in
collaborazione con il
Centro
studi di diritto fallimentare di Bari
La
sorte del rapporto di lavoro nelle procedure concorsuali
Prof.
Piero Giovanni ALLEVA
Ordinario di diritto del lavoro Università di Bologna
1)Rapporti
di lavoro e procedure concorsuali:una problematica in evoluzione
Una prospettiva di tipo storico-evolutivo è,a nostro avviso,quella
che con- sente di affrontare nel modo più comprensibile ed
utile la tematica della sorte dei rapporti di lavoro nelle
procedure concorsuali,ancorché l 'arco di tempo interessato
da quell 'evoluzione resti racchiuso in pochi decenni. Non
si può disconoscere,invero,che il quadro normativo risultante
dai com- binati -ma anche criptici -disposti del V libro del
codice civile e della legge fal- limentare abbia cominciato
a muoversi,dopo una stasi iniziale durata oltre un ventennio,solo
a metà degli anni '60,quando si verificò una profonda,repenti-
na trasformazione dei contenuti e delle prospettive della
normativa lavoristica, che si è poi riflessa in vari modi,con
arricchimenti,ma anche con variazioni di rotta,sulla materia
delle procedure concorsuali. È opportuno anticipare fin d
'ora qualche considerazione o rilievo generale e di principio
su tale processo evolutivo,e segnalare,cioé che possono indivi-
duarsi almeno due diversi mutamenti e "aperture d 'orizzonte
"del diritto del lavoro che hanno inciso profondamente sulla
nostra problematica. Vi è stato,anzitutto,con l 'emanazione
della legge n.604/1996,il riconosci- mento aperto dell 'interesse
del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, quale
oggetto di protezione da parte dell 'ordinamento e vi è stato,poi,trascor-
so un decennio,con il sopravvenire della legge n.675/1977,il
riconoscimento e la protezione dell 'interesse al mantenimento,della
condizione di occupato,e comunque del possesso di valide "chances
"nel mercato del lavoro. Non si tratta,a dispetto della prima
impressione,della stessa cosa e del medesimo interesse,poiché
cambiano non solo l 'ambito,rispettivamente azien- dale e
superaziendale in cui può essere soddisfatto il bisogno di
tutela,ma cam- biano altresì i contenuti. Per "mantenimento
del posto di lavoro "intendiamo,infatti,la salvaguardia della
condizione di dipendente di quella specifica impresa,con limitazione
compressione del diritto del datore di lavoro di sciogliersi
liberamente del rap- porto,mentre il mantenimento "dell 'occupazione
"si realizza anche e soprattut- to in ambito interaziendale,nel
mercato del lavoro,con il passaggio regolato, incentivato
e garantito da un 'impresa all 'altra,o anche soltanto con
la predi- sposizione di strumenti che migliorino la possibilità
di tale passaggio. Non è inutile notare e sottolineare che
questa seconda prospettiva era ancora estranea alla stessa
legislazione statutaria,perché lo Statuto dei lavoratori,se
da una parte introduceva un sostanziale potenziamento della
tutela del posto di lavoro,sancendo la cd "stabilità reale
"(art.18),dall 'altro non spingeva,per così dire,il suo sguardo
al di là del muro di cinta dell 'azienda.Non conteneva,inve-
21.ro previsione alcuna in materia di licenziamenti collettivi,di
integrazioni sala- riali finalizzate ad una "mobilità "interaziendale,di
strumenti normativi specifi- ci mirati al ricollocamento (sul
tipo,per intendersi,degli odierni contratti di "reinserimento
")ecc.. Fu la grande crisi economico-produttiva e di riorganizzazione
degli anni '70, che sancì il declino rapidissimo del vecchio
apparato industriale,ad aprire di necessità,nuove prospettive,visto
che,comunque,la lotta per il mantenimento, fabbrica per fabbrica,dell
'occupazione si dimostrava,in tali condizioni,per- dente,così
da forzare sia le rganizzazioni sindacali sia il legislatore
ad imma- ginare una modificazione ed insieme un ampliamento
della normativa di tutela. A mettere a punto,cioè,l 'idea
che la protezione ordinamentale dovuta al lavo- ratore dovesse
andare al di là del rapporto di lavoro in essere,ed estendesi
tem- poralmente oltre la sua fine,o oltre la fine,comunque,della
sua reale esecuzio- ne come rapporto di scambio:con la precisazione
(ed era questo,forse,il suo limite)che la nuova "dote "di
tutele assegnate ai lavoratori si giustificava pur sempre
in ragione della loro originaria condizione,di "occupati ",che
dunque doveva permanere,almeno formalmente,il più a lungo
possibile. L 'intuizione concretatasi,dapprima,nei disparati
provvedimenti che furono indicati,collettivamente,come "legislazione
dell 'emergenza "divenne,con la legge n.675/1977 un sistema
organico,tanto organico da configurare sulla carta,una sorta
di circuito forzoso della mano d 'opera,che,in teoria,avrebbe
impedito a chi una volta avesse occupato un posto stabile
in un 'impresa indu- striale,di uscire comunque dal mondo
dei "garantiti ",potendo essere "trasferi- to "ad altra impresa,tramite
il sistema legale di mobilità,ma non licenziato. Molti contenuti
di tutela,e in parte anche la sua stessa impostazione si sono
in seguito modificati,e si dirà poi in quale direzione. Non
è,però,il caso di procedere oltre in questa breve anticipazione,che
è servita soprattutto ad evidenziare la radicale odierna differenza
di quadro di rife- rimento,anzitutto politico-giuridico rispetto
alla situazione iniziale,cui dobbia- mo ora ritornare,e che
era caratterizzata da una ben diversa,ed assai più chiu- sa
e ristretta concezione dei contenuti di tutela del diritto
del lavoro. Invero,prima della legge n.604/1966 il rapporto
di lavoro,racchiuso com 'e- ra tra l 'alfa e l 'omega di due
atti negoziali ugualmente liberi,come assunzione e licenziamento,era
disciplinato dalla legge essenzialmente dal punto di vista
delle condizioni normative ed economiche dello scambio tra
prestazione e retri- buzione,e per il tempo di operatività
dello scambio stesso,la cui durata dipen- deva dalla volontà
sovrana ed insindacabile di anche una sola delle due parti.
Non può meravigliare,allora,che l 'intersezione tra diritto
del lavoro e dirit- to fallimentare fosse assai ridotto,e
per così dire,solo tangenziale,visto che la situazione socio-economico
cui il diritto fallimentare rivolgeva la sua attenzio- 22.ne
e i suoi disposti,e cioè la crisi economico-produttiva dell
'impresa,era anche quella in cui il suddetto scambio cessava,nella
massima parte dei casi,di fun- zionare regolarmente,e visto
che il diritto del lavoro non si proponeva ancora di tutelare
l 'interesse del lavoratore a mantenere,nonostante quella
crisi,il posto di lavoro o la qualità di occupato. Tuttavia,anche
nella ristrettezza dei contenuti concreti,ridotti in sostanza
alla sorte e disciplina dei crediti di lavoro,il dibattito
dottrinale e giurispruden- zale sul punto di intersezione
tra i due diritti è stato di grande importanza,per- ché per
la soluzione di quelle limitate problematiche di ordine concreto,è
risul- tato necessario indagare tutto un retroterra normativo
e dogmatico,con acquisi- zione teoriche,a quel momento di
rilievo quasi solo accademico,ma rivelatesi, poi assai importanti
negli sviluppi successivi della legislazione.Occorre,allora,
riconsiderare e ricostruire lo "stato dell 'arte "al momento
in cui,con l 'entrata in vigore della legge n.604/1966,"qualcosa
"cominciò a muoversi nel diritto del lavoro,con ripercussioni
immediate nel diritto fallimentare.
2)La
continuità del rapporto di lavoro e la normativa codicistica
Fino a quel punto,la sorte del rapporto di lavoro a seguito
della dichiarazio- ne di fallimento dell 'imprenditore era
stata considerata assolutamente scontata: quell 'evento e
la cessazione dei rapporti erano destinate,in concreto,a coinci-
dere,ma opinioni diverse esistevano sul "come "e sulla causa
giuridica della cessazione. Qualche voce,isolata e profetica,per
il vero non era mancata,a ricordare che,teoricamente,con l
'esercizio provvisorio dell 'impresa e poi (sempre che lo
si ritenesse possibile)con l 'affitto fallimentare e con la
cessione in blocco del- l 'azienda,questa sarebbe potuta sopravvivere
attraverso la procedura concor- suale,e con essa i rapporti
di lavoro.Ma si trattava di ipotesi sostanzialmente accademiche,perché
la convinzione della naturale libera risolubilità del rappor-
to di lavoro,come rapporto a base fiduciaria,era così radicata
da fare preferire, anche nella eventualità che l 'esercizio
provvisorio venisse autorizzato,la solu- zione o prassi della
estinzione,intanto,di tutti i rapporti,e della riassunzione
"ex novo "dei lavoratori che risultassero necessari alla curatela.
