione legale opera tra di debiti di danaro o altre cose fungibili ; se invece il conto è unico la banca non può unilateralmente effettuare la compensazione tra il dare e l' avere, in quanto in questo modo viene meno il rapporto sinallagmatico tra le due prestazione poiché si attribuisce ad un solo contraente la possibilità di decidere, unilateralmente, se esista o meno un proprio debito
Da ultimo va affrontato il problema relativo all' utilità dell' esercizio della azione revocatoria nel caso in cui lo stato passivo sia negativo, ovvero non vi siano passività di terzi accertate. In tal caso infatti il fallimento ben potrebbe chiudersi ai sensi dell' art. 118 nr 1) E 2) L.F.. Il primo caso riguarda la mancata proposizione di domande di ammissione al passivo, il secondo caso riguarda l' estinzione dei crediti ed il pagamento del compenso al curatore. Sebbene apparentemente diverse le fattispecie possono inquadrarsi unitariamente in relazione al disposti dell' art. 111 nr 1) l.f. che stabilisce la priorità per il pagamento delle spese dell' amministrazione fallimentare, comprese quelle anticipate dall' erario. Pertanto, in mancanza di passività, vi saranno comunque delle spese anticipate dall' erario (eventuale trascrizione della sentenza presso il PRA o Conservatorie Immobiliari, pagamento dei cancellieri per le operazioni di inventario, spese di registrazione) ed il compenso al curatore (da calcolare secondo l' attivo ed il passivo ipotizzabile) che vanno pagati al fine di chiudere la procedura ex art. 118 nnrr 1) e 2); di conseguenza, anche nel caso di estinzione dei crediti, qualora non fossero adempiuti i pagamenti citati e l' attivo fosse insufficiente, ma vi fosse la possibilità di far dichiarare giudizialmente inefficace degli atti, è opinione di chi scrive che ben potrebbe il curatore richiedere la autorizzazione al g.d. per agire in giudizio.
SEZ. 1 SENT. 04718 DEL 28/04/1995 RV. 492043
PRES. Corda M REL. Marziale G COD.PAR.171
PM. Martone A (Parz. Diff.)
RIC. Banca Agricola Mantovana
RES. Fall.to S.a.s. Confezioni Edda
Con il "castelletto di sconto", a differenza di quanto avviene nell'apertura di credito, la banca non attribuisce al cliente la facoltà di disporre immediatamente di una somma di denaro, ma si impegna ad accettare per lo sconto, entro un ammontare predeterminato, i titoli che l' affidatario presenterà, sicche', nell'ipotesi indicata, il "fido" non rappresenta l'ammontare delle somme di cui il cliente può disporre (in quanto queste saranno determinate dall' entità degli accreditamenti effettuati a seguito delle singole operazioni di sconto), bensì il limite entro il quale la banca e' tenuta ad accettare i titoli presentati dal cliente. Pertanto, l'esistenza di un "fido" per lo sconto di cambiali non può far ritenere "coperto" un conto corrente bancario, ne' può valere ad escludere il carattere solutorio delle rimesse effettuate dal cliente, poi fallito, su tale conto.

SEZ. 1 SENT. 01083 DEL 05/02/1997 RV. 502217
PRES. Vessia A REL. Losavio G COD.PAR.171
PM. Leo A (Conf.)
RIC. Banco di Sicilia
RES. Fall. Officina Meccanica
Con il "castelletto di sconto" o con il cd. "fido per smobilizzo di crediti", a differenza di quanto avviene nell'apertura di credito, la banca non attribuisce al cliente la facoltà di disporre immediatamente di una somma di denaro, ma si impegna ad accettare per lo sconto, entro un ammontare predeterminato, i titoli che l' affidatario presenterà, sicche', nell'ipotesi indicata, il "fido" non rappresenta l'ammontare delle somme di cui il cliente puo' disporre (in quanto queste saranno determinate dall'entita' degli accreditamenti effettuati a seguito delle singole operazioni di sconto), bensi' il limite entro il quale la banca e' tenuta ad accettare i titoli presentati dal cliente. Pertanto, l'esistenza di un "fido" per lo sconto di cambiali non puo' far ritenere "coperto" un conto corrente bancario, ne' puo' valere ad escludere il carattere solutorio delle rimesse effettuate dal cliente, poi fallito, su tale conto.

