Servizio
di documentazione tributaria
Agenzia delle Entrate
DIREZIONE CENTRALE NORMATIVA E CONTENZIOSO
Circolare del 22/03/2002 n. 26
Oggetto:
Applicazione della normativa tributaria relativa alle procedure
concorsuali
disciplinate dal Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, cosiddetta
legge
fallimentare.
Testo:
Premessa
1. Determinazione del risultato della procedura.
1.1 Determinazione del patrimonio netto all'inizio della procedura
1.2 Determinazione del residuo attivo della procedura
2. Riporto delle perdite
3. Riduzione dei debiti a seguito di concordato
4. Dichiarazione iniziale e finale presentata dal curatore
del fallimento di
un imprenditore individuale.
5. Obblighi di dichiarazione ai fini dell'IVA.
6. Ritenute effettuate sugli interessi attivi dei depositi
intestati alle
procedure
7. Inapplicabilita' di sanzioni ed interessi ai sensi dell'art.
6-bis del
decreto legge n. 328/97
Premessa
La circolare fornisce chiarimenti su alcune problematiche
relative
all'applicazione della normativa tributaria alle procedure
concorsuali,
emerse in sede di trattazione di quesiti ed istanze di interpello.
Con particolare riguardo al fallimento ed alla liquidazione
coatta
amministrativa, vengono esaminate in particolare le problematiche
connesse
alla determinazione del reddito e all'adempimento degli obblighi
di
dichiarazione.
Nel prosieguo i riferimenti al fallimento ed al curatore si
devono
intendere fatti, in quanto compatibili, anche alla liquidazione
coatta
amministrativa ed al commissario liquidatore.
1. Determinazione del risultato della procedura.
L'art. 125, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n.
917, prevede che "il reddito compreso tra l'inizio e
la chiusura della
procedura concorsuale (...) e' costituito dalla differenza
tra il residuo
attivo e il patrimonio netto dell'impresa o della societa'
all'inizio del
procedimento, determinato ai valori fiscalmente riconosciuti."
Per individuare il reddito della procedura il curatore deve,
in primo
luogo, determinare il patrimonio netto dell'impresa all'inizio
della
procedura e confrontarlo, poi, con il residuo attivo alla
fine della stessa.
Il reddito, o la perdita, della procedura e' dato dalla differenza
tra il residuo attivo e il valore del patrimonio netto dell'impresa
all'inizio della procedura, tenendo conto delle disposizioni
del comma 3
dell'art. 125 del TUIR. Tale disposizione prevede che la differenza
di cui
sopra, nel caso di fallimento dell'imprenditore individuale
e di societa' in
nome collettivo o in accomandita semplice, e' diminuita dei
corrispettivi
delle cessioni dei beni personali dell'imprenditore o del
socio ed e'
aumentato dell'importo dei debiti personali pagati dal curatore.
1.1 Determinazione del patrimonio netto all'inizio della procedura
Il patrimonio netto dell'impresa all'inizio della procedura
deve
essere determinato tenendo conto che:
- rileva il costo fiscalmente riconosciuto degli elementi
patrimoniali attivi e passivi e non il loro valore di stima;
- rilevano le attivita' e le passivita' aziendali accertate
dal
curatore, anche se non registrate nelle scritture contabili;
- sono esclusi gli elementi, attivi o passivi, appartenenti
al
patrimonio personale dell'imprenditore individuale.
Rilevano innanzitutto le risultanze delle scritture contabili
del
soggetto fallito, in base alle quali il curatore puo' determinare
il valore
del patrimonio netto dell'impresa fallita valutando gli elementi
patrimoniali attivi e passivi al loro costo fiscalmente riconosciuto.
Spesso nelle procedure concorsuali si puo' verificare che
non sono
disponibili le scritture contabili del fallito, perche' smarrite,
distrutte
o occultate.