Il problema semmai era,come detto,quello della causa giuridica
della ces- sazione,ed in proposito confliggevano tre opinioni
dottrinali e giurisprudenzia- li:quella della estinzione "ipso
iure ",quella della applicazione del meccanismo di "resiliazione
"dell 'art.72 legge fall.,che vede il contratto entrare in
fase di "arresto "fino alla decisione del curatore di subentrarvi
o invece di non suben- trarvi e provocarne così l 'estinzione,e,infine,quella
della continuazione auto- matica con curatela,fermo,però,il
potere di quest 'ultima di recedere "ad nutum "un minuto o
un giorno dopo l 'avvenuto subentro. 23.La "pietra di paragone
"della disputa era costituita,nella sostanza,da un 'u- nica
norma,quella dell 'art.2119 secondo comma c.c.,a mente della
quale "non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto
(di lavoro n.d.r.)il fallimen- to dell 'imprenditore ".Quanto
alla "posta "in gioco,si trattava,in concreto,di stabilire
se al lavoratore spettasse il preavviso o l 'indennità di
esso sostitutiva, e soprattutto se quest 'ultima andasse annoverata
tra i debiti concorsuali o,inve- ce,tra i debiti di massa,e
se il medesimo collocamento dovesse essere ricono- sciuto
alle indennità di anzianità dovute ex art.2120 c.c.,trattandosi
di spettan- za che si riteneva sorgesse o maturasse istantaneamente
al momento dell 'estin- zione del rapporto. L 'incompatibilità
tra la previsione dell 'art.2119 secondo comma c.c.e la tesi
della cessazione automatica apparve ben presto evidente,ancorché
i fautori di quest 'ultima cercassero (scorrettamente)di interpretare
lo stesso art.2119 secondo comma come riconoscimento al lavoratore
non del preavviso -ossia della non avvenuta cessazione,ancora,del
rapporto -ma della semplice inden- nità economica di mancato
preavviso. È agevole notare,invece,che quest 'ultima indennità
presuppone pur sempre una potenziale durata del rapporto per
il periodo di preavviso,e dunque l 'insus- sistenza di un
'impossibilità sopravvenuta della esecuzione,dalla quale soltanto
potrebbe derivare,se totale e definitiva,l 'estinzione immediata,"ipso
mire ",del rapporto.Impossibilità che,d 'altro canto,non vi
è motivo di configurare,giac- ché essa si dà,nel diritto del
lavoro,soltanto quanto la prestazione lavorativa sia divenuta
materialmente ineseguibile (es.:sopravvenuta inabilità fisica
del lavo- ratore)oppure sia divenuto inutilizzabile il substrato
aziendale (es.:duratura messa fuori uso degli impianti),e
non quando le ragioni del mancato ricevi- mento della prestazione
siano da ricondurre all 'andamento economico,pur pes- simo,dell
'impresa. Molto più complicata era la scelta tra le due altre
alternative,e a dire il vero non può dirsi del tutto definita
neanche ai giorni nostri,stante il contenuto impli- cito di
alcune pronunzie giurisprudenziali. In proposito,va preliminarmente
ribadito il meccanismo disciplinato dall 'art. 72 l.fall.non
può esser ricondotto ad un recesso,e tanto meno oggi che il
licen- ziamento ha assunto tratti formali e procedurali tipici:con
quel meccanismo, invero,il curatore si limita a non subentrare
nel rapporto,restando in posizione di terzo,salvo poi decidere
di subentrarvi,dandogli,allora,ulteriore esecuzio- ne,o,invece,di
render definitivo l '"arresto "provocandone lo scioglimento,
mentre il licenziamento presuppone l 'avvenuto subentro,costituendo
esercizio dei poteri di una parte contrattuale. All 'epoca
a cui ci siamo riportati,e cioè alla vigilia dell 'entrata
in vigore della legge n.604/1966,la differenza era in concreto
poco visibile,e limitate le 24.sue conseguenze,visto che il
licenziamento era,per parte sua,comunque libero e privo di
forma solenne,e,tuttavia,la pietra di paragone dell 'art.2119
secon- do comma c.c.,ben consentiva,con un po 'di approfondimento,analitico,di
apprezzarla in modo adeguato. Si trattava,-e si tratta -di
considerare la norma per il suo reale,ed anche let- terale,significato
o contenuto precettivo,senza arbitrarie riduzioni:essa,inve-
ro,non parla di indennità di mancato preavviso,bensì di inconfigurabilità,in
caso di fallimento,di una giusta causa di risoluzione del
contratto,e la "risolu- zione "del rapporto di lavoro,è,come
si sa,un "genus "che non comprende solo il licenziamento,ossia
il negozio solutorio del datore,ma anche l 'altra "species
" costituita dalle dimissioni del lavoratore. La portata del
disposto legale risulta,allora,ben più complessa ed ampia:
anche il lavoratore non può dimettersi legittimamente da un
momento all 'altro solo perché l 'imprenditore è stato dichiarato
fallito,ove non sussistono altre cir- costanze costituenti
giusta causa (es.:arretrati salariali),ma deve restare a disposizione
della curatela almeno per il periodo di preavviso. Ciò è sufficiente
ad escludere che la soluzione teoricamente esatta possa essere
quella della applicazione dell 'art.72 legge fall.,perché
se il contratto continua a produrre effetti obbligatori per
una parte (qui il lavoratore)significa che non si è "arrestato
"e che continua,dunque,a produrli anche per l 'altra, ovvero,in
una parola,che è ancora pienamente operativo ed efficace.E,d
'altro canto,la natura "reale "del periodo di preavviso,ossia
la continuità del rappor- to per la sua durata è uno dei capisaldi,dalle
moltissime applicazioni,del dirit- to del lavoro. Può ancora
aggiungersi,che ove si ritenesse applicabile l 'art.72 legge
fall.il contraente "lavoratore ",riceverebbe,alla fine,contraddittoriamente,un
tratta- mento deteriore rispetto al contraente "venditore
"direttamente considerato dallo stesso art.72:il venditore,che
non ha ancora eseguito la prestazione,non è,infatti,tenuto
ad eseguirla in cambio di moneta fallimentare.Può farlo se
lo vuole,ma altrimenti può astenersene e attendere la determinazione
del curatore: se questi si scioglie dal contratto al venditore
resta il bene,e dunque non ha preso nulla,e se invece vi subentra
il venditore viene pagato in prededuzione, con denaro di massa.
Il contraente "lavoratore "invece,dovrebbe,ai sensi dell 'art.2119
secondo comma,comunque restare a disposizione,e quindi,in
sostanza,prestare o con- sumare le sue "opere ",ma se il curatore
decidesse di non subentrare nel con- tratto,riceverebbe l
'indennità di mancato preavviso,e cioè la retribuzione di
quel periodo,in moneta fallimentare. Sul piano logico-interpretativo,dunque,la
tesi della continuazione automati- ca appariva preferibile,e
comportava un vantaggio,per l 'epoca,non piccolo:il 25.privilegio
riconosciuto ai crediti di lavoro era infatti di grado infimo
(solo una legge del 1975 lo avrebbe portato al primo grado),e
la vera tutela,costituita dal Fondo di garanzia della legge
297/1982 era molto al di là da venire,talché la collocazione
in prededuzione dell 'indennità di preavviso,ed anche (economica-
mente "soprattutto ")delle indennità di anzianità rappresentava
un sostanziale progresso,che mai,tuttavia,la giurisprudenza
ha smesso di osteggiare. Quella tesi della continuazione automatica
ha poi acquistato ulteriore credi- bilità ed organicità con
l 'entrata in vigore della legge 15 luglio 1966 n.604,che
riduceva ad eccezione la libertà di licenziamento,ed introduceva
la necessità di un giustificato motivo soggettivo od oggettivo.
Invero,nel nuovo quadro sistematico,nascente dei combinati
disposti dalla nuova legge e dall 'art.2119 secondo comma
c.c.,il fallimento,che non costi- tuiva giusta causa di licenziamento
e lasciava in esistenza il rapporto di lavoro con automatico
subentro della curatela,poteva,però,dispiegare negative con-
seguenze sulla efficienza dell 'organizzazione aziendale,tali
da configurare,in concreto un giustificato motivo oggettivo
di licenziamento. Ma se in tal modo si dava,da un lato,una
sistemazione giuridica alla inter- sezione originaria tra
diritto del lavoro e diritto fallimentare,dall 'altro si apri-
vano nuovi orizzonti,perché una volta ammessa la necessità,per
un legittimo licenziamento dei dipendenti dell 'impresa fallita,di
un giustificato motivo oggettivo,la considerazione successiva
poteva essere soltanto che esso sarebbe ricorso molto spesso,o
quasi sempre,ma non immancabilmente e in modo ine- luttabile.
