L' acquisizione dell' attivo nelle procedure concorsuali

Umberto Apice

Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

L' aspetto processuale del fallimento si manifesta sin dalla sentenza dichiarativa, facendo ad essa seguito immediatamente l' apprensione, la custodia e l' amministrazione del patrimonio del fallito. Più esattamente, l' apprensione delle attività consegue automaticamente (ope legis) alla dichiarazione di fallimento, che costituisce una sorta di «pignoramento dei pignoramenti»<1>: considerata la presunzione assoluta di conoscenza dell' avvenuta dichiarazione di fallimento e considerata l' inefficacia di ogni atto di natura patrimoniale del fallito (art. 44 legge fallimentare), si deve ritenere che lo «spossessamento» del fallito - e cioè la perdita della disponibilità del patrimonio in vista del perseguimento della finalità dell' esecuzione - avvenga sin dalla dichiarazione di fallimento, senza necessità di singoli e materiali atti di spossessamento.

Tuttavia, ad adeguare alla realtà giuridica quella di fatto vi è l' apposizione dei sigilli<2>, atto cautelare sui generis, il cui obiettivo non è tanto quello di realizzare materialmente lo spossessamento, bensì quello della custodia, quello di evitare interferenze, ecc.

A proposito dell' apposizione dei sigilli, c' è nella legge un rigore eccessivo: è lo stesso giudice delegato a procedere oppure, per suo incarico e in caso d' impedimento, il pretore del luogo ove si trovano i beni. Ma, come sempre succede di fronte al rigore eccessivo, la norma è stata scalvacata dalla prassi. Così, nella maggior parte dei casi non solo il giudice delegato è assente, ma la stessa apposizione dei sigilli viene assorbita nelle operazioni che teoricamente dovrebbero essere successive (e cioè rimozione dei sigilli e redazione dell' inventario, con cui visibilmente e «contabilmente» i beni del fallito si trasformano in attivo fallimentare).

E' comunque il giudice delegato ad emettere i provvedimenti provvisori e conservativi, che fossero necessari, ivi comprese la vendita di beni deteriorabili (art. 758 codice procedura civile) e la non interruzione dell' esercizio dell' impresa (art. 86 n. 1), propedeutica all' esercizio provvisorio<3>.

I Decreti di acquisizione

Per quanto riguarda i beni del fallito, il curatore rileva materialmente i beni mobili e trascrive sui beni immobili la sentenza dichiarativa di fallimento (con il che si perfeziona l' acquisizione).

Che cosa può fare il curatore se i beni di proprietà del fallito si trovano presso terzi?

Atteso che sono certamente applicabili tutti i mezzi di cautela giudiziali generali (sequestri giudiziari e sequestri conservativi), c' è da chiedersi: a) se sono ammessi casi di apprensione diretta da parte del curatore; b) se sono ammessi provvedimenti endofallimentari dello stesso giudice delegato.

Benché si possa correre qualche rischio di dispersione, si è generalmente sfavorevoli all' apprensione diretta da parte del curatore sia perché nessuna norma la prevede (fatta eccezione per l' art. 70 legge fallimentare, che per le sue caratteristiche non può dar luogo a una regola generale) sia perché si presterebbe facilmente a qualche abuso. Quanto a un provvedimento specifico da parte del giudice delegato (cd. decreto di acquisizione), non esiste in proposito uniformità di veduta<4>.

