Servizio di documentazione tributaria
Agenzia delle Entrate
DIREZIONE CENTRALE NORMATIVA E CONTENZIOSO
Circolare del 22/03/2002 n. 26
Oggetto:
Applicazione della normativa tributaria relativa alle procedure concorsuali
disciplinate dal Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, cosiddetta legge
fallimentare.

Testo:

Premessa
1. Determinazione del risultato della procedura.
1.1 Determinazione del patrimonio netto all'inizio della procedura
1.2 Determinazione del residuo attivo della procedura
2. Riporto delle perdite
3. Riduzione dei debiti a seguito di concordato
4. Dichiarazione iniziale e finale presentata dal curatore del fallimento di
un imprenditore individuale.
5. Obblighi di dichiarazione ai fini dell'IVA.
6. Ritenute effettuate sugli interessi attivi dei depositi intestati alle
procedure
7. Inapplicabilita' di sanzioni ed interessi ai sensi dell'art. 6-bis del
decreto legge n. 328/97
Premessa
La circolare fornisce chiarimenti su alcune problematiche relative
all'applicazione della normativa tributaria alle procedure concorsuali,
emerse in sede di trattazione di quesiti ed istanze di interpello.
Con particolare riguardo al fallimento ed alla liquidazione coatta
amministrativa, vengono esaminate in particolare le problematiche connesse
alla determinazione del reddito e all'adempimento degli obblighi di
dichiarazione.
Nel prosieguo i riferimenti al fallimento ed al curatore si devono
intendere fatti, in quanto compatibili, anche alla liquidazione coatta
amministrativa ed al commissario liquidatore.
1. Determinazione del risultato della procedura.
L'art. 125, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.
917, prevede che "il reddito compreso tra l'inizio e la chiusura della
procedura concorsuale (...) e' costituito dalla differenza tra il residuo
attivo e il patrimonio netto dell'impresa o della societa' all'inizio del
procedimento, determinato ai valori fiscalmente riconosciuti."
Per individuare il reddito della procedura il curatore deve, in primo
luogo, determinare il patrimonio netto dell'impresa all'inizio della
procedura e confrontarlo, poi, con il residuo attivo alla fine della stessa.
Il reddito, o la perdita, della procedura e' dato dalla differenza
tra il residuo attivo e il valore del patrimonio netto dell'impresa
all'inizio della procedura, tenendo conto delle disposizioni del comma 3
dell'art. 125 del TUIR. Tale disposizione prevede che la differenza di cui
sopra, nel caso di fallimento dell'imprenditore individuale e di societa' in
nome collettivo o in accomandita semplice, e' diminuita dei corrispettivi
delle cessioni dei beni personali dell'imprenditore o del socio ed e'
aumentato dell'importo dei debiti personali pagati dal curatore.
1.1 Determinazione del patrimonio netto all'inizio della procedura
Il patrimonio netto dell'impresa all'inizio della procedura deve
essere determinato tenendo conto che:
- rileva il costo fiscalmente riconosciuto degli elementi
patrimoniali attivi e passivi e non il loro valore di stima;
- rilevano le attivita' e le passivita' aziendali accertate dal
curatore, anche se non registrate nelle scritture contabili;
- sono esclusi gli elementi, attivi o passivi, appartenenti al
patrimonio personale dell'imprenditore individuale.
Rilevano innanzitutto le risultanze delle scritture contabili del
soggetto fallito, in base alle quali il curatore puo' determinare il valore
del patrimonio netto dell'impresa fallita valutando gli elementi
patrimoniali attivi e passivi al loro costo fiscalmente riconosciuto.
Spesso nelle procedure concorsuali si puo' verificare che non sono
disponibili le scritture contabili del fallito, perche' smarrite, distrutte
o occultate.
In tal caso, il curatore deve ricostruire il patrimonio netto
dell'impresa all'inizio della procedura sulla base dei dati disponibili e di
quelli emersi nel corso della procedura, in sede di redazione
dell'inventario dei beni acquisiti all'attivo fallimentare e di
predisposizione dello stato passivo. Dovra' usare, a tal fine, tutta la
diligenza necessaria per ricostruire il patrimonio aziendale sulla base
degli elementi disponibili, richiedendo la collaborazione del fallito ed
anche degli uffici dell'Agenzia delle Entrate che potranno fornire dati e
notizie desumibili dalle dichiarazioni dei redditi, utili ai fini della
determinazione del valore fiscale degli elementi patrimoniali.
Nel fallimento, infatti, assumono rilievo le attivita' o le
passivita' comunque accertate dal curatore, anche se non registrate dal
fallito nelle scritture contabili. In proposito, nella relazione governativa
al TUIR, con riferimento alla disciplina dell'art. 125, si legge che "in
sede di predisposizione dell'attivo e del passivo ...e' possibile ...
l'emersione di elementi patrimoniali precedentemente non contabilizzati".