Tutto dipendeva,infine,dal fatto che si determinasse o meno
la dispersione dei beni e dell 'organizzazione aziendale,e
dunque,se si fossero irrobustite,con idonei interventi nominativi,le
teoriche possibilità di sopravvivenza dell 'azien- da attraverso
la procedura concorsuale (esercizio provvisorio,affitto o
cessione dell 'intero complesso),e,per altro verso,si fosse
riusciti a garantire ai lavora- tori mezzi di resistenza economica
durante lo svolgimento della vicenda,si sarebbero potuto formulare
piani non più velleitari,ma sufficientemente reali- stici,di
salvaguardia di posti di lavoro e dell 'attività produttiva.
Occorreva,insomma,mettere a punto strumenti sufficienti per
un "pilotag- gio "delle procedure concorsuali in direzione
non dello smembramento dell 'a- zienda e del realizzo parcellizzato
dell 'attivo,ma del subentro di nuovi sogget- ti imprenditoriali.
Con questo subentro si sarebbe potuto realizzare la salvaguardia
dei posti di lavoro,visto che all 'affitto ed alla vendita
fallimentare dell 'azienda si sarebbe poi potuto cercare di
applicare,anche prima della novella del 1990 (art.47 legge
428/1990)il disposto dell 'art.2112 c.c.ed il suo precetto
di continuità,con il subentrante,dei rapporti di lavoro. 26.Risultava
già chiaro,peraltro,che il divario tra la continuità giuridica
del rap- porto di lavoro nonostante la dichiarazione di fallimento
e l 'effettiva continuità dell 'occupazione nell 'impresa,o
anche fuori di essa era assai ampio,e sarebbe- ro occorsi
molti e diversificati interventi normativi per cercare di
colmarlo. Interventi che avrebbero anche dovuto eliminare
alcune "rigidità "discendenti da quelle acquisizioni teoriche
come nel caso dell 'art.2112 c.c.appena ricorda- to:il "rilancio
"di un 'impresa già in stato di decozione non può che essere
gra- duale,e comportare,almeno nel breve-medio periodo,ristrutturazioni
e riorga- nizzazioni profonde,con conseguente esubero di parte
del vecchio personale che,invece,il vecchio testo dell 'art.2112
c.c.avrebbe fatto passare,in massa ed automaticamente alle
dipendenze del nuovo imprenditore. Occorreva,poi,evitare che
il mantenimento dei rapporti di lavoro si tradu- cesse subito
in un insostenibile carico delle finanze fallimentari,con
l 'accen- sione di debiti retributivi da soddisfare con denaro
della massa in prededuzione e,insomma configurare una più
ampia intersezione,tra fallimento e diritto del lavoro,inserendo
espressamente la vicenda concorsuale nella disciplina genera-
le,che prendeva forma giusto agli inizi degli anni '70,dei
mezzi di governo delle crisi occupazionali e produttive.Sempre
-si intende -sulla base di quel presupposto:che con la dichiarazione
di fallimento null 'altro avvenga nel con- tratto di lavoro,se
non la sostituzione dell 'Ufficio nei poteri e doveri della
parte datoriale.
3)Le
procedure concorsuali e gli "altri "rapporti di lavoro
Prima
di addentrarsi,però,nell 'esame della evoluzione normativa
degli anni '70 -esame indispensabile per comprendere l 'attuale
quadro legale ed i suoi problemi,è necessaria una breve riflessione
che investe l 'attuale concreta ampiezza della nostra tematica.
Il fatto è che nei lunghi e fitti dibattiti dottrinali e giurisprudenziali
e negli interventi legislativi in tema di procedure concorsuali
e rapporti di lavoro,si è sempre presupposto ed inteso che
questi fossero rapporti di lavoro subordinato e a tempo indeterminato.
E non vi è dubbio che,fino a qualche anno fa una simile considerazione
non divergesse di molto dalla effettiva consistenza del problema
socio-economico.Ma oggi?Oggi dilagano i rapporti di lavoro
a termine e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa,che
sono,statisticamente,gli strumenti attraverso i quali le imprese
reclutano gli 8/10 delle nuove forze lavorative.Né si tratta
più di situazioni temporanee,che preludano all 'assunzione
stabile del lavoratore con rapporto a tempo indeterminato,perché
è ormai confermata la rilevazione di un fenomeno nuovo ed
inquietante:sempre più sono i lavoratori che hanno ormai alle
27.spalle soltanto rapporti a termine o soltanto rapporti
parasubordinati,per i quali cioè,si prefigura una intera vita
lavorativa di "precariato ". Poco importa che una parte rilevante
di quei rapporti sia in realtà illegittima, per trattarsi,con
riguardo ai rapporti di collaborazione,di semplici simulazioni
o camuffamenti di rapporti di lavoro subordinato,o con riguardo
ai rapporti a termine,di contratti stipulati in violazione
delle causali consentite dalla legge dalla contrattazione
collettiva. Ciò non toglie,infatti,che al momento della dichiarazione
di fallimento occorra farsi carico della sorte anche di questi
rapporti,sempre più presenti e numerosi,ed anzi la sussistenza
di frequenti casi di illegittimità non può non costituire,per
gli Uffici fallimentari,un grosso problema aggiuntivo.Proprio
in questo momento,invero,sarà fatta,probabilmente,valere dagli
interessati l 'il- legittimità della loro situazione e la
pretesa di trasformazione di quei rapporti in normali rapporti
a tempo indeterminato,onde rivendicare un soltanto spettanze
passato,ma anche benefici futuri,quelli che,come vedremo,le
leggi assicura- no,anche nelle procedure concorsuali,al rapporto
di lavoro "classico ". Già le situazioni "fisiologiche "non
sono comunque di facile soluzione,poi- ché,invero,se si considerano,ad
esempio,i rapporti a termine,è veramente dif- ficile condividere
l 'opinione,comune anche in giurisprudenza (v.Cass.N. 799/1980)per
cui il curatore potrebbe comunque recedere dal contratto di
lavo- ro a termine,non diversamente che da un contratto di
lavoro a tempo indeter- minato,invocando il giustificato motivo
oggettivo. Si tratta,invero,di un 'opinione semplicistica,che
non tiene conto del fatto che l 'apposizione di un termine
ad un contratto di lavoro,come ad altri contrat- ti di durata
per la distribuzione o erogazione di servizio di beni,non
ha solo lo scopo e l 'effetto di porre un limite fisso temporale
all 'efficacia del contratto, così da determinare l 'estinzione
automatica del rapporto,ma anzitutto quello di far assumere
alle parti il rischio della sopravvenuta antieconomicità del
contrat- to,quel rischio,cioè,per il quale l 'ordinamento
conferisce,normalmente,alle parti di un contratto di durata
il diritto di recesso (ordinario). Solo l 'esistenza di una
giusta causa legittima pertanto il recesso "ante tem- pus
"(Cass.N.2590/1983),ma l 'art.2119 secondo comma esclude,per
parte sua,che il fallimento integri una giusta causa.L 'invocabilità
di un giustificato motivo oggettivo è,peraltro esclusa dalla
stessa opposizione al termine,e,dun- que,a rigor di logica,al
lavoratore resta dovuto tutto l '"id quod interest ",l 'in-
tero importo,cioè,dei compensi previsti fino alla scadenza
del termine. Quanto ai rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa si tratta di valu- tare lo stato di avanzamento
del processo di osmosi con la disciplina del rapporto di lavoro
subordinato,processo,per il vero,osteggiato dalla giurisprudenza,ma
che è ormai nella realtà sociale,oltre che,a nostro avviso,nell
'art.35 Cost. 28.Se si ritiene,infatti,che sussiste tra i
rapporti di collaborazione ed i rapporti di lavoro subordinato
ancora una sostanziale estraneità,che rende inapplicabile
ai primi la normativa codicistica (non parliamo di quella
speciale)del recesso, ed in particolare l 'art.2119 secondo
comma,potrebbe affermarsi l 'applicabilità a quei rapporti
di collaborazione non della regola di continuità automatica
del rapporto con la curatela,ma del meccanismo previsto dall
'art.72 L.F.,che,in caso di mancato volontario subentro del
curatore comporterebbe l '"arresto "del rapporto,e della maturazione
di ogni connesso diritto del prestatore al momen- to della
dichiarazione del fallimento,e poi la sua estinzione. Ove
si adotti,invece,la diversa valutazione di comunanza,o quanto
meno di estensibilità per analogia,di alcuni principi normativi,si
dovrebbe giungere alla conclusione della continuazione del
rapporto,con possibilità,peraltro,della cura- tela di procedere
ad un recesso ordinario,"ad nutum "pressoché immediato,pur-
ché,però,al contratto di collaborazione non sia stato apposto
-come normalmen- te avviene -un termine.In questo caso,infatti,si
determinerebbe la medesima situazione sopra ricordata a proposito
del contratto di lavoro subordinato a termi- ne:escluso,dall
'art.2119 secondo comma,il recesso straordinario,ed escluso,dal
termine,il recesso ordinario,il prestatore diverrebbe creditore,nei
confronti del fallimento,del "tantundem "di tutti i compensi
previsti fino alla scadenza. A queste incertezze va aggiunta
quella che attiene alla stessa qualificazione concreta del
singolo rapporto,perché è innegabile che tra subordinazione
e para- subordinazione è assai difficile distinguere e,purtroppo,che
il ricorso ai rap- porti parasubordinati è stato,da parte
dei datori di lavoro italiani,molto spre- giudicato.Si pensi
che,a fine 1999,i rapporti censiti dall 'INPS sfiorano i 2
milioni,e non sarà difficile comprendere che per buona parte
di essi potrebbe porsi una questione di simulazione e di riqualificazione
del rapporto in rappor- to subordinato,e che una sede elettiva
per tale contestazione sarà proprio la sede fallimentare.È
un grave problema,che viene consegnato al legislatore,perché
se ne tenga conto nell 'elaborazione,peraltro tormentatissima,della
nuova nor- mativa "statutaria "del lavoro parasubordinato:le
soluzioni immaginate fino ad ora (ad esempio "la previa certificazione
"amministrativa della natura del rap- porto)non sembrano,per
il vero,appaganti.