SEZ. 1 SENT. 00656 DEL 21/01/2000 RV. 533039
PRES. Sgroi R REL. Cappuccio G COD.PAR.171
PM. Gambardella V (Conf.)
RIC. Cassa Risp. Padova e Rovigo S.p.a.
RES. Falli. Costruzioni Elettriche Guerra Luciano s.n.c.
Premesso che il castelletto non costituisce una apertura di credito, in quanto comporta soltanto l'impegno della banca ad accettare operazioni di sconto sino ad un certo importo, lo sconto bancario si concreta in un mandato alla banca a riscuotere il titolo ed in un accredito del relativo importo in conto corrente, subordinato alla condizione sospensiva del salvo incasso, con la doppia conseguenza che l'importo dell'accredito in conto corrente non e' disponibile se non dopo che il titolo e' stato pagato, e che, in caso di mancato pagamento, l'addebito in conto corrente costituisce una mera operazione contabile di storno, non inquadrabile nella ipotesi di compensazione, che presuppone la sussistenza di piu' rapporti con effettivi debiti e crediti reciproci, e, che, pertanto, non puo' essere invocata ai fini della esclusione della revocatoria fallimentare nei confronti delle rimesse di cui si tratta.

SEZ. 1 SENT. 04598 DEL 22/05/1997 RV. 504635
PRES. Senofonte P REL. Rordorf R COD.PAR.171
PM. Nardi D (Diff.)
RIC. Fond. Cassa Risp. Verona
RES. Fall. Boxitalia
In virtu' del principio di buona fede, operante non solo in sede d'interpretazione ed esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.), ma anche quale fonte d'integrazione della stessa regolamentazione contrattuale (art. 1374 c.c.), al curatore che richiede la documentazione concernente i rapporti di conto corrente intestati al fallito, sul presupposto di non avere avuto la possibilità di procurarseli direttamente da quest'ultimo e per la necessita' che la sua carica gli impone di ricostruire le vicende del patrimonio del fallito, la banca ha l'obbligo di trasmettere la richiesta documentazione, sebbene a spese del richiedente, senza poter replicare di averla già in precedenza trasmessa al fallito stesso. Nel formulare la richiesta, il curatore non ha l'obbligo di indicare in dettaglio gli estremi dei documenti bancari dei quali vuole ottenere la consegna, tuttavia deve fornire quegli elementi minimi indispensabili per consentire l'individuazione degli stessi e, nel caso in cui la banca neghi l'esistenza dei documenti in questione, e' pur sempre il curatore a dover dimostrare, anche a mezzo di presunzioni, che, viceversa quei documenti esistono e, percio', la banca e' tenuta a consegnarli.