In relazione ai beni che avra' inventariato, ad esempio, il curatore
deve chiarire se si tratta di beni dell'impresa, ai sensi dell'art. 77 del
TUIR, oppure di beni personali dell'imprenditore; questa circostanza, in
assenza di dati contabili, potrebbe essere indicata dallo stesso fallito o
potrebbe ricavarsi dalle dichiarazioni dei redditi. Il valore fiscalmente
riconosciuto dovra' essere ricostruito non sulla base della stima del loro
attuale valore, ma del loro costo storico e, per i beni ammortizzabili, in
assenza di dati contabili, occorrera' tener conto anche dei presumibili
ammortamenti dedotti.
Per individuare il valore fiscale di un credito, invece, occorrera'
risalire al relativo valore nominale e verificare, sulla base dei dati
disponibili, se lo stesso sia stato oggetto di svalutazioni fiscalmente
rilevanti.
Anche per quanto riguarda gli elementi patrimoniali passivi, si
dovra' fare riferimento anzitutto ai valori iscritti in contabilita'.
Rileveranno, inoltre, anche eventuali altri debiti ammessi allo stato
passivo, purche' riferibili all'impresa fallita ed anche se non iscritti in
contabilita'.
Il patrimonio netto dell'impresa all'inizio della procedura sara',
quindi, pari alla differenza tra il valore degli elementi attivi e il valore
degli elementi passivi, come sopra individuati, tenendo presente che, ai
fini del calcolo della differenza con il residuo attivo, l'art.18, comma 2,
del decreto del Presidente della Repubblica 4 febbraio 1988, n. 42, prevede
che il patrimonio netto iniziale negativo, per eccedenza delle passivita'
sull'attivita', si considera pari a zero.
Il curatore non deve tenere conto, invece, in sede di determinazione
del patrimonio iniziale, degli eventi successivi all'apertura del
fallimento, come la perdita, la distruzione o la diminuzione di valore di
elementi attivi del patrimonio. L'insussistenza di elementi dell'attivo,
comunque, concorrera' al reddito della procedura, in quanto il valore di
tali elementi non potra' essere ricompreso, come chiarito piu' avanti, nel
residuo attivo della procedura.
1.2 Determinazione del residuo attivo della procedura
Il residuo attivo e' pari al valore di quanto restituito al fallito.
Tale valore deve essere determinato tenendo conto che:
- se al fallito sono restituiti beni relativi all'impresa, questi
devono essere valutati al valore normale, analogamente all'ipotesi della
loro estromissione dal regime d'impresa.
- i debiti verso eventuali creditori, accertati ma non insinuati o
che abbiano successivamente rinunciato al concorso, non potranno essere
considerati in diminuzione del residuo attivo. Si osserva in proposito che
l'entita' del residuo attivo (e, di riflesso, il risultato della procedura)
varia a seconda che si considerino tutte le passivita' comprese nel
patrimonio netto iniziale della procedura ovvero soltanto le passivita'
comprese nel decreto di ripartizione finale dell'attivo emesso dal giudice
delegato.
Per chiarire il fondamento di queste affermazioni e' preliminarmente
necessario richiamare la natura e lo scopo di quella fase della vita
dell'impresa che si apre con la dichiarazione di fallimento.
Sotto il profilo civilistico, la procedura concorsuale apre una fase
liquidatoria dell'impresa.
A differenza della liquidazione ordinaria, quella concorsuale del
patrimonio non e' funzionale all'estinzione dell'ente, ma a garantire la par
condicio creditorum. E' per tale motivo che la chiusura del fallimento di
una societa', anche a seguito della completa estinzione delle passivita' che
hanno partecipato al concorso e nel caso in cui esista un residuo attivo,
non determina in maniera automatica la cessazione dello stato di
liquidazione. Salvo revoca, quest'ultima prosegue autonomamente anche se il
fallito e' tornato in bonis.
La revoca della liquidazione puo' essere disposta - secondo il
consolidato orientamento della giurisprudenza (Corte di Cassazione sentenza
12 marzo 1984, n.1688, sentenza 21 aprile 1983, n.2734 e sentenza 24 maggio
1970, n. 1658, Tribunale di Torino decreto 23 agosto 1988) - soltanto con
una nuova deliberazione dei soci. Al verificarsi di una causa di
scioglimento sorge, infatti, il diritto individuale di ciascun socio alla
liquidazione della quota (nella misura in cui residuino attivita' da
ripartire), mentre la prosecuzione dell'attivita' richiede un nuovo atto
volitivo dei soci. E cio' sia che i soci integrino gli apporti, sia che
semplicemente confermino quelli originari, in quanto la revoca dello stato
di liquidazione presuppone la rinuncia all'esercizio del diritto soggettivo
di ciascuno al riparto del residuo (Tribunale di Napoli sentenza 31 marzo
1995).