4)La
legislazione degli anni '70 e la vicenda fallimentare:dalla
continuità "teorica "del rapporto di lavoro alla salvaguardia
dell 'occupazione.
Si
può dunque dire,tornando ora all 'evoluzione dei rapporti
tra lavoro subor- dinato e procedure concorsuali,che nei primi
anni '70,il punto principale ed ini- ziale riguardante la
sorte del rapporto di lavoro,e cioè la sua continuazione automatica
con la curatela,era ormai acquisito,ma che la distanza tra
questo 29.punto di partenza ed un concreto approdo di salvaguardia
dei posti di lavoro restava enorme. Per quale ragione,infatti,il
curatore di un fallimento non avrebbe dovuto procedere immediatamente
ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di tutti
i dipendenti,dal momento che ogni giorno di ritardo avrebbe
significato accumularsi di debiti retributivi da pagare in
prededuzione?E quando,per lo più,la stasi produttiva dell
'azienda fallita non avrebbe consentito un utilizzo proficuo,delle
prestazioni lavorative? Solo in pochissimi casi poteva realizzarsi,invero,la
sequenza fortunata,che avrebbe dovuto contemplare l 'autorizzazione,dapprima,di
un esercizio provvi- sorio,con coinvolgimento,per di più,di
tutti i dipendenti,e poi il subentro, senza soluzione di continuità,di
un nuovo soggetto imprenditoriale,il quale rilevasse,(eventualmente
previa affittanza)l 'attività aziendale e tutti i rapporti
di lavoro.Questo "libro dei sogni "sembrava destinato a chiudersi,nella
nor- malità dei casi,già dopo la prima pagina,ma le contingenze
socio economiche e sindacali hanno prodotto un esito diverso.
Il fatto è che la grande crisi,insieme economica e di ristrutturazione,che
investì l 'industria italiana negli anni '70 generò una specifica
e fitta legislazio- ne di sostegno del reddito e,(nelle intenzioni)dell
'occupazione dei lavoratori dipendenti da imprese in crisi
economica e produttiva,nell 'ambito della quale ben poteva
trovare posto la vicenda fallimentare,riducibile,tutto sommato,ad
una particolare connotazione della crisi aziendale. L 'istituto
giuridico protagonista di questa fase storica è stato,senza
alcun dubbio,la cassa integrazione guadagni straordinaria
(CIGS),così come disci- plinata,o ridisciplinata dalla legge
n.675/1977. Diversamente dalla "sorellina minore ",ossia dalla
CIG rdinaria,la CIGS veniva qualificata non come semplice
misura previdenziale,ma come strumen- to di politica economica,governato,non
per nulla,da un comitato di ministri (C.I.P.I.),per far fronte
a situazioni,o "stati "di difficoltà con importanti rifles-
si economici ed occupazionali:stato di crisi locale o settoriale,situazioni
di ristruttrazione o riorganizzazioni aziendali comportanti
la esecuzione di piani complessi di riassetto,ed anche stati
di crisi economica aziendale non qualifi- cata dall 'adozione
dei precisi programmi di ristrutturazione,ma comunque di notevole
rilievo sociale. Non è un mistero che dell 'ampia discrezionalità
gestionale insita in un simi- le strumento fu fatto un uso
talvolta distorto,o,come si è spesso detto,solo assi- stenziale,soprattutto
con riguardo alla causale "crisi aziendale "che non respon-
sabilizzava l 'imprenditore alla formulazione ed esecuzione
di piani specifici,ma il giudizio negativo,assai diffuso in
epoca neoliberista,merita,a nostro avviso, una qualche correzione
o almeno alcune precisazioni. 30.Il fatto è che sull 'istituto
della CIGS si sono assommate,nel breve volgere di un triennio,due
importanti funzioni di tutela sociale:la sperata salvaguardia
del posto di lavoro nell 'azienda in crisi o in ristrutturazione,ma
anche,con l 'entrata in vigore della legge 675/1977,lo sperato
ricollocamento del lavoratore in altra impresa del settore,grazie
all 'attivazione del circuito di mobilità "amministrata ".
L 'intento,indubbiamente,"alto "e nobile,era quello di eliminare
il ricorso alla misura traumatica costituita dai licenziamenti
collettivi,e di sostituirla con dei trasferimenti di mano
d 'opera dalle imprese in crisi o in ristrutturazione alle
imprese in espansione,assicurando,nell 'intanto,ai lavoratori
la percezione di un reddito sostitutivo a quello di lavoro
e non troppo minore,ossia dell 'integra- zione salariale straordinaria.Non
per nulla l 'art.25 della legge n.675/1977 vie- tava al datore
di lavoro di effettuare licenziamenti per tutto il periodo
di durata del decreto CIPI di crisi occupazionale che attivava
il circuito di mobilità,crean- do un vincolo,per le aziende
non in crisi di quel settore,di non fare nuove assunzioni
se non tra i lavoratori sospesi con godimento di CIGS,e iscritti
nelle liste di mobilità,ancora formalmente dipendente dall
'impresa in crisi. Si deve,dunque,avere ben presente che un
lavoratore poteva,in quel siste- ma fruire di CIGS straordinaria
anche per molti anni,e con causale di "crisi aziendale ",non
solo in vista di una possibile ripresa produttiva della sua
impre- sa di appartenenza,sempre meno probabile con il passare
del tempo,quanto in vista del suo passaggio ad altra impresa
del settore,grazie al meccanismo di mobilità.Mobilità che
dovrà essere intesa (e questo era il presupposto ideale, se
si vuole ideologico,discendente dalla temperia politica "compromesso
stori- co ")sempre "da posto di lavoro a posto di lavoro ".