A me sembra che il decreto di acquisizione, che tra l' altro cozza contro il principio di tipicità degli atti del giudice, sia un' invenzione non giustificata della prassi. Se l' acquisizione avviene ex lege, un provvedimento di acquisizione è superfluo se concerne beni di cui il fallito ha il possesso; ed è illegittimo se concerne beni di cui il fallito non ha il possesso. Insomma, l' apprensione può essere ammessa solo per i beni che si trovano nel possesso del fallito: spossessamento e impossessamento non possono che essere fenomeni complementari; non ci può essere impossessamento del curatore dove non c' era possesso del fallito. Né serve molto osservare<5> che ciò che conta veramente è assicurare l' impugnabilità sia ex art. 26 legge fallimentare<6>, che prevede il reclamo al tribunale per ogni decreto del giudice delegato, sia ex art. 103, che consente di agire per la rivendicazione, restituzione e separazione delle cose mobili inventariate. Non si può giustificare una prassi illegittima con la possibilità di impugnativa. Se proprio si vuole salvare il decreto di acquisizione, si può dire che esso ha una propria autonomia funzionale nel caso di beni futuri o sopravvenuti, o nel caso di beni in possesso di terzi quando non nasca controversia sulla riferibilità al patrimonio del fallito. In tali casi l' utilità del decreto di acquisizione è correlabile alla certezza della destinazione data ai beni, a una sorta di pubblicità che ne deriva, alla più evidente responsabilità di terzi che possano venire a interferire. Al di fuori di tali casi, invece, l' uso del decreto di acquisizione si pone come atto sbrigativo e arbitrario, che lascia il terzo privo di una garanzia giurisdizionale immediata.

I beni revocabili

è nota la disputa sulla natura, costitutiva o dichiarativa, della revocatoria fallimentare. Ormai sembra prevalente la tesi che privilegia la natura costitutiva, talché ne dovrebbe discendere che l' obbligo (o l' onere) del terzo di restituire il bene all' esecuzione collettiva nasce ex nunc con la sentenza che accoglie la domanda del curatore. Un' eventuale apprensione del curatore (sia pure autorizzato dal giudice delegato) prima della sentenza passata in giudicato si atteggerebbe, perciò, come un atto illegittimo, idoneo a porre in essere una vicenda risarcitoria.

Il problema non è così pacificamente risolto con riguardo agli atti a titolo gratuito di cui all' art. 64 legge fallimentare. Questa norma, che postula una revocabilità, per così dire, oggettiva, dando luogo a una fattispecie in cui le condizioni soggettive dell' accipiens sono affatto irrilevanti, ha indotto la dottrina - per le caratteristiche indicate - a elaborare formule fuorvianti, come «inefficacia automatica», «inefficacia ope legis», ecc. A mio modo di vedere, invece, non esistono valide ragioni per discostarsi, in relazione agli atti gratuiti, dalla formulazione generale valevole per gli atti onerosi: l' azione necessaria per l' acquisizione del bene oggetto della liberalità è un' azione costitutiva e non meramente dichiarativa. Il fatto che la legge non abbia dato rilevanza alla scientia decoctionis non è un dato giuridicamente apprezzabile per situare tale forma di revocatoria al di fuori di una costruzione generale della revocatoria fallimentare, che fonda la sua ratio sull' esigenza di sottoporre a esecuzione collettiva tutti i beni fuoriusciti dal patrimonio del debitore in un determinato arco temporale, al fine di «collettivizzare» le perdite. Se per certi atti (pagamenti di debiti scaduti, atti onerosi, ecc.) la fattispecie revocatoria abbisogna, tra i suoi requisiti, della conoscenza dello stato di insolvenza, ciò testimonia solo della valutazione legislativa della necessità di contemperare l' interesse della massa dei creditori con l' interesse dell' accipiens. Di tale contemperamento il legislatore non si è fatto carico con riguardo agli atti gratuiti, che, in omaggio all' antico detto nemo liberalis nisi liberatus, sono apparsi decisamente ed oggettivamente pregiudizievoli per la massa, i cui interessi per converso sono preminenti rispetto all' interesse del beneficiato. Tutto ciò, peraltro, non incide sulla struttura della fattispecie che pur sempre si presenta come un atto (gratuito) «compiuto», e cioè perfezionato nei suoi elementi di validità e di efficacia, che, ai soli fini dell' esecuzione fallimentare, dovrà essere dichiarato inefficace<7>. Né può arguirsi la natura dichiarativa dell' azione revocatoria ex art. 64 legge fallimentare dalle diverse parole usate dalla norma («sono privi di effetto» anziché «sono revocati»), che, in mancanza di altri elementi differenziatori, devono valutarsi quale mera differenza terminologica priva di riflessi contenutistici.