Allo stesso modo, anche ai fini fiscali, l'esecuzione concorsuale e'
considerata una fase di liquidazione che definisce e conclude il ciclo
impositivo dell'impresa, anche se il fallimento si chiude con un residuo
attivo.
In sostanza, la procedura di fallimento e la liquidazione ordinaria
sono accomunate dal medesimo presupposto impositivo, ravvisabile
nell'esigenza di chiudere il ciclo reddituale dell'impresa. Una conferma di
tale affermazione giunge dal fatto che la relazione ministeriale a commento
degli articoli 124 e 125 del TUIR pone la liquidazione concorsuale sullo
stesso piano della liquidazione ordinaria.
In particolare, la determinazione del reddito derivante da entrambe
le liquidazioni, pur sottostando a regole e criteri differenti - sia in
relazione all'individuazione del periodo d'imposta che alla determinazione
del relativo risultato - risponde ai medesimi criteri di definitivita' e
certezza.
Anche nel fallimento l'autonomia dell'obbligazione tributaria di
periodo implica che il risultato finale, in particolare "dell'ultimo
maxiperiodo di vita dell'impresa deve emergere" - come si affermava nella
nota ministeriale n.9/1116 del 1 settembre 1980 della Direzione Generale
delle imposte dirette - non da una "valutazione presuntiva", bensi' da
elementi che rispettino "quei requisiti di certezza e di definitivita'
previsti dall'art.74 del DPR n.597/73.".
Diverse sono, invece, come gia' detto, le modalita' di determinazione
del risultato del fallimento, rispetto a quelle della liquidazione
ordinaria, contenute nel TUIR.
In base al disposto dell'art. 125 del TUIR, nel fallimento non e'
configurabile un soggetto autonomo d'imposta; il curatore agisce come organo
di gestione del patrimonio del fallito, il quale resta l'unico titolare
dello stesso e conserva la qualita' di contribuente, sia come centro
d'imputazione del reddito che come soggetto direttamente inciso dal prelievo tributario.
Quanto ai criteri di determinazione del risultato della procedura
concorsuale, l'art.125, comma 2, prevede che lo stesso, pur in presenza di
esercizio provvisorio, sia determinato secondo regole proprie, diverse da
quelle che disciplinano la determinazione del reddito d'impresa.
Infine, come detto, l'art.18, comma 2, del DPR n. 42/88 prevede che,
ai fini del calcolo del risultato della procedura concorsuale il patrimonio
netto iniziale negativo, per eccedenza delle passivita' sull'attivita', si
considera pari a zero.
La liquidazione concorsuale, quindi, quale ne sia la durata e anche
se vi sia stato esercizio provvisorio, rileva nell'ambito di un unitario
periodo d'imposta ed e' produttiva di un unico reddito (o perdita),
riferibile all'impresa fallita. Nella liquidazione ordinaria, invece, il
periodo d'imposta rimane unico solo nel caso in cui la stessa si chiuda
entro precisi limiti temporali, diversamente si configurano distinti ed
autonomi periodi d'imposta.
Prima della chiusura del fallimento, il curatore, al fine di
garantire la certezza e definitivita' del prelievo tributario, deve
espletare ogni adempimento fiscale connesso alla determinazione del
risultato di tale ultimo periodo d'imposta, indipendentemente dalla
eventuale ripresa della precedente attivita' economica da parte del soggetto
fallito, ritornato in bonis. La ripresa, infatti, e' del tutto eventuale, e
determina - anche ai fini fiscali - il sorgere di una nuova impresa,
conseguente ad un rinnovato atto di volonta' dell'imprenditore o dei soci,
volto a revocare lo stato di liquidazione.
Pertanto, ai fini della determinazione del residuo attivo, la
valutazione dei beni materiali e immateriali inventariati dal curatore che
saranno restituiti all'imprenditore o alla societa' ritornata in bonis deve
essere effettuata sulla base del loro valore normale, come nell'ipotesi di
estromissione degli stessi dal regime d'impresa.
Inoltre, le passivita' non insinuate o successivamente rinunciate,
non possono essere portate in diminuzione del residuo attivo o del risultato
della procedura. Per converso, gli elementi dell'attivo insussistenti,
perche' ad esempio andati dispersi o distrutti dopo l'apertura della
procedura, non possono ricomprendersi tra i valori del residuo attivo.
Si osserva in proposito che, ove non assoggettati a tassazione in
sede di liquidazione, i plusvalori latenti nei beni restituiti dopo la
chiusura del fallimento non potrebbero piu' essere tassati. Allo stesso
modo, nel caso in cui si tenesse conto di passivita' non insinuate nel
fallimento, la successiva prescrizione, remissione o estinzione a diverso
titolo senza pagamento, non potrebbe piu' configurare sopravvenienza attiva
tassabile per il soggetto fallito, in quanto estinto o non piu' imprenditore
o comunque titolare, come sopra precisato, di una nuova impresa.