SEZ. 1 SENT. 11733 DEL 19/10/1999 RV. 530695
PRES. Corda M REL. Papa E COD.PAR.732
PM. Nardi V (Conf.)
RIC. Banca di Roma SpA
RES. Fall. Pro.Ma. Srl
Il diritto del cliente di ottenere dall'istituto bancario la consegna di copia della documentazione relativa alle operazioni dell'ultimo decennio, previsto dal quarto comma dell'art. 119 del D.Lgs. n. 385 del 1993, si configura come un diritto sostanziale la cui tutela e' riconosciuta come situazione giuridica "finale" e non strumentale, onde per il suo riconoscimento non assume alcun rilievo l'utilizzazione che il cliente intende fare della documentazione, una volta ottenuta la e deve escludersi, in particolare, che tale utilizzazione debba essere necessariamente funzionale all'esercizio di diritti inerenti il rapporto contrattuale corrente con l'istituto di credito (ben potendo, ad esempio, essere finalizzata a far emergere un illecito, anche non civilistico, di un terzo soggetto o di un dipendente della banca). Nel caso di fallimento del cliente il suddetto diritto si trasmette al curatore, posto che questi subentra - ai sensi dell'art. 31 della legge fallimentare - nell'amministrazione del patrimonio del fallito sotto la direzione del giudice delegato e considerato che detto diritto e' una componente di quel patrimonio. In ragione della natura "finale" del diritto in questione, l'istituto bancario, richiesto dal curatore della consegna della copia della documentazione, non puo' rifiutarla adducendo l'intenzione del curatore di utilizzare la documentazione in funzione dell'esercizio di eventuali azioni revocatorie e nemmeno puo' pretendere che, a seguito di esercizio da parte del curatore in sede giudiziale del diritto alla consegna, la sentenza che riconosca tale diritto escluda quella utilizzazione (la Suprema Corte ha anche osservato che lo scioglimento automatico, ex art. 78 della legge fallimentare, del contratto di conto corrente - cui nella specie si correlava il diritto alla consegna della copia della documentazione - non toglie che il diritto ex art. 119 citato, configurandosi anche dopo la cessazione del rapporto, si trasmetta al curatore).

SEZ. 1 SENT. 02538 DEL 28/03/1990 RV. 466228
PRES. CATURANI G REL. SAGGIO A COD.PAR.171
PM. DONNARUMMA U (DIFF)
RIC. FALLSOCMAGLIVE
RES. BANCA POP VE
In tema di revocatoria fallimentare dei versamenti sul conto corrente bancario del fallito, il principio, secondo il quale, nel caso di apertura di credito, con prelievi contenuti nei limiti del "fido", i versamenti stessi, eseguiti direttamente ovvero mediante bonifichi di somme provenienti da terzi, non hanno funzione solutoria, e quindi si sottraggono a revocatoria, trova deroga ove detti bonifichi risultino in concreto mezzi anomali di pagamento di pregresse esposizioni debitorie verso la banca, come quando il cliente, contestualmente all'apertura di credito, abbia ceduto alla banca tutti i propri crediti, a copertura delle passivita' di conto.

SEZ. 1 SENT. 02744 DEL 22/03/1994 RV. 485854
PRES. Favara F REL. Bibolini GC COD.PAR.171
PM. Morozzo Della Rocca F (Conf)
RIC. Fallimento Cassetti
RES. Banca Agricola Mantovana
Le rimesse effettuate dall'imprenditore, poi fallito (o da un terzo), sul proprio conto corrente bancario nel periodo "sospetto" di cui all'art. 67, comma secondo, legge fall. sono suscettibili di azione revocatoria fallimentare soltanto se, all'atto della rimessa, il conto risulti "scoperto" (intendendosi tale sia il conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo passivo, sia il conto scoperto a seguito di sconfinamento del fido convenzionalmente accordato al correntista). All'indicato fine, dovendosi verificare se la rimessa abbia funzione "solutoria" (lesiva della "par condicio creditorum") ovvero semplicemente ripristinatoria della provvista, la "copertura" o meno del conto va accertata con riferimento al "saldo disponibile", da determinarsi in ragione delle epoche di effettiva esecuzione, da parte della banca, degli incassi e delle erogazioni, non gia' con riferimento esclusivo al "saldo contabile" - che riflette la registrazione delle operazioni in ordine puramente cronologico -, ne' al "saldo per valuta" - che e' effetto del posizionamento delle partite unicamente in base alla data di maturazione degli interessi -. Sul piano probatorio, tuttavia, non risultando dall'estratto conto l'effettivo saldo disponibile, elementi presuntivi di prova possono desumersi sia dalla data di registrazione in conto delle operazioni - limitatamente a quelle "in avere" del correntista, costituite da versamenti e bonifici in contanti, nonche' ai prelevamenti in contanti o a mezzo assegni -, sia dai dati ordinati "per valuta" - limitatamente ai versamenti in conto di titoli di credito, dovendosi presumere che l'incasso sia avvenuto, quanto meno, alla data della valuta, salva la possibilita', per la banca, di provare che sia avvenuto anteriormente.