Se si accede alla tesi dell' unitarietà della natura costitutiva per tutte le fattispecie di revocatoria di cui agli artt. 64, 66 e 67 legge fallimentare, bisognerà affermare che la restituzione del bene è la conseguenza, non la causa, della soggezione del medesimo all' esecuzione collettiva<8> e che, quindi, il curatore non ha la potestà di apprendere il bene prima di una sentenza passata in giudicato.

Per converso, a seguito di sentenza che accoglie la domanda di revocatoria, il curatore, anche senza rivolgersi al giudice dell' esecuzione, può apprendere il bene direttamente, magari con l' aiuto della forza pubblica. Quanto ai mezzi di apprendimento, essi sono quelli che valgono per tutti i beni del fallito: apposizione di sigilli, inventario, presa in consegna, annotazione sui pubblici registri.

In aderenza a una tale impostazione, bisognerà ritenere superfluo che il curatore, nel giudizio di revocatoria, chieda, oltre all' inefficacia dell' atto, anche la condanna alla restituzione, poiché la declaratoria d' inefficacia determina di per sé la sottoposizione del bene al procedimento liquidativo; ugualmente, in caso di rifiuto di consegna del bene, sarà superfluo un separato procedimento esecutivo individuale, essendo già in atto l' esecuzione «concorsuale ed omnicomprensiva» del fallimento<9>.

Beni acquistati dal coniuge del fallito

La situazione si presenta diversamente da quanto visto finora nell' ipotesi di beni riconducibili alla presunzione muciana di cui all' art. 70 legge fallimentare.

Qui dobbiamo distinguere il caso del bene in proprietà del coniuge acquirente dal caso del bene successivamente alienato (o ipotecato) a terzi dal coniuge.

Il primo caso è risolto testualmente: «Il curatore è legittimato ad apprenderne il possesso» (art. 70, primo comma).

L' ostilità del legislatore verso gli acquisti del coniuge dell' imprenditore insolvente è di tutta evidenza in questa disposizione, che esonera il curatore dall' esercizio di azioni o dalla richiesta al giudice delegato (cosa che peraltro avviene in pratica). In altre parole, il legislatore fallimentare del 1942 - a prescindere dalle modifiche sul sistema che doveva comportare successivamente la riforma del diritto di famiglia e l' introduzione del regime patrimoniale legale della comunione dei beni - ha considerato il patrimonio del coniuge, sia pure con il limite temporale del quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, soggetto ipso iure all' esecuzione collettiva in corso e la previsione di tale assoggettamento automatico è un altro argomento da poter far valere contro la tesi dell' immediata apprensione dei beni oggetto di atti gratuiti revocabili (ubi lex voluit dixit ubi noluit non dixit).

Per il terzo cessionario non c' è nella legge esplicita previsione dell' apprensione diretta e immediata da parte del curatore, limitandosi l' art. 70, secondo comma, legge fallimentare a stabilire che «la revocazione a danno del terzo non può aver luogo se questi prova la sua buona fede»<10>.

Vero è che la mancanza di un riferimento all' apprensione non è un argomento decisivo, potendosi ugualmente opinare che la disciplina generale degli acquisti del coniuge (e delle eventuali alienazioni del bene acquistato) è dettata dall' art. 70, primo comma, legge fallimentare e che le disposizioni relative al terzo cessionario (art. 70, secondo comma) si prefiggono semplicemente lo scopo di estendere gli effetti della presunzione muciana al terzo e di prevedere una prova liberatoria basata sulla buona fede. Ma, a mio avviso, l' apprensione diretta di un bene non situato nella sfera giuridica del fallito deve intendersi come fattispecie di particolare eccezionalità e quindi, nel dubbio, è da preferire la tesi che il bene acquistato dal terzo possa essere assoggettato all' esecuzione concorsuale solo a seguito di giudizio instaurato dal curatore.