La relazione ministeriale al TUIR con riguardo all'art. 125, afferma
che "la liquidazione concorsuale (...) e' considerata dall'articolo in esame
(...) come produttiva di un unico reddito (o perdita) quale che ne sia la
durata". La determinazione del reddito imponibile della procedura, quindi,
e' direttamente collegata alle risultanze della liquidazione concorsuale,
senza che possa essere data rilevanza ad ulteriori estranei ad essa.
Il residuo attivo - come si afferma anche nella risoluzione
ministeriale 7 ottobre 1998, n. 153 - e' costituito dalle disponibilita' che
residuano dopo la soddisfazione di tutti i creditori ammessi al concorso,
nonche' dopo il pagamento di compensi, spese ed altri debiti di massa. In
tal senso, appare evidente come un debito estraneo alla massa fallimentare -
perche' non insinuato o successivamente rinunciato - non possa esservi
incluso. Qualora venga successivamente evidenziato nella situazione
patrimoniale del soggetto che, ritornato in bonis, abbia eventualmente
"ripreso" l'attivita', esso non avra' rilevanza fiscale neppure nell'ipotesi
di definitiva rinuncia alla pretesa da parte del creditore.
Occorre infine considerare che, rispetto alla liquidazione ordinaria,
la procedura concorsuale, in virtu' del particolare regime di determinazione
del reddito, perviene a risultati che - a parita' di condizioni di partenza
- sono ordinariamente piu' favorevoli e, comunque, mai piu' onerosi.
In particolare, per effetto della disposizione dell'art.18, comma 2,
del DPR n. 42/88, il patrimonio netto iniziale dell'impresa e' considerato
nullo in caso di patrimonio negativo, ovvero se l'ammontare delle passivita' e' pari o superiore a quello delle attivita'.
Considerato il dato della norma, e' evidente che, anche in assenza di
residuo attivo, la semplice diminuzione del deficit iniziale di patrimonio
nel corso della procedura, poniamo ad esempio da un deficit iniziale di 100
ad un deficit finale di 50, non genera materia imponibile. Ugualmente
l'eventuale residuo attivo, poniamo ad esempio di 20, inteso come
disponibilita' che residuano dalle operazioni di liquidazione dell'attivo e
del passivo, e' assoggettato ad imposizione come tale e non per l'ammontare
corrispondente alla differenza algebrica con l'originario patrimonio
negativo. Nell'esempio sara' assoggettato a tassazione solo il residuo
attivo di 20 e non l'intera differenza algebrica pari a 120, come
avverrebbe, invece nel caso della liquidazione ordinaria.
Di conseguenza, in tali ipotesi - le piu' ricorrenti in caso di
fallimento - e' restituito al fallito un ammontare netto maggiore di quello
che gli sarebbe spettato a seguito di liquidazione ordinaria. Tale maggiore
importo e' pari alle imposte dovute sul minor imponibile corrispondente al
deficit iniziale.
In definitiva, nella determinazione del reddito della procedura
fallimentare, che evidenziava un patrimonio iniziale negativo, rilevano
nuovamente, sotto il profilo fiscale, passivita' che hanno gia' originato,
in precedenti esercizi, spese e oneri deducibili o maggiori valori di beni
patrimoniali. Per la parte corrispondente al deficit iniziale, tali
passivita' riducono l'ammontare imponibile delle plusvalenze conseguite
dalla liquidazione del patrimonio.
E' altrettanto evidente, tuttavia, che tale effetto non si produce
nel caso in cui le attivita' iniziali superino o siano pari alle passivita'.
In questi casi, la liquidazione concorsuale perviene a risultati conformi a
quelli della liquidazione ordinaria.
Se ne deduce che il "vantaggio" riconosciuto nei casi di fallimento
che presentino un patrimonio iniziale deficitario si giustifica con la
scelta del legislatore di non prelevare imposte in assenza di un quid
positivo che residui alla chiusura della liquidazione concorsuale.
In questo contesto l'art.18 del DPR n. 42/88 ha la funzione di
evitare che - come accade nella vita ordinaria dell'impresa e nelle
liquidazioni volontarie - si crei materia imponibile da plusvalori, proventi
o sopravvenienze attive che semplicemente hanno ridotto l'iniziale deficit.
Allo stesso modo, l'irrilevanza, nella determinazione del reddito
della procedura, delle ordinarie regole che disciplinano l'impresa ha la
funzione di evitare che si crei un imponibile solo contabile o fiscale. Nel
corso della procedura di fallimento, infatti, non devono piu' essere operate
le variazioni in aumento o in diminuzione discendenti da obblighi o scelte
di precedenti dichiarazioni o derivanti da indeducibilita' totale o parziale
di costi sostenuti o sopraggiunti nel particolare periodo di imposta.