SEZ. 1 SENT. 01727 DEL 17/02/1995 RV. 490490
PRES. Sensale A REL. Graziadei G COD.PAR.171
PM. Aloisi M (Conf.)
RIC. S.p.A. Credito italiano
RES. Amministrazione straordinaria S.p.A. Metallotecnica Sarda
La natura solutoria del versamento su conto corrente bancario assistito da apertura di credito, al fine dell'assoggettamento a revocatoria ai sensi dell'art. 67 secondo comma della legge fallimentare, va riconosciuta non solo quando il versamento stesso vada a ripianare uno scoperto verificatosi oltre il limite della disponibilita' concessa al cliente, ma anche quando, pur inserendosi in una situazione di mera passivita' del conto, per anteriore utilizzo della provvista nel rispetto di quel limite, non acquisti in concreto funzione ripristinatoria di tale provvista, perche' sia incamerato, con la chiusura del conto, a tacitazione della conseguenziale obbligazione restitutoria (divenuta liquida ed esigibile), senza che al riguardo rilevi la circostanza che detta chiusura sia frutto di iniziativa del cliente anziche' della banca.

SEZ. 1 SENT. 10848 DEL 05/12/1996 RV. 501049
PRES. Borruso R REL. Bibolini GC COD.PAR.171
PM. Lo Cascio G (Conf.)
RIC. Comm. Giud. Siderurgica Meridionale
RES. CARIPLO S.p.A.
Nell'ipotesi in cui sussista e sia in corso un'apertura di credito regolata in conto corrente ed il relativo limite di fido non sia stato superato, non puo' individuarsi alcun obbligo restitutorio attuale da parte del correntista, il quale, secondo le facolta' consentite dal singolo contratto, ha la possibilita' di reintegrare la provvista per poterne ulteriormente disporre. Invece, in tutti gli altri casi in cui o venga superato il limite di fido (e, quindi, si esca dall'operativita' di quel contratto), ovvero non sussista un rapporto derivante da apertura di credito, per cui l'anticipazione eseguita dalla banca implichi un obbligo di restituzione, il versamento in conto ha funzione solutoria ed assume la veste di "pagamento" rilevante ai fini della revocatoria fallimentare. Una volta proposta tale ultima azione, l'attore puo' limitarsi a sostenere che tali versamenti, intesi come fatti solutori, avvennero per il rimborso di somme anticipate dalla banca in conto corrente, mentre costituisce onere della banca provare la sussistenza dell'apertura di credito ed il suo limite.

SEZ. 1 SENT. 11520 DEL 16/11/1998 RV. 520713
PRES. Cantillo M REL. Morelli MR COD.PAR.171
PM. Sepe EA (Conf.)
RIC. BANCA NAZ. AGRICOLTURA SPA
RES. FALL. INNORD SRL
In tema di azione revocatoria fallimentare, mentre il pagamento di un debito del fallito da parte del terzo e' passibile di revoca ex art. 67 legge fall. solo se compiuto con denaro dell'imprenditore poi fallito (ovvero a seguito di esercizio della rivalsa da parte del terzo prima della dichiarazione di fallimento), nella (diversa) ipotesi in cui il terzo abbia compiuto un versamento sul c/c dell'imprenditore quest'ultimo acquista la titolarita' della rimessa, con conseguente assoggettabilita' dei versamenti alla regola per la quale la revocabilita' e' condizionata alla funzione solutoria e non meramente ripristinatoria della provvista nei confronti della banca.












 

 

 


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