Determinazione dell' attivo e concordato preventivo

Ad alcuni problemi particolari dà luogo la determinazione dell' attivo nel concordato preventivo. Così, ad esempio, c' è da chiedersi se il tribunale, nell' esame della proposta - sia in sede di ammissione alla procedura sia in sede di omologazione - debba tener conto anche del patrimonio della società (o del socio) unico azionista. Com' è noto, a proposito della responsabilità sussidiaria ex art. 2362 codice civile dell' unico socio di una società per azioni per le obbligazioni sorte nel periodo di possesso totalitario delle azioni, la dottrina e la giurisprudenza dominanti negano una possibile dichiarazione di fallimento<11>; ma l' esclusione dal fallimento certo non impedisce ai creditori rimasti insoddisfatti di rivolgersi al socio unico azionista (la cui posizione può assimilarsi a quella di un fideiussore ex lege). La soluzione diventa meno pacifica quando il creditore è rimasto insoddisfatto a seguito dell' esecuzione di un concordato preventivo. Qui, delle due l' una: o si ammette l' escussione della società controllante per ottenere la differenza del credito falcidiato<12>, e allora nulla quaestio in ordine alla libertà di valutazione da parte del tribunale, che potrà anche limitarsi all' esame del solo attivo (offerto o garantito) della controllata-proponente. Ovvero, invece, sarà da considerare falcidiata anche la responsabilità ex art. 2362 codice civile<13>, e allora sarà innegabile che il tribunale tenga conto, al fine di stabilire la sussistenza della convenienza economica del concordato per i creditori (art. 181, primo comma, n. 1 legge fallimentare), anche del patrimonio della controllante, per evitare che - con l' evanescenza di questa ulteriore garanzia patrimoniale - i creditori vengano a ottenere con il concordato un soddisfacimento minore di quello che potrebbero ottenere da una liquidazione fallimentare. In quest' ultimo caso - anche se, in verità, mi sembra più fondata la tesi della permanenza di responsabilità, per il semplice motivo che l' ipotesi in questione è riconducibile alla lettera dell' art. 184 legge fallimentare, che fa salvi i diritti contro il fideiussore del debitore concordatario - il patrimonio della controllante diventa oggetto di valutazione da parte del tribunale nel giudizio ex art. 181 legge fallimentare, ma resterà comunque al di fuori dell' attivo della procedura, in omaggio ai principi della autonomia patrimoniale delle società di capitali. Ciò comporterebbe, in ultima analisi, la non ammissibilità (e non omologabilità) di una proposta di concordato preventivo con cessio bonorum, pur in presenza di tutte le condizioni dell' art. 160 legge fallimentare, quando la società proponente sia oggetto di possesso totalitario di altra società che non abbia presentato a sua volta proposta di concordato.


Note:

<1>Cfr. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1976, 444.

<2>Così Provinciali-Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1988, 441.

<3>Nella pratica si fa scarso uso della possibilità di non interrompere l' esercizio dell' impresa prima dell' esercizio provvisorio, che viene disposto dal tribunale, o prima di un affitto di azienda, che, per forza di cose, presuppone un certo iter formativo della volontà negoziale. Non mi sembra azzardato, invece, opinare che l' art. 86 n. 1 legge fallimentare consente al giudice delegato, anche nella immediatezza della dichiarazione di fallimento o dell' inventario, di far proseguire l' attività.

<4>Una parte della giurisprudenza è favorevole al decreto di acquisizione: v. Cass. 3257/1955; Trib. Milano 28 ottobre 1957, in Dir. fall. 1958, II, 745, che addirittura ammette il decreto di acquisizione per un bene fuoriuscito dal patrimonio del fallito con atto sottoponibile a revoca; Trib. Lucca 25 maggio 1983, in Il Fallimento, 1984, 729. In senso contrario all' acquisizione per beni in possesso di terzi v. Trib. La Spezia 2 dicembre 1954, in Dir. fall. 1954, 766 e soprattutto Cass. 9 aprile 1984, n. 2258, in Dir. fall. 1984, II, 757, secondo cui il decreto di acquisizione di beni in possesso di terzi è un decreto giuridicamente inesistente, avverso il quale è ammessa in ogni tempo actio nullitatis. In dottrina, a favore dell' acquisizione, v. Pajardi, op. cit., 446. In senso contrario v. Gualtieri, Sull' acquisizione alla massa fallimentare, in Foro pad. 1957, II, 81; Ferrara, Il fallimento, Milano, 1974, 442.