Neppure eventuali plusvalenze in precedenza rateizzate, che non siano ancora
state assoggettate a tassazione in tutto o in parte, concorreranno al
reddito della procedura. Ne' le stesse dovranno essere riprese a tassazione
nei periodi d'imposta successivi alla chiusura del fallimento, pur
nell'ipotesi del ritorno in bonis del soggetto fallito.
In conclusione, le particolari regole di determinazione del reddito
del fallimento provocano, esse stesse, una soluzione di continuita'
nell'ordinario regime fiscale delineando un assetto normativo coerente con
la previsione che il maxi-periodo d'imposta di durata del fallimento sia,
fiscalmente, anche l'ultimo periodo dell'impresa.
2. Riporto delle perdite
Con riguardo alle perdite d'impresa maturate nei periodi d'imposta
precedenti all'inizio della procedura concorsuale si pone il duplice
problema della loro deducibilita' dal reddito della procedura concorsuale e
dai redditi derivanti da un'eventuale attivita' d'impresa esercitata
successivamente dal soggetto tornato in bonis, entro il quinto periodo
d'imposta successivo.
In merito al primo problema, si conferma l'utilizzabilita' delle
perdite pregresse in diminuzione del risultato della procedura concorsuale,
come gia' affermato nella risoluzione ministeriale n. 153/E del 7 ottobre
1998. Nel caso di ritorno in bonis dell'imprenditore fallito, si ritiene che le perdite pregresse possano essere utilizzate in compensazione degli
eventuali redditi della nuova impresa esercitata.
Nel caso di fallimento dell'imprenditore individuale,
l'utilizzabilita' delle perdite pregresse, da parte dell'impresa fallita ed
anche successivamente al fallimento, deriva direttamente dall'articolo 8 del
TUIR. La norma, infatti, non limita l'utilizzo delle perdite alla
compensazione dei futuri redditi della medesima impresa che le ha generate,
ma si possono compensare perdite e redditi anche di imprese differenti.
Nel caso di fallimento di una societa', il successivo ritorno in
bonis non comporta il venir meno dello stato di liquidazione dell'ente, che
non avra' soluzione di continuita' salvo revoca espressa da parte dei soci
che decidano di riprendere un'attivita' d'impresa. In tali casi, le perdite
d'impresa pregresse potranno essere utilizzate in diminuzione sia del
reddito della successiva fase di liquidazione ordinaria, sia dei redditi
derivanti dall'esercizio d'impresa, nel rispetto delle condizioni indicate
dall'art. 102 del TUIR.
Il limite temporale per il riporto delle perdite d'impresa fissato
dalla legge - non oltre il quinto periodo d'imposta successivo a quello nel
quale le perdite sono realizzate - deve essere determinato considerando che
la procedura concorsuale rappresenta un unico periodo d'imposta, qualunque
sia la sua durata e anche se vi e' stato esercizio provvisorio dell'impresa.
Pertanto, la perdita del periodo d'imposta immediatamente precedente la
procedura concorsuale, ad esempio, sara' utilizzabile in diminuzione del
risultato della procedura stessa e dei successivi quattro periodi d'imposta.
3. Riduzione dei debiti a seguito di concordato
Ai sensi dell'art. 55, comma 4 del TUIR, non si considera
sopravvenienza attiva, tra l'altro, la riduzione dei debiti dell'impresa in
sede di concordato fallimentare o preventivo. Al riguardo sorge il problema
relativo all'applicabilita' di tale norma anche ad altre fattispecie di
concordato, disciplinate dalla legge fallimentare o da altre leggi speciali.
In primo luogo, si osserva che l'espressione "concordato
fallimentare", contenuta nella norma citata, non trova riscontro con la
terminologia contenuta nel regio decreto n. 267/42.
La legge fallimentare prevede due tipologie di concordato:
- il concordato proposto dall'imprenditore nel corso del fallimento
(articoli 124 e seguenti) o della liquidazione coatta amministrativa
(articoli 214 e 215). Le norme in questione utilizzano il termine
"concordato", senza ulteriore specificazione, per indicare quelle
fattispecie che, attraverso l'accordo tra debitore e creditori, determinano
la cessazione della procedura concorsuale.
- il concordato preventivo proposto dall'imprenditore insolvente
prima che venga dichiarato tale stato (articoli160 e seguenti), o durante la
procedura di amministrazione controllata (articolo192).
Anche nel corso della procedura di amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in stato di insolvenza, disciplinata dal decreto
legislativo 8 luglio 1999, n. 270, l'imprenditore puo' essere autorizzato
dall'autorita' di vigilanza a proporre il concordato.