Corollario importante di questo sistema era,pertanto,anche
di non caricare di oneri finanziari l 'impresa "cedente "in
stato di crisi,la quale doveva,tuttavia, mantenere in forza,quei
lavoratori nella (lunga)attesa di un esito positivo:allo scopo
furono previsti non solo il pagamento diretto da parte dell
'INPS delle integrazioni salariali (legge 215/1978),ma anche
l 'addossamento delle quote di indennità di anzianità (poi
di T.F.R.)maturata dopo il collocamento in CGIS al "Fondo
per la mobilità ". Per altro verso,onde facilitare la possibilità
di cessione dell 'intera azienda di rami di essa a nuovi soggetti
imprenditoriali fu prevista,(art.1 D.L.30 marzo 1978,convertito
in legge 215/1978)la possibilità di "azzerare ",con accordo
sindacale,l 'anzianità dei lavoratori che,per effetto dell
'art.2112 c.c.sarebbero passati alle loro dipendenze. In questo
nuovo quadro legislativo la "variabile "costituita dal fallimento
dell 'impresa poteva,come detto,inserirsi senza difficoltà,e
le questioni costi- tuenti,per l 'innanzi,ostacoli concretamente
insuperabili al mantenimento in forza di dipendenti,potevano
trovare una risposta convicente. 31.Invero,le "ragioni "che
avrebbero dovuto indurre il curatore a procedere ad immediati
licenziamenti per giustificato motivo oggettivo svanivano:egli
"ere- ditava ",bensì,una azienda già in stato di crisi,e,magari
inattiva,con i lavora- tori già collocati in CIGS,ma,a ben
vedere,dal loro mantenimento in forza,non sarebbe derivato
alla procedura alcun danno,perché le integrazioni salariali
sarebbero state direttamente dall 'INPS e le quote di indennità
di anzianità diret- tamente dal "Fondo per la mobilità ".Anzi,sarebbe
divenuto,allora,iniquo pri- vare questi lavoratori della prospettiva
di essere ricollocati mediante il mecca- nismo di mobilità,il
quale postulava la permanenza in vita,almeno formalmen- te
dei rapporti,soltanto perché l 'imprenditore loro datore di
lavoro era stato dichiarato fallito.Senza tacere,poi,che una
volta eliminati i problemi econo- mico-finanziari collegati
all 'attesa,la dichiarazione di fallimento poteva creare addirittura
il presupposto di una più agevole cedibilità del complesso
aziendale o di suoi rami,che l 'eventuale cessionario avrebbe
ricevuto "purificato ",pro- prio grazie al fallimento,da debiti
e passività. Conseguenza logica di queste valutazioni è stata
la legge n.301/1979,la quale,aggiungendo un settimo comma
all 'art.25 legge 675/1977 ha realizzato l '"innesto "della
vicenda concorsuale nella normativa di regolazione e tutela
del mercato del lavoro,ovvero segnato una nuova e più ampia
intersezione tra dirit- to del lavoro e diritto fallimentare.
La nuova previsione legislativa sanciva,inelegantemente,la
"inefficacia "di eventuali licenziamenti (già)intervenuti
a seguito di fallimento,e la continua- zione dei rapporti
di lavoro "ai soli fini dell 'intervento di CIG per crisi
azien- dale dichiarata ":l 'espressione,alquanto contorta,tradiva
lo scopo immediato dell 'intervento normativo,che era quello
di "sanare "una situazione già verifi- catasi (il "caso Venchi-Unca
")ma il portato precettivo e l 'apporto sistematico erano,al
contrario di quanto si è spesso letto,del tutto chiari. Con
quell 'intervento normativo il legislatore garantiva che permanesse,
nonostante il fallimento,il presupposto tecnico per la fruizione
del sistema di mobilità da parte dei lavoratori,e cioè la
permanenza,in capo a loro,della tito- larità di un rapporto
di lavoro,e nel far questo implicitamente confermava che quel
rapporto era comunque continuato nonostante la dichiarazione
di falli- mento.Al curatore del fallimento veniva inibito
di dar corso concreto a provve- dimenti di licenziamento,anzi,a
nostro avviso addirittura adottarli,perché la previsione testuale
di "inefficacia "e di continuazione dei rapporti "ai soli
effet- ti dell 'intervento del CIGS "va intesa con riguardo
a licenziamenti già interve- nuti prima della stessa legge
27 luglio 1979 n.301,ed esattamente nello spazio temporale
compreso tra la sua entrata in vigore e l '1 giugno 1979.
Tutto ciò,d 'altra parte,confermava solo una "neutralità "dell
'evento "dichia- razione di fallimento "rispetto al funzionamento
ed alle regole del sistema di pro- 32.tezione inaugurato dalla
legge 675/1977,giacché,come detto,anche al datore di lavoro
ancora "in bonis ",ma già ammesso alla CIGS e destinatario
del decreto ministeriale di mobilità,l 'art.25 della legge
proibiva di licenziare. Vi era,però,la possibilità di leggere
in quella previsione qualcosa di più:un "di più "che costituisce
la genesi dell 'attuale,e tanto discussa previsione del- l
'art.3 legge 223/1991,ed aiuta ad interpretarlo correttamente.
Invero,ai sensi dell 'art.2 n.301/1979,il rapporto continuava
"ai (soli)fini dell 'intervento della CIG per crisi aziendale
":che dire,allora,dell 'ipotesi che essa fosse stata invece
chiesta ed ottenuta dall 'imprenditore,ancora "in bonis ",
per ristrutturazione aziendale,secondo un piano o programma
di cui la dichia- razione di fallimento aveva bruscamente
interrotto la realizzazione?L 'unica risposta possibile era
che,a quel punto la causale della CIGS si trasformava da "ristrutturazione
"nell 'altra,ormai sola configurabile,di "crisi aziendale
",ma ciò comportava,allora,a ben guardare,una autonoma rilevanza
e considera- zione legislativa dell '"evento fallimento ",che
poteva essere,come è stato,forie- ra di importanti sviluppi.
Nell 'applicazione concreta,invero,la previsione dell 'art.2
legge 301/1979 non ha dato luogo a soverchi problemi:scaduto
l 'ultimo periodo semestrale (per così dire "prefallimentare
")di CIGS per ristrutturazione,i curatori inoltrarono richiesta
di ulteriori semestri per "crisi aziendale ",magari dopo essersi
premu- rati,per scrupolo burocratico,di inviare ai lavoratori
lettere di licenziamento, con contestuale dichiarazione di
sospensione della sua efficacia.La "causale " della CIGS,però,era
cambiata,così da comportare,ad esempio,l 'esenzione da controlli
sulla realizzazione del vecchio programma di ristrutturazione,e
dive- niva,dunque,possibile affacciare l 'idea che il fallimento
costituisse una auto- nomia causale di intervento della CIGS.
Idea -va aggiunto -che avrebbe permesso di porre rimedio a
quella lacuna o aporia del sistema di mobilità,che ben poteva
essere indicato come il suo "piede di argilla ":al fatto cioè,che
esso si basava sulla concessione della CIGS straor- dinaria
e la presupponeva,collegandovi il decreto ministeriale di
crisi occupa- zionale,il divieto di licenziamento collettivo,il
vincolo assuntivo imposto alle altre imprese del settore ecc.,ma
non prevedeva "a monte "un obbligo dell 'im- prenditore che
pur ne avesse avuto i requisiti,di chiedere la CIGS per i
dipen- denti divenuti eccedentari,invece che procedere al
loro immediato licenzia- mento collettivo. Il paradosso fu
più volte denunziato dalla dottrina,e non mancarono anche
giudici di merito,i quali rilevarono l 'assurdità di lasciare
al capriccio del dato- re di lavoro la fruizione da parte
dei dipendenti di preziosissime tutele e previ- denze di cui,tra
l 'altro,le finanze pubbliche e non quelle private del datore
di lavoro sopportavano l 'onere. 33.Tuttavia,il principio
che si cercava così di affermare,e cioè quello della necessità
del preventivo ricorso alla CIGS,se possibile,rispetto ai
licenziamen- ti collettivi non riuscì a far breccia come regola
generale e cogente,e lo si ritro- va oggi,ma solo come criterio
di massima di un confronto intersindacale,nel- l 'art.4 legge
n.223/1991,a mente del quale quel confronto deve avere ad
oggetto le possibili misure alternative al licenziamento,e
le ragioni della loro mancata adozione. Certamente,il caso
di imprenditori che rifiutassero di ricorrere in via pre-
ventiva alla CIGS,resistendo alle intuibili pressioni politiche
e sindacali era raro,e si presentava,però,per lo più,proprio
nelle situazioni che qui interessa- no:quelle cioè di un repentino
tracollo dell 'impresa,segnato dall 'apertura di una procedura
concorsuale a carico di un imprenditore,il quale fino all
'ultimo avesse cercato di nascondere o evitare l 'insolvenza,che,viceversa,la
pubblica- zione in Gazzetta Ufficiale della sua richiesta
di CIGS avrebbe segnalato a cre- ditori,fornitori,istituti
di credito ecc.. La configurazione del fallimento come un
'autonoma causale di ricorso alla CIGS avrebbe,quindi consentito
di risolvere il problema,rendendo possibile,ed eventualmente
obbligatorio,per il curatore di richiedere lui stesso,per
la prima volta,la concessione della CIGS,così da consentire
poi ai dipendenti di atten- dere senza troppi patemi o il
ricollocamento presso altra impresa grazie alle pro- cedure
di mobilità,o il subentro nella gestione dell 'azienda fallita
di un nuovo soggetto imprenditoriale,magari costituito da
loro stessi,riuniti in cooperativa ("legge Marcora "). Questa
linea di politica del diritto fu,anzi,esplicitata in un decreto
legislati- vo che non si riuscì a convertire in legge,ma che
costituisce l 'antecedente logi- co e giuridico dell 'art.3
legge 223/1991:alludiamo al D.L.11 dicembre 1979 n. 264,il
quale,appunto,faceva apertamente obbligo al curatore fallimentare
di avviare le procedure di mobilità e di richiedere un trattamento
di CIGS,aggiun- tivo rispetto a quelli di cui l 'impresa avesse
precedentemente goduto,e da con- cedersi,per un massimo di
12 mesi,a periodo trimestrali,e con procedura sem- plificata
dal Ministero del lavoro,senza necessità di intervento del
C.I.P.I.. L 'ispirazione di fondo,come si vede,era ormai del
tutto diversa,ed in un certo senso,opposta all 'opinione tradizionale,e
riassumibile nel concetto che nel corso di una crisi aziendale,la
dichiarazione di fallimento,o l 'inizio di altra procedura
concorsuale,rappresentasse non una circostanza negativa,ma,al
con- trario,una opportunità positiva per la salvaguardia dell
'occupazione,perché a certe condizioni,avrebbe facilitato
il subentro nella gestione aziendale di un nuovo imprenditore.
Condizioni che possono essere riassunte in tre diverse esigenze:non
nerare la procedura di oneri finanziari;incoraggiare i lavoratori
a restare uniti e a non 34.disperdersi,così da salvaguardare
il capitale umano dell 'impresa;incentivare, favorire e privilegiare
le intenzioni e i tentativi di subentro di nuovi soggetti
eco- nomici.In questa prospettiva doveva considerarsi superata
anche la tradiziona- le distinzione tra procedure concorsuali
conservative e liquidatorie,ma per un tentativo compiuto di
realizzare quelle condizioni si sarebbe dovuta attendere la
nuova disciplina organica,delle crisi aziendali e occupazionali,sostitutiva
di quella della legge 675/1977.
5)La
nuova legislazione su mobilità e crisi aziendali.Il fallimento
come "opportunità "di ripresa produttiva ed occupazionale.
Con
la legge n.223/1991 il legislatore italiano riformava profondamente
il sistema di mobilità interaziendale dei lavoratori che crisi
o ristrutturazioni azien- dali avesse reso eccedentari.Abbandonava
l 'idea,rivelatosi irrealizzabile,della mobilità solo "da
posto di lavoro a posto di lavoro "accettando che il ricolloca-
mento scontasse la perdita,anche formale,del vecchio posto
di lavoro,ma pun- tava con molta decisione,da un lato sulla
partecipazione sindacale ai processi di mobilità,e,dall 'altro
su forti incentivi economico-normativi per i datori di lavo-
ro che assumessero i lavoratori posti in lista di mobilità.La
precedente fruizione di CIGS non costituiva più un requisito
indispensabile per l 'ammissione alle nuove liste di mobilità
e per le fruizioni delle indennità di mobilità,pur restando
ipotesi per più versi privilegiata,rispetto a quella,parallela,di
licenziamenti col- lettivi "immediati ",senza previo ricorso
alle integrazioni salariali. Ma in questo modificato quadro
legislativo,l 'ipotesi del fallimento o di altre procedure
concorsuali,acquistava definitivamente autonomia,e diveniva
un "caso a parte " oggetto di attenzione privilegiata,,e della
speciale disciplina dell 'art.3. Non esitiamo ad ammettere
che questa disciplina ha incontrato nella dottrina e nella
giurisprudenza fallimentari ostilità e malcelati rifiuti,e
ripetuti tentativi di vera e propria disapplicazione,ma i
suoi critici dovranno,del pari riconosce- re che essa è stata
opera -non importa se opportuna o inopportuna -dei lavori-
sti,e frutto di quell 'evoluzione normativa e concettuale
degli anni '70 che abbiamo appena tratteggiato.Il suo contenuto
giuridico precettivo non può dun- que essere travisato,per
quanto possa risultare ostico certe visuali,per le quali,
ad esempio,resta incomprensibile che il curatore possa e debba
richiedere C.I.G.e non licenziare i lavoratori proprio quando
l 'attività aziendale,con il fal- limento,è cessata,e non
si sa se e quando ci saranno prospettive di riattivazio- ne
tramite affidamento temporaneo o cessione definitiva a nuovi
imprenditori. E debba richiedere,per di più,una C.I.G.del
tutto particolare,a concessione automatica,e meramente "assistenziale
" perché diretta non già ad accompagna-- 35.re tentativi di
ripresa produttiva in corso,ma l 'attesa,da parte dei lavoratori,di
una nuova "chance ",che potrebbe non presentarsi affatto.
Ma l 'art.3 della legge n.223/1991 è,invece norma in sé perfettamente
coe- rente,purché ci si ponga dal punto di vista che l 'ha
ispirata,e che ritiene non soltanto che l 'azienda,e con essa
l 'occupazione,possa essere salvaguardata nella procedura
concorsuale grazie al subentro dei nuovi soggetti imprendito-
riali,ma anche che la probabilità o possibilità di tale subentro
non possa essere valutata immediatamente,già all 'indomani
della dichiarazione di fallimento,e che per essa non sia affatto
decisivo che l 'attività non abbia subìto interruzione alcuna
grazie alla disposizione di un esercizio provvisorio.È infatti,esperienza
comune che la "soluzione economico-imprenditoriale può benissimo
non esse- re alla vista fin dall 'inizio,e crearsi o manifestarsi
dopo un certo tempo,fin quando l 'avviamento non sia del tutto
perduto,e l 'organizzazione aziendale, specie sotto il profilo
del capitale umano,sia ancora esistente. Di qui l 'automaticità
e l 'autonomia del primo ricorso alla C.I.G.,che è sicu- ramente
diversa ed aggiuntiva,come causale,rispetto a quella per ristruttura-
zione e per crisi,tanto da non essere soggetto al giudizio
del C.I.P.I.(ancora esi- stente al tempo di entrata in vigore
nella legge),ma disposta direttamente dal Ministro del lavoro.
Lo scopo di gran lunga preminente,e non compreso dai critici
della norma, è quello di salvaguardare la compattezza e la
permanenza delle maestranze,alle quali occorre mandare un
messaggio assolutamente tranquillizzante:non disperdersi,ed
attendere le possibili soluzioni positive,essendo assolutamente
certa la continuità del reddito tramite integrazioni salariali.
Solo successivamente,in sede di rinnovo del trattamento,può
e deve porsi il problema della esistenza di concrete possibilità
di rilancio,perché se in un anno le prospettive positive non
si sono palesate,è probabilissimo che non si palesi- no più
e non c 'è,dunque,motivo di non procedere alla "messa in mobilità
"dei lavoratori secondo la normale procedura disciplinata
dall 'art.4 della stessa legge n.223/1991,il quale,appunto,regola
la risoluzione dei rapporti dei lavo- ratori che,alla fine
di un periodo di C.I.G.non possano essere riutilizzati in
modo produttivo.Naturalmente,ove l 'attività sia,invece,continuata
tramite esercizio provvisorio (e non sia stata per questo
richiesta la C.I.G."automatica " del primo periodo)ma poi
non siano apparse possibilità di rilancio o di suben- tro,la
risoluzione dei rapporti determinata dalla chiusura dell 'esercizio
seguirà l 'altra via prevista dalla legge n.223/1991,quella
dei licenziamenti collettivi in senso stretto,disciplinata
dall 'art.24. Non può,pertanto,essere condiviso quell 'orientamento
dottrinale e giuri- sprudenziale che,in evidente contrasto
con il testo di legge,pretende di "antici- pare "alla fase
iniziale quella valutazione delle possibilità di ripresa che
la 36.norma colloca,invece,chiaramente nella seconda fase,così
da rendere incerta e discrezionale anche la richiesta della
"prima "integrazione salariale.Questa opi- nione non riesce,evidentemente,a
metabolizzare l 'idea che il legislatore possa aver voluto
fare "investimento a fondo perduto "sui lavoratori dell 'impresa
fal- lita e sulla loro possibilità di rimanere occupati in
quell 'azienda,invece di fini- re nelle liste di mobilità,per
essere poi forse ricollocati tramite incentivi. Invece,proprio
di questo si tratta,e cioè di un investimento "a fondo perdu-
to ",che non è,tuttavia,né irrazionale né immotivato per due
ordini di ragioni: perché,parallelamente il legislatore ha
creato le condizioni del possibile suben- tro di nuovi imprenditori
attraverso una disciplina "premiale "dell 'affitto falli-
mentare dell 'azienda,e perché,in ogni caso,ove l 'investimento
si riveli profi- cuo,si risparmia all 'Erario il pagamento
(più oneroso)delle indennità di mobi- lità di lunga durata,cui
hanno ora diritto i lavoratori licenziati per esubero. È scorretto,ci
pare,cercare di criticare questa "ratio " legislativa a partire
dai casi-limite:certamente ci saranno dei casi in cui la situazione
appare da subito disperata e l 'attesa inutile,ma su di essi
fa premio lo scopo di garantire nella generalità delle ipotesi
sicurezza,tranquillità e coesione delle maestranze,scopo che
solo l 'automaticità della prestazione realizza. D 'altro
canto,l 'opinione che abbiano dichiarato di non condividere,non
ha saputo portare,a suo sostegno,nell 'altro che una petizione
principio ed un argo- mento interpretativo equivoco,ed anzi
erroneo.La petizione di principio è che la valutazione delle
possibilità di ripresa dovrebbe farsi sempre,fin dall 'inizio,
perché tra i principi ispiratori della legge 223/1991 ci sarebbe
anche quello di eliminare l 'uso "assistenziale "della C.I.G.:del
che può francamente dubitarsi, visto che la legge n.223/1991
ha mantenuto la causale di "crisi aziendale "che non responsabilizza
l 'imprenditore a nessuna ripresa produttiva certa tramite
programmi di ristrutturazione.Va aggiunto però,che nel caso
che ci interessa l 'uso dell 'C.I.G.non è affatto assistenziale,bensì
proprio strumentale ad una ripresa produttiva tramite affittanza
e/o cessione.Soluzione,questa,che la dispersione delle maestranze
renderebbe impraticabile. L 'argomento interpretativo erroneo
consiste nel valorizzare l 'inciso del terzo comma dell 'art.3
legge n.223/1991 secondo cui,il curatore una volta valutata
e ritenuta,d 'accordo con il giudice delegato,l 'insussistenza
di prospettive,col- loca i lavoratori in mobilità ai sensi
dell 'art.4,"ovvero dell 'art.24 ":se può usare anche dall
'art.24 -si è detto -e cioè della norma che disciplina i licen-
ziamenti collettivi non preceduti da ricorso alla C.I.G.,ciò
significa che il cura- tore non è obbligato sempre,subito
dopo il fallimento,a richiedere la C.I.G.. L 'argomento è
fallace perché il riferimento all 'art.24 si spiega,come detto,
in tutt 'altro modo,che giustifica tra l 'altro,perché sia
collocato nel comma terzo dell 'art.3,ossia in quello che
disciplina la seconda fase.Nella prima fase,infat- 37.ti,subito
successiva al fallimento possono darsi due evenienze:che non
sia stata disposta la continuazione dell 'attività,ed allora
si ricorre alla C.I.G."automati- ca ",oppure che sia stata
disposta,ed allora non vi è ricorso alla C.I.G..In tal caso,esaurito
l 'esercizio provvisorio,in mancanza di altre prospettive,il
collo- camento in mobilità,ossia il licenziamento collettivo,non
può che avvenire ai sensi dell 'art.24,non essendoci stato
previo ricorso alla C.I.G.,per il solo buon motivo,però,che
l 'attività aziendale era continuata.Una valutazione "iniziale
" delle possibilità di ripresa non c 'entra per nulla e non
esiste. Non può sfuggire,d 'altra parte,che quando la valutazione
è davvero prevista, e cioè,nella seconda fase di proroga ,il
parere favorevole del curatore e del giu- dice delegato non
è sufficiente perché occorre (o occorreva)anche quello del
C.I.P.I.:come si spiegherebbe,allora,l 'assenza del C.I.P.I.e
del suo giudizio dire- zionale nella prima fase,di concessione
iniziale del trattamento di integrazione? L 'unica risposta
possibile è,appunto,che il primo periodo di erogazione risponde
ad un criterio di automaticità,ed il secondo,invece,ad uno
di pruden- te discrezionalità. La sorte dei contratti di lavoro
nel fallimento è,dunque,quella di continuare con la curatela
e di permanere almeno per tutto il periodo di prima concessione
dalla C.I.G."automatica di cui all 'art.3 primo comma legge
223/1991,oppure di perdurare per la durata dell 'esercizio
provvisorio autorizzato,e ciò come pos- sibile preludio ad
ulteriore continuazione con passaggio alle dipendenze di un
affittuario o di un cessionario finale dell 'azienda. Questo
felice esito,però,è tutt 'altro che scontato,e può mancare,o
perché nessun nuovo imprenditore si offre di subentrare,o
perché,il nuovo imprendi- tore pur rilevando,in affitto o
definitivamente,l 'azienda si dichiara disponibile ad assumere
una parte soltanto dei lavoratori.Al quale ultimo proposito
va ricordato che la soluzione prevista dall 'art.47 legge
28 dicembre 1990 n.428,e che consente di derogare con accordo
sindacale,in presenza di una procedura concorsuale attivata,alla
regola generale dell 'art.2112 c.c.(in tema automatico trasferimento
al cessionario dell 'azienda di tutti i rapporti di lavoro),difetta,
probabilmente,di possibilità di controllo democratico da parte
degli interessati, ma non certamente di realismo.La progressività
dello sperato rilancio azienda- le,con riassorbimento graduale
del personale costituisce,invero,un 'esigenza alla quale difficilmente
si può sfuggire,ancorché comporti,scelte dolorose,alle quali
il legislatore ha cercato di porre parziale rimedio con la
previsione di un diritto di preferenza,per un anno,nelle future
assunzioni in favore dei lavorato- ri rimasti,per l 'intento,esclusi.In
ogni caso,però,anche quando la prospettiva di subentro non
si realizzi,o finisca con il riguardare una parte soltanto
di dipen- denti dell 'azienda fallita,resta il fatto che la
sorte dei lavoratori coinvolti nella crisi aziendale non è
diversa e non è peggiore,ma semmai migliore,di quella 38.che
avrebbero avuto se l 'impresa non fosse stata sottoposta ad
una procedura concorsuale,ma solo liquidata volontariamente.Dopo
aver goduto della C.I.G. "automatica "dell 'art.3 primo comma
legge n.223/1991,magari in aggiunta a precedenti periodi di
integrazione salariale,avranno ancora diritto,infatti,all
'in- tero trattamento di mobilità previsto dalla stessa legge,ed
in proposito occorro- no,forse,alcune precisazioni in ordine
a quell 'orientamento giurisprudenziale secondo cui il curatore,procedendo
al definitivo licenziamento "totale "non sarebbe tenuto a
seguire il procedimento di consultazione sindacale disciplinato
dall 'art.4 della legge e richiamato dall 'art.24.Se con ciò
si vuol dire che un procedimento il cui scopo normale è di
far tornare,se possibile,sulla sua deci- sione di cessazione
di attività un imprenditore "in bonis ",diviene inutile quan-
do di esso diviene protagonista un pubblico ufficiale investito
dell 'ufficio falli- mentare,si può,con molti "distinguo "anche
concordare,ma se si vuole affer- mare che in tal caso si sarebbe
fuori dalla disciplina sostanziale dei licenzia- menti collettivi
e della messa in mobilità,intesa come fonte delle tutele e
previ- denza di cui agli artt.7 e seguenti della legge n.223/1991,allora
il dissenso non può che essere totale.Una simile eccezione
sarebbe immotivata,oltre che del tutto iniqua:il dovere del
curatore di procedere ai sensi dell 'art.4 e 24 è previ- sto
direttamente dalla legge (art.3 comma terzo),né si ritiene
che esso non valga quando il curatore licenzi "subito dopo
"la dichiarazione di fallimento, giacché,come visto,questa
possibilità deve,in realtà,essere esclusa per l 'auto- maticità
e necessità di intervento della C.I.G.in quella prima fase.
Va ora notato,però,avvicinandosi all 'ultima parte del nostro
discorso che l 'approdo descritto dall 'art.3 legge n.223/1991,ed
esteso dalla stessa norma anche alle procedure concorsuali
minori,è stato in qualche modo rivisitato e messo in discussione
della recente normativa che ha disciplinato,o ridisciplina-
to l 'amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi
(D.lgs 8 luglio 1999,n.270).Il tema è di per sé rilevante,ma
la diffusa opinione che intravede in questa disciplina un
modello generalizzabile di procedura concor- suale,accentua
l 'interesse e l 'attenzione.
6)Procedure
(apparentemente)liquidatorie e procedure conservative: alcuni
spunti di riflessione sull 'amministrazione straordinaria.