<5>Così Pajardi, op. cit., 447. V. anche Provinciali-Ragusa Maggiore, op. cit., 444, secondo cui un fondamento di diritto positivo del decreto di acquisizione potrebbe individuarsi nella generica potestà del g.d. di emettere «provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio» (art. 25, n. 2 e ultimo comma legge fallimentare). Ne deriverebbe che il decreto di acquisizione si viene a caratterizzare per il fatto di essere emanato sulla base del presupposto dell' urgenza di provvedere e di essere impugnabile ex art. 26 legge fallimentare.

<6>In proposito vale la pena ricordare che l' illusoria garanzia di tutela dei diritti soggettivi fornita dal sistema degli artt. 23 e 26 legge fallimentare è stata oggetto di un lungo dibattito dottrinario e giurisprudenziale, sfociato nella sentenza della Corte costituzionale n. 42/1981 (in Il Fallimento 1981, 249) e nella sentenza della Corte Suprema n. 2255/1984 (ivi, 1984, 1185). Ne è derivato un sistema «costituzionalizzato» dell' art. 26 legge fallimentare, così articolato: avverso i decreti del giudice delegato incidenti su diritti soggettivi è ammesso reclamo al tribunale entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto impugnato; la decisione del tribunale dev' essere motivata e può essere emessa dopo l' audizione delle parti in camera di consiglio; avverso la decisione del tribunale è ammesso il ricorso per cassazione ex art. 111 della costituzione.

<7>Sembra così orientato Pajardi, Il sistema revocatorio, Milano, 154.

<8>Cfr. Maffei Alberti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Ruisi, Jorio, Maffei Alberti, Tedeschi, Il fallimento, Torino, 1978, 93.

<9>V. Trib. Roma 17 marzo 1966, in Dir. fall. 1966, II, 677, con nota di Pazzaglia.

<10>Che non si tratta di «revocazione» (melius: revocatoria), ma di acquisto a non domino è detto da Pajardi, Il sistema revocatorio, cit., 255.

<11>Cfr. Cass. 24 marzo 1976, n. 1044, in Dir. fall. 1976, II, 352; Cass. 6 aprile 1966, n. 907, in Foro it. 1966, I, 1037. In dottrina cfr. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, cit., 658; Ferrara, op. cit., 582; Apice, Riflessioni sul Progetto Pajardi. Il socio unico azionista, in Dir. fall. 1991, I, 797; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, I, 220; Pellegrino, I soci a responsabilità limitata della società fallita, in Dir. fall. 1975, I, 122; Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 1991, 360. La tesi è motivata sull' argomentazione che il socio non acquista la qualità di imprenditore, presupposto della dichiarazione di fallimento, e che non è applicabile la norma eccezionale dell' art. 147 legge fallimentare, che, per la cd. estensione del fallimento, fa riferimento a quei soci che «strutturalmente» sono responsabili illimitatamente e lascia invece fuori dal fallimento gli altri soci per i quali la responsabilità è una conseguenza di particolari situazioni.

<12>Nel senso di un immutato diritto satisfattorio verso il socio unico azionista, anche a seguito di falcidie concorsuali, cfr. Trib. Milano 18 marzo 1985, in Riv. it. leasing 1985, 528, secondo cui la permanenza del credito verso il socio unico azionista opera «in virtù di una vera e propria garanzia ex lege offerta a fronte di episodiche anomalie nel congegno corporativo volte a distrarne l' affidamento patrimoniale sotteso al regolare funzionamento della società con la quale ebbero a contrattare».

<13>Cfr. Ghia, Considerazioni sulla responsabilità patrimoniale dell' unico azionista, in Il Fallimento 1989, 253, secondo cui i creditori concordatari, una volta soddisfatti nella percentuale concordataria, non dovrebbero più essere considerati creditori e quindi non avrebbero titolo per produrre domande nei confronti del socio unico azionista.

fonte: Apice Umberto in Il Fallimento n. 4, anno 1992, pag. 349

 

 












 

 

 


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