Tutte le tipologie di concordato esaminate sono ispirate alla
medesima ratio. Esse, infatti, favoriscono un accordo tra il debitore ed i
creditori finalizzato ad eliminare l'insolvenza, rispettando la par condicio
creditorum, ed evitare l'avvio o la prosecuzione di procedure concorsuali
complesse, dispendiose e finalizzate prevalentemente alla liquidazione della
struttura produttiva. In ogni caso, inoltre, nel concordato viene garantito
il soddisfacimento integrale dei crediti privilegiati e parziale di quelli
chirografari, attraverso un particolare accordo raggiunto tra debitore e
creditori chirografari ed assoggettato ad un controllo di legalita' e
convenienza da parte dell'autorita' giudiziaria, o di vigilanza, a tutela
degli interessi di tutti i creditori.
In sostanza, si puo' affermare che esiste una piena simmetria tra il
concordato disciplinato dall'articolo 124 e seguenti della legge
fallimentare e le altre procedure concordatarie contenute nella stessa legge
fallimentare e nel d.lgs. 270/99, alle quali si applica la medesima
disciplina.
Pertanto, si ritiene che la disposizione contenuta nell'art. 55,
comma 4, del TUIR sia applicabile a tutte le procedure concordatarie sopra
indicate.
4. Dichiarazione iniziale e finale presentata dal curatore del
fallimento di un imprenditore individuale.
Nel caso di fallimento dell'imprenditore individuale, la
dichiarazione dei redditi iniziale e finale cui e' obbligato il curatore
dovra' contenere il quadro relativo all'attivita' d'impresa, nel quale e'
indicato il reddito o la perdita realizzata, rispettivamente, nel periodo
d'imposta precedente la procedura e nel corso della procedura, ed
eventualmente i quadri relativi ad altri redditi suscettibili di essere
attratti nel fallimento, senza alcun riferimento alla liquidazione delle
imposte dovute.
Tali conclusioni discendono dalla considerazione che il fallito,
durante la procedura fallimentare, non perde la soggettivita' passiva
d'imposta e dovra' personalmente adempiere, nei termini ordinari, gli
obblighi di dichiarazione derivanti anche da ulteriori redditi, non compresi
nel fallimento. Pertanto, fermo restando l'obbligo a carico del curatore di
dichiarare il reddito d'impresa relativo alla frazione del periodo d'imposta
che precede l'inizio della procedura e quello della procedura stessa,
spettera' al fallito includere tali redditi nelle proprie dichiarazioni
relative al periodo d'imposta in cui si e' aperto e chiuso il fallimento,
unitamente agli altri eventuali redditi posseduti, al fine di liquidare le
imposte complessivamente dovute.
L'attuale quadro normativo di riferimento e' rappresentato dall'art.
5, comma 4, del DPR 22 luglio 1998, n. 322, come modificato dall'art. 5,
comma 1, lettera c), del DPR n. 7 dicembre 2001, n. 435. Secondo le nuove
disposizioni, la dichiarazione relativa alla frazione di periodo d'imposta
che precede l'inizio della procedura e la dichiarazione relativa al
risultato della stessa devono essere presentate, anche nel caso di
fallimento dell'imprenditore individuale, esclusivamente in via telematica,
entro l'ultimo giorno del decimo mese successivo a quello, rispettivamente,
della nomina del curatore e della chiusura del fallimento.
Le nuove disposizioni, che ai sensi dell'art. 19 del DPR n. 435 del
2001 hanno effetto a decorrere dal 1 gennaio 2002, si devono ritenere
applicabili anche alle procedure iniziate o terminate prima di tale data,
per le quali non siano ancora stati adempiuti gli obblighi di dichiarazione.
A norma dell'art. 18, comma 4, del DPR n. 42 del 1988, il curatore,
contemporaneamente alla presentazione delle dichiarazioni iniziale e finale,
deve consegnarne o spedirne copia all'imprenditore persona fisica, ai
familiari partecipanti all'impresa o a ciascuno dei soci di societa' di
persone, ai fini dell'inclusione del reddito o della perdita che ne risulta
nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d'imposta in cui ha
avuto inizio o si e' chiusa la procedura. Infatti, ai sensi del comma 3,
dell'art. 125 del TUIR, il reddito della procedura concorsuale e' imputato
all'imprenditore nel periodo d'imposta in cui si e' chiuso il procedimento.
Al riguardo, occorre considerare che il nuovo e piu' ampio termine di
dieci mesi entro cui devono essere presentate le dichiarazioni da parte del
curatore potrebbe scadere anche successivamente a quello entro il quale i
soggetti falliti sono obbligati a presentare la propria dichiarazione dei
redditi, che, come detto, deve includere il reddito o la perdita comunicata
dal curatore.