Emerge
da quanto si è fino ad ora esposto che la procedura fallimentare,
apparentemente solo liquidatoria,ha invece sviluppato,virtualmente,una
seconda ed opposta natura,conservativa,se non dell 'impresa,quanto
meno del- l 'attività produttiva e dell 'occupazione ad essa
connessa. I disposti dell 'art.3 legge n.223/1991 suggeriscono
e prefigurano,infatti,un "iter "nel quale,con apparente paradosso,la
finalità liquidatoria si realizza pro- 39.prio attraverso
la cessione in blocco,ad un nuovo soggetto subentrante,dell
'a- zienda o di sue parti,mentre,per altro verso,viene incentivata
e finanziata l 'at- tesa da parte dei lavoratori di questo
positivo sbocco:si tratta,certo,solo di una possibilità,ma
fortemente perseguita e strumentata dal legislatore.Per conver-
so,con il D.Lgs 8 luglio 1999 n.270,che ha ridisciplinato
"ab imis "la proce- dura di "amministrazione straordinaria
delle grandi imprese insolventi ",la fina- lità conservativa
del patrimonio produttivo (e dell 'occupazione)viene portata
in primo piano,tanto da essere assunta,nell 'art.1 del testo
normativo,proprio come tratto e scopo caratterizzante dell
'istituto,ma è lecito esprimere qualche dubbio circa la maggior
efficacia di questa soluzione,per così dire "istituziona-
le "del problema di salvaguardia dei posti di lavoro,rispetto
a quella inserita nel "doppio fondo "della "liquidatoria "procedura
fallimentare. Va segnalato,in proposito,che il D.lgs 8 luglio
1999 n.270,fornisce,anzitutto, una ulteriore risposta,ancorché
nella forma alquanto reticente,al vecchio quesito della applicazione,o
meno,del meccanismo di "resiliazione "dell 'art.72 legge fal-
limentare,perché l 'art.50 del decreto legislativo prevede
espressamente,al primo comma,che il commissario straordinario
possa sciogliersi dai contratti,anche ad esecuzione continuata
e periodica,ancora ineseguiti o non interamente eseguiti,ma,
appunto esclude da tale regola,al quarto comma,"i contratti
di lavoro subordinato, in rapporto ai quali restano ferme
le disposizioni vigenti ".Il testo legislativo non dice quali
siano queste "disposizioni ",ma è chiaro che ci si riferisce
all 'opinione maggioritaria e dominante,della continuità automatica
del rapporto di lavoro e della sottoposizione alle compesse
regole del recesso individuale e collettivo. D 'altro canto
la continuazione dei rapporti,nonostante la sentenza di "dichiarazioni
di stato di insolvenza "e la successiva apertura dell 'amministra-
zione straordinaria,è confermata dalle previsioni dell 'art.63
secondo e quarto, comma,le quali prevedono,rispettivamente,l
'obbligo per l 'eventuale acquiren- te dell 'azienda di mantenere
per almeno un biennio,i livelli occupazionali sta- biliti
all 'atto della vendita,e la possibilità di stabilire con
accordo sindacale,ai sensi dell 'art.47 legge n.428/1990,in
tale momento,che solo una parte dei dipendenti dell 'impresa
insolvente passino all 'acquirente. Questo,ovviamente,nel
quadro di uno dei due possibili programmi dell 'am- ministrazione
straordinaria,contemplati nell 'art.27:nel programma,cioè,"di
cessione di complessi aziendali ",perché nell 'altro tipo
di programma,quello "per ristrutturazione "la continuità occupazionale
è,in linea di principio,addi- rittura scontata. Perché,allora,abbiamo
manifestato il dubbio che,nell 'ambito delle proce- dure di
amministrazione straordinaria,la tutela dell 'occupazione
possa essere non più forte,ma anzi più debole di quella prevista,per
il caso di fallimento, dall 'art.3 legge n.223/1991? 40.Perché,fondamentalmente,nessun
limite è posto,almeno espressamente,dal testo legislativo,ai
poteri gestionali della amministrazione straordinaria con
riguardo alla possibilità di procedere ad una riduzione del
personale nel corso dell 'esecuzione sia dell 'uno che dell
'altro tipo di programma,né l 'art.56,che disciplina il "contenuto
del programma "contempla la necessità di preventive determinazioni
su tale argomento. In linea teorica,la prima valutazione operativa
del commissario potrebbe riguardare proprio la esistenza di
una eccedenza di personale già evidente,e la necessità di
eliminarla in via prodromica a qualsiasi altro sviluppo seguendo
scrupolosamente -si intende -le procedure dell 'art.24 legge
223/1991.Ed allo- ra,si manifesterebbe nuovamente quella ricordata
lacuna o aporia del nostro sistema di sicurezza sociale per
cui l 'imprenditore in difficoltà (ovvero il suo "sostituto
"amministratore straordinario)ha la facoltà,ma non l 'obbligo,di
richiedere l 'intervento della CIGS per le causali di ristrutturazione
o crisi azien- dale:solo la "per procedura concorsuale "di
cui all 'art.3 legge n.223/1991, infatti è -almeno secondo
l 'interpretazione che ne abbiamo dato -ad interven- to automatico
ed obbligatorio.Vero è che tra le ipotesi di applicazione
dell 'art. 3 legge n.223/1991 è contemplata anche l '"amministrazione
straordinaria ",ma si trattava naturalmente,del vecchio istituto,quello
regolato dalla legge 2 apri- le 1979 n.95,meno caratterizzato
in senso "conservazionista "rispetto a quello attuale.Sappiamo
di coltivare,in qualche modo un paradosso,ma esso è nel diritto
obiettivo:per estremizzare il concetto confrontiamo la situazione
di un dipendente di una impresa in difficoltà che sia stato
ammesso alla procedura di amministrazione controllata ordinaria
(che è la procedura conservativa per eccellenza),con quella
del dipendente di una impresa fallita. Certamente l 'ammissione
all 'amministrazione controllata non sfiora nean- che,dal
punto di vista giuridico,il dipendente,il cui rapporto di
lavoro non subi- sce interferenza alcuna,ma ciò non toglie
che se l 'impresa resta senza commes- se,e,concretamente,la
sua attività si arresta,quel dipendente possa essere licen-
ziato per riduzione di personale,se il datore di lavoro non
decide "benevolmen- te "di richiedere l 'intervento della
CIGS.Né gli gioverà certo il fatto che dopo qualche mese,magari,l
'azienda sia affittata e poi rilevata da altro soggetto imprenditoriale.È
un rischio che il dipendente dell 'impresa fallita,invece,non
corre,perché l 'arresto della produzione avrà,per lui,l 'effetto
di collocazione automatica in CIGS ex art.3 legge n.223/1991,con
passaggio poi alle dipen- denze dell 'eventuale affittuario.In
sintesi estrema:le procedure "istituzional- mente conservative
"garantiscono,nell 'immediato,la continuità effettiva del-
l 'occupazione,ma aprono rischi subito successivi,mentre quelle
istituzional- mente "liquidatorie "(fallimento,concordato
per cessione dei beni)aprono,in teoria,un gravissimo rischio
immediato ma poi l 'art.3 legge 223/1991 lancia, 41.per così
dire,sul precipizio una passerella di notevole lunghezza,con
possibi- lità di diretto e felice approdo finale. Un coordinamento
si rende necessario,e certamente,il primo raccordo può essere
quello di rendere il commissario giudiziale,cioè il primo
soggetto inve- stito di poteri,ai sensi dell 'art.19 D.lgs
n.270/1999,destinatario degli obblighi dell 'art.3 legge 223/1991
quando l 'attività aziendale si sia,nel frattempo arre- stata.Forse,però,è
giunto il momento di rifondere le discipline,quella del dirit-
to concorsuale e quella del diritto del lavoro e della sicurezza
sociale,provando per la prima volta,a "pensarle insieme "con
approccio davvero multidisciplina- re,in sede di redazione
di un nuovo "corpus "normativo,sostitutivo della legge fallimentare
e,di cui il D.Lgs.n.270/1999 costituisce probabilmente una
sorta di prototipo.Credo si possa dire,concludendo che nel
ventennio 1970-1990 i fallimentaristi hanno un poco su bìto,le
incursioni dei lavoristi,i quali,peraltro, sembrano adesso
aver perso l 'iniziativa:una maggiore sinergia nell 'opera
di riforma sarebbe davvero auspicabile,anche perché il nostro
ordinamento di sicurezza sociale ha bisogno di riforme certo
non meno di quello delle procedu- re concorsuali. Una esigenza
va segnalata,sopra tutte:occorre passare da una concezione
settoriale,industrialista,per la quale i problemi del lavoro,anche
con riguardo agli effetti delle procedure concorsuali,si sono
identificati con i problemi del lavoro industriale,ad una
visuale universalista,di protezione sociale diffusa,pur nelle
necessarie articolazioni per ambiti e settori produttivi.
Ma un 'analoga articolazione di disciplina,all 'interno di
un quadro unitario, costituisce certamente anche la linea-guida
del futuro diritto concorsuale.
Tratto
dalla Collana di studi giuridici dell'Ordine
degli Avvocati di Bari
Atti del Seminario di Studi su
LA TUTELA DEL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO NELLE PROCEDURE
CONCORSUALI
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