In tal caso, il curatore deve ricostruire il patrimonio netto
dell'impresa all'inizio della procedura sulla base dei dati
disponibili e di
quelli emersi nel corso della procedura, in sede di redazione
dell'inventario dei beni acquisiti all'attivo fallimentare
e di
predisposizione dello stato passivo. Dovra' usare, a tal fine,
tutta la
diligenza necessaria per ricostruire il patrimonio aziendale
sulla base
degli elementi disponibili, richiedendo la collaborazione
del fallito ed
anche degli uffici dell'Agenzia delle Entrate che potranno
fornire dati e
notizie desumibili dalle dichiarazioni dei redditi, utili
ai fini della
determinazione del valore fiscale degli elementi patrimoniali.
Nel fallimento, infatti, assumono rilievo le attivita' o le
passivita' comunque accertate dal curatore, anche se non registrate
dal
fallito nelle scritture contabili. In proposito, nella relazione
governativa
al TUIR, con riferimento alla disciplina dell'art. 125, si
legge che "in
sede di predisposizione dell'attivo e del passivo ...e' possibile
...
l'emersione di elementi patrimoniali precedentemente non contabilizzati".
In relazione ai beni che avra' inventariato, ad esempio, il
curatore
deve chiarire se si tratta di beni dell'impresa, ai sensi
dell'art. 77 del
TUIR, oppure di beni personali dell'imprenditore; questa circostanza,
in
assenza di dati contabili, potrebbe essere indicata dallo
stesso fallito o
potrebbe ricavarsi dalle dichiarazioni dei redditi. Il valore
fiscalmente
riconosciuto dovra' essere ricostruito non sulla base della
stima del loro
attuale valore, ma del loro costo storico e, per i beni ammortizzabili,
in
assenza di dati contabili, occorrera' tener conto anche dei
presumibili
ammortamenti dedotti.
Per individuare il valore fiscale di un credito, invece, occorrera'
risalire al relativo valore nominale e verificare, sulla base
dei dati
disponibili, se lo stesso sia stato oggetto di svalutazioni
fiscalmente
rilevanti.
Anche per quanto riguarda gli elementi patrimoniali passivi,
si
dovra' fare riferimento anzitutto ai valori iscritti in contabilita'.
Rileveranno, inoltre, anche eventuali altri debiti ammessi
allo stato
passivo, purche' riferibili all'impresa fallita ed anche se
non iscritti in
contabilita'.
Il patrimonio netto dell'impresa all'inizio della procedura
sara',
quindi, pari alla differenza tra il valore degli elementi
attivi e il valore
degli elementi passivi, come sopra individuati, tenendo presente
che, ai
fini del calcolo della differenza con il residuo attivo, l'art.18,
comma 2,
del decreto del Presidente della Repubblica 4 febbraio 1988,
n. 42, prevede
che il patrimonio netto iniziale negativo, per eccedenza delle
passivita'
sull'attivita', si considera pari a zero.
Il curatore non deve tenere conto, invece, in sede di determinazione
del patrimonio iniziale, degli eventi successivi all'apertura
del
fallimento, come la perdita, la distruzione o la diminuzione
di valore di
elementi attivi del patrimonio. L'insussistenza di elementi
dell'attivo,
comunque, concorrera' al reddito della procedura, in quanto
il valore di
tali elementi non potra' essere ricompreso, come chiarito
piu' avanti, nel
residuo attivo della procedura.
1.2 Determinazione del residuo attivo della procedura
Il residuo attivo e' pari al valore di quanto restituito al
fallito.
Tale valore deve essere determinato tenendo conto che:
- se al fallito sono restituiti beni relativi all'impresa,
questi
devono essere valutati al valore normale, analogamente all'ipotesi
della
loro estromissione dal regime d'impresa.
- i debiti verso eventuali creditori, accertati ma non insinuati
o
che abbiano successivamente rinunciato al concorso, non potranno
essere
considerati in diminuzione del residuo attivo. Si osserva
in proposito che
l'entita' del residuo attivo (e, di riflesso, il risultato
della procedura)
varia a seconda che si considerino tutte le passivita' comprese
nel
patrimonio netto iniziale della procedura ovvero soltanto
le passivita'
comprese nel decreto di ripartizione finale dell'attivo emesso
dal giudice
delegato.
Per chiarire il fondamento di queste affermazioni e' preliminarmente
necessario richiamare la natura e lo scopo di quella fase
della vita
dell'impresa che si apre con la dichiarazione di fallimento.
Sotto il profilo civilistico, la procedura concorsuale apre
una fase
liquidatoria dell'impresa.
A differenza della liquidazione ordinaria, quella concorsuale
del
patrimonio non e' funzionale all'estinzione dell'ente, ma
a garantire la par
condicio creditorum. E' per tale motivo che la chiusura del
fallimento di
una societa', anche a seguito della completa estinzione delle
passivita' che
hanno partecipato al concorso e nel caso in cui esista un
residuo attivo,
non determina in maniera automatica la cessazione dello stato
di
liquidazione. Salvo revoca, quest'ultima prosegue autonomamente
anche se il
fallito e' tornato in bonis.
La revoca della liquidazione puo' essere disposta - secondo
il
consolidato orientamento della giurisprudenza (Corte di Cassazione
sentenza
12 marzo 1984, n.1688, sentenza 21 aprile 1983, n.2734 e sentenza
24 maggio
1970, n. 1658, Tribunale di Torino decreto 23 agosto 1988)
- soltanto con
una nuova deliberazione dei soci. Al verificarsi di una causa
di
scioglimento sorge, infatti, il diritto individuale di ciascun
socio alla
liquidazione della quota (nella misura in cui residuino attivita'
da
ripartire), mentre la prosecuzione dell'attivita' richiede
un nuovo atto
volitivo dei soci. E cio' sia che i soci integrino gli apporti,
sia che
semplicemente confermino quelli originari, in quanto la revoca
dello stato
di liquidazione presuppone la rinuncia all'esercizio del diritto
soggettivo
di ciascuno al riparto del residuo (Tribunale di Napoli sentenza
31 marzo
1995).
Allo stesso modo, anche ai fini fiscali, l'esecuzione concorsuale
e'
considerata una fase di liquidazione che definisce e conclude
il ciclo
impositivo dell'impresa, anche se il fallimento si chiude
con un residuo
attivo.
In sostanza, la procedura di fallimento e la liquidazione
ordinaria
sono accomunate dal medesimo presupposto impositivo, ravvisabile
nell'esigenza di chiudere il ciclo reddituale dell'impresa.
Una conferma di
tale affermazione giunge dal fatto che la relazione ministeriale
a commento
degli articoli 124 e 125 del TUIR pone la liquidazione concorsuale
sullo
stesso piano della liquidazione ordinaria.
In particolare, la determinazione del reddito derivante da
entrambe
le liquidazioni, pur sottostando a regole e criteri differenti
- sia in
relazione all'individuazione del periodo d'imposta che alla
determinazione
del relativo risultato - risponde ai medesimi criteri di definitivita'
e
certezza.
Anche nel fallimento l'autonomia dell'obbligazione tributaria
di
periodo implica che il risultato finale, in particolare "dell'ultimo
maxiperiodo di vita dell'impresa deve emergere" - come
si affermava nella
nota ministeriale n.9/1116 del 1 settembre 1980 della Direzione
Generale
delle imposte dirette - non da una "valutazione presuntiva",
bensi' da
elementi che rispettino "quei requisiti di certezza e
di definitivita'
previsti dall'art.74 del DPR n.597/73.".
Diverse sono, invece, come gia' detto, le modalita' di determinazione
del risultato del fallimento, rispetto a quelle della liquidazione
ordinaria, contenute nel TUIR.
In base al disposto dell'art. 125 del TUIR, nel fallimento
non e'
configurabile un soggetto autonomo d'imposta; il curatore
agisce come organo
di gestione del patrimonio del fallito, il quale resta l'unico
titolare
dello stesso e conserva la qualita' di contribuente, sia come
centro
d'imputazione del reddito che come soggetto direttamente inciso
dal prelievo tributario.
Quanto ai criteri di determinazione del risultato della procedura
concorsuale, l'art.125, comma 2, prevede che lo stesso, pur
in presenza di
esercizio provvisorio, sia determinato secondo regole proprie,
diverse da
quelle che disciplinano la determinazione del reddito d'impresa.
Infine, come detto, l'art.18, comma 2, del DPR n. 42/88 prevede
che,
ai fini del calcolo del risultato della procedura concorsuale
il patrimonio
netto iniziale negativo, per eccedenza delle passivita' sull'attivita',
si
considera pari a zero.
La liquidazione concorsuale, quindi, quale ne sia la durata
e anche
se vi sia stato esercizio provvisorio, rileva nell'ambito
di un unitario
periodo d'imposta ed e' produttiva di un unico reddito (o
perdita),
riferibile all'impresa fallita. Nella liquidazione ordinaria,
invece, il
periodo d'imposta rimane unico solo nel caso in cui la stessa
si chiuda
entro precisi limiti temporali, diversamente si configurano
distinti ed
autonomi periodi d'imposta.
Prima della chiusura del fallimento, il curatore, al fine
di
garantire la certezza e definitivita' del prelievo tributario,
deve
espletare ogni adempimento fiscale connesso alla determinazione
del
risultato di tale ultimo periodo d'imposta, indipendentemente
dalla
eventuale ripresa della precedente attivita' economica da
parte del soggetto
fallito, ritornato in bonis. La ripresa, infatti, e' del tutto
eventuale, e
determina - anche ai fini fiscali - il sorgere di una nuova
impresa,
conseguente ad un rinnovato atto di volonta' dell'imprenditore
o dei soci,
volto a revocare lo stato di liquidazione.
Pertanto, ai fini della determinazione del residuo attivo,
la
valutazione dei beni materiali e immateriali inventariati
dal curatore che
saranno restituiti all'imprenditore o alla societa' ritornata
in bonis deve
essere effettuata sulla base del loro valore normale, come
nell'ipotesi di
estromissione degli stessi dal regime d'impresa.
Inoltre, le passivita' non insinuate o successivamente rinunciate,
non possono essere portate in diminuzione del residuo attivo
o del risultato
della procedura. Per converso, gli elementi dell'attivo insussistenti,
perche' ad esempio andati dispersi o distrutti dopo l'apertura
della
procedura, non possono ricomprendersi tra i valori del residuo
attivo.
Si osserva in proposito che, ove non assoggettati a tassazione
in
sede di liquidazione, i plusvalori latenti nei beni restituiti
dopo la
chiusura del fallimento non potrebbero piu' essere tassati.
Allo stesso
modo, nel caso in cui si tenesse conto di passivita' non insinuate
nel
fallimento, la successiva prescrizione, remissione o estinzione
a diverso
titolo senza pagamento, non potrebbe piu' configurare sopravvenienza
attiva
tassabile per il soggetto fallito, in quanto estinto o non
piu' imprenditore
o comunque titolare, come sopra precisato, di una nuova impresa.
La relazione ministeriale al TUIR con riguardo all'art. 125,
afferma
che "la liquidazione concorsuale (...) e' considerata
dall'articolo in esame
(...) come produttiva di un unico reddito (o perdita) quale
che ne sia la
durata". La determinazione del reddito imponibile della
procedura, quindi,
e' direttamente collegata alle risultanze della liquidazione
concorsuale,
senza che possa essere data rilevanza ad ulteriori estranei
ad essa.
Il residuo attivo - come si afferma anche nella risoluzione
ministeriale 7 ottobre 1998, n. 153 - e' costituito dalle
disponibilita' che
residuano dopo la soddisfazione di tutti i creditori ammessi
al concorso,
nonche' dopo il pagamento di compensi, spese ed altri debiti
di massa. In
tal senso, appare evidente come un debito estraneo alla massa
fallimentare -
perche' non insinuato o successivamente rinunciato - non possa
esservi
incluso. Qualora venga successivamente evidenziato nella situazione
patrimoniale del soggetto che, ritornato in bonis, abbia eventualmente
"ripreso" l'attivita', esso non avra' rilevanza
fiscale neppure nell'ipotesi
di definitiva rinuncia alla pretesa da parte del creditore.
Occorre infine considerare che, rispetto alla liquidazione
ordinaria,
la procedura concorsuale, in virtu' del particolare regime
di determinazione
del reddito, perviene a risultati che - a parita' di condizioni
di partenza
- sono ordinariamente piu' favorevoli e, comunque, mai piu'
onerosi.
In particolare, per effetto della disposizione dell'art.18,
comma 2,
del DPR n. 42/88, il patrimonio netto iniziale dell'impresa
e' considerato
nullo in caso di patrimonio negativo, ovvero se l'ammontare
delle passivita' e' pari o superiore a quello delle attivita'.
Considerato il dato della norma, e' evidente che, anche in
assenza di
residuo attivo, la semplice diminuzione del deficit iniziale
di patrimonio
nel corso della procedura, poniamo ad esempio da un deficit
iniziale di 100
ad un deficit finale di 50, non genera materia imponibile.
Ugualmente
l'eventuale residuo attivo, poniamo ad esempio di 20, inteso
come
disponibilita' che residuano dalle operazioni di liquidazione
dell'attivo e
del passivo, e' assoggettato ad imposizione come tale e non
per l'ammontare
corrispondente alla differenza algebrica con l'originario
patrimonio
negativo. Nell'esempio sara' assoggettato a tassazione solo
il residuo
attivo di 20 e non l'intera differenza algebrica pari a 120,
come
avverrebbe, invece nel caso della liquidazione ordinaria.
Di conseguenza, in tali ipotesi - le piu' ricorrenti in caso
di
fallimento - e' restituito al fallito un ammontare netto maggiore
di quello
che gli sarebbe spettato a seguito di liquidazione ordinaria.
Tale maggiore
importo e' pari alle imposte dovute sul minor imponibile corrispondente
al
deficit iniziale.
In definitiva, nella determinazione del reddito della procedura
fallimentare, che evidenziava un patrimonio iniziale negativo,
rilevano
nuovamente, sotto il profilo fiscale, passivita' che hanno
gia' originato,
in precedenti esercizi, spese e oneri deducibili o maggiori
valori di beni
patrimoniali. Per la parte corrispondente al deficit iniziale,
tali
passivita' riducono l'ammontare imponibile delle plusvalenze
conseguite
dalla liquidazione del patrimonio.
E' altrettanto evidente, tuttavia, che tale effetto non si
produce
nel caso in cui le attivita' iniziali superino o siano pari
alle passivita'.
In questi casi, la liquidazione concorsuale perviene a risultati
conformi a
quelli della liquidazione ordinaria.
Se ne deduce che il "vantaggio" riconosciuto nei
casi di fallimento
che presentino un patrimonio iniziale deficitario si giustifica
con la
scelta del legislatore di non prelevare imposte in assenza
di un quid
positivo che residui alla chiusura della liquidazione concorsuale.
In questo contesto l'art.18 del DPR n. 42/88 ha la funzione
di
evitare che - come accade nella vita ordinaria dell'impresa
e nelle
liquidazioni volontarie - si crei materia imponibile da plusvalori,
proventi
o sopravvenienze attive che semplicemente hanno ridotto l'iniziale
deficit.
Allo stesso modo, l'irrilevanza, nella determinazione del
reddito
della procedura, delle ordinarie regole che disciplinano l'impresa
ha la
funzione di evitare che si crei un imponibile solo contabile
o fiscale. Nel
corso