In tali casi, sara' opportuno che il curatore comunichi tale reddito
o perdita non contemporaneamente alla presentazione delle dichiarazioni,
come prescritto dall'art. 18, comma 4, del DPR n. 42 del 1988, ma anche
prima di tale momento, per consentire al fallito di liquidare le imposte
complessivamente dovute per il periodo d'imposta e presentare la relativa
dichiarazione dei redditi.
5. Obblighi di dichiarazione ai fini dell'IVA.
L'art. 8, comma 4, del DPR n. 322/98, cosi' come modificato dall'art.
8 del DPR n. 435/2001, disciplina la presentazione della dichiarazione IVA
relativa all'anno solare precedente il fallimento o la liquidazione coatta
amministrativa e la presentazione della dichiarazione relativa alle
operazioni registrate nell'anno solare in cui sono iniziate le procedure
concorsuali.
Nulla dispone tale norma, cosi' come anche l'art. 74-bis del decreto
del presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, in merito alla
dichiarazione annuale da presentare al termine della procedura fallimentare.
Tuttavia, l'articolo 74-bis indica chiaramente che, per le operazioni
effettuate successivamente all'apertura del fallimento, tutti gli
adempimenti previsti per l'applicazione del tributo sono a carico del
curatore, compresi, quindi, anche gli obblighi di dichiarazione.
Nel paragrafo 1 si e' evidenziato come l'analisi della disciplina
fiscale del fallimento porti a concludere che il maxi-periodo d'imposta di
durata della procedura sia, fiscalmente, anche l'ultimo periodo d'imposta
dell'impresa. E cio' anche nel caso di ritorno in bonis del soggetto
fallito, poiche', in tale ipotesi, la ripresa della precedente attivita'
economica e' del tutto eventuale, e in ogni caso determina - anche ai fini
fiscali - il sorgere di una nuova impresa.
Pertanto, ai fini IVA, la chiusura della procedura fallimentare
integra una fattispecie di cessazione dell'attivita', ai sensi dell'art. 35,quarto comma, del DPR n. 633/72, anche nel caso di ritorno in bonis del
soggetto fallito. Il curatore sara' tenuto a presentare la dichiarazione di
cessazione dell'attivita' entro trenta giorni dalla data di ultimazione
delle operazioni relative alla liquidazione dell'impresa, e sara' tenuto
all'adempimento di tutti gli altri obblighi connessi all'applicazione del
tributo, compresa la presentazione della dichiarazione annuale, negli
ordinari termini di legge.
Inoltre, come affermato nella circolare ministeriale n. 3 del 28
gennaio 1992, la dichiarazione di cessazione di attivita' ai fini IVA non e'strettamente collegata all'emanazione del decreto di chiusura della
procedura fallimentare, ma all'ultimazione delle operazioni di liquidazione
dell'azienda. In sostanza, la dichiarazione di cessazione dell'attivita' e
la successiva dichiarazione annuale possono essere presentate anche prima
che si chiuda il fallimento, purche' siano ultimate tutte le operazioni
rilevanti ai fini dell'IVA.
6. Ritenute effettuate sugli interessi attivi dei depositi intestati
alle procedure.
Le ritenute operate ai sensi dell'art. 26 del decreto del Presidente
della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, sugli interessi attivi dei
depositi intestati alle procedure concorsuali, costituiscono ritenute a
titolo di acconto sulle imposte dovute al termine della procedura sul
risultato complessivo della stessa, determinato a norma dell'art. 125, comma
2, del TUIR.
Puo' accadere che in sede di dichiarazione finale - che ai sensi del
nuovo testo dell'art. 5 del DPR n. 322/98 deve essere presentata entro dieci
mesi dalla chiusura del fallimento - a fronte di tali ritenute, emergano
eccedenze di imposta che, seppure chieste a rimborso, non sarebbero piu'
distribuibili tra i creditori, a causa dell'intervenuta chiusura del
fallimento.
In merito e' stato chiesto se sia ammissibile un'interpretazione, ai
fini fiscali, dell'espressione "chiusura del fallimento", di cui all'art. 5
citato, nel senso di attribuire ad essa un significato diverso da quello
civilistico di cui all'art. 119 della legge fallimentare, che recita: "La
chiusura del fallimento e' dichiarata con decreto motivato del
tribunale......".
Tale interpretazione sembrerebbe avvalorata dalle conclusioni
espresse nelle risoluzioni n. 9/294 del 1 aprile 1977 e n. 7/1806 del 14
giugno 1982, che hanno individuato la chiusura del fallimento nel momento in
cui si definiscono tutti i rapporti giuridico-economici della procedura
concorsuale, anche anteriormente al decreto di chiusura della medesima.
Analogamente nella circolare n. 3 del 28 gennaio 1992 viene precisato che,
ai fini IVA, la cessazione dell'attivita' si realizza nel momento in cui si
sono ultimate le operazioni rilevanti ai fini di detta imposta.
Si ritiene di non poter condividere tale interpretazione.
L'espressione "chiusura del fallimento", contenuta nell'art. 5, comma
4, del DPR n. 322/98 deve essere assunta nella sua accezione civilistica.
Pertanto, anche ai fini fiscali, il momento di chiusura del fallimento
coincide con l'emissione del decreto del tribunale di cui all'art. 119 della
legge fallimentare. Ed infatti, la formulazione dell'art. 5, comma 4, citato
non induce a ritenere che il legislatore fiscale abbia inteso dettare una
autonoma disciplina dell'istituto.
Ne' a diverse conclusioni si puo' pervenire in considerazione dei
chiarimenti dettati con le citate risoluzioni n. 9/294 del 1977 e n. 7/1806
del 1982, secondo cui "la chiusura del fallimento deve intendersi
riferita......alla data di chiusura delle operazioni poste in essere per la
definizione di tutti i rapporti giuridico-economici". Questi chiarimenti
sono stati resi in vigenza del vecchio regime di tassazione del reddito
d'impresa prodotto nel periodo concorsuale e, pertanto, non appaiono piu'
aderenti alla ratio della nuova disciplina fiscale di determinazione del
reddito del maxi periodo d'imposta fallimentare di cui all'art. 125 del TUIR.
Anteriormente all'entrata in vigore del TUIR il reddito di impresa
del periodo concorsuale veniva determinato secondo gli ordinari criteri, in
base al conto dei profitti e delle perdite; la normativa vigente, invece,
come illustrato in precedenza, ha adottato un diverso criterio, di natura
patrimoniale. Sulla base di tale criterio nel fallimento si determina un
risultato fiscalmente rilevante ai fini delle imposte dirette,
esclusivamente nel caso in cui il residuo attivo emergente al termine della
procedura sia superiore al patrimonio netto dell'impresa esistente
all'inizio del procedimento, con riferimento, quindi, necessariamente ad
un'epoca successiva al riparto.
Con riguardo, infine, alla circolare n. 3 del 28 gennaio 1992, la
stessa e' riferibile unicamente agli adempimenti ai fini IVA, disciplinati
in modo nettamente differente rispetto a quelli previsti per le imposte
dirette.
In conclusione, si deve ritenere che l'eventuale rimborso di
eccedenze di ritenute d'acconto operate ai sensi dell'art. 26 del TUIR resti
nella titolarita' dell'imprenditore fallito, nei confronti del quale potra'
sempre essere intrapresa un'azione civile per il recupero dei crediti
residui, anche, eventualmente, con una nuova procedura fallimentare.
7. Inapplicabilita' di sanzioni ed interessi ai sensi dell'art. 6-bis
del decreto legge n. 328/97
L'articolo 6-bis del decreto legge 29 settembre 1997, convertito, con
modificazioni, dalla legge 29 novembre 1997, n. 410, stabilisce che "per le
procedure concorsuali in essere alla data di entrata in vigore della legge
di conversione del presente decreto non si applicano le sanzioni di cui
all'articolo 44 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972,
n. 633, e all'articolo 92 del decreto del Presidente della Repubblica 29
settembre 1973, n. 602, ne' gli interessi, a condizione che l'imposta dovuta
venga versata in un'unica soluzione (...)".
La norma fissa, inoltre, un termine perentorio di trenta giorni per
il versamento dell'imposta dovuta, indicando una differente decorrenza di
tale termine in relazione ad ogni specifica procedura concorsuale
disciplinata dalla legge fallimentare ed in relazione alla procedura di
amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, disciplinata
dal decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, convertito con modificazioni,
dalla legge 3 aprile 1979, n. 95. E' ovvio che tale ultimo richiamo deve
intendersi, ora, riferito alla procedura di amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in stato di insolvenza, di cui al d.lgs. n. 270/99, che
ha sostituito la precedente disciplina.
La norma nulla stabilisce, in modo esplicito, in relazione alla
decorrenza del termine di cui sopra, nel caso in cui la procedura del
fallimento cessi per effetto dell'omologazione del concordato proposto ai
sensi dell'art. 124 della legge fallimentare.
Al riguardo si ribadisce quanto gia' espresso nella risoluzione n. 15
del 6 febbraio 2001 e, specificamente, che il termine di trenta giorni per
il pagamento in unica soluzione dell'imposta dovuta decorre dalla data della
sentenza di omologazione del concordato fallimentare o dalla data del
successivo decreto del giudice delegato, di cui all'art. 130, comma 2, della
legge fallimentare.

 

Fonte: Agenzia delle Entrate

 












 

 

 


2000 (c) ilFallimento.it - Ideato e diretto dal Dott. Raimondo Olmo
Torre Annunziata (Napoli) - Corso Umberto I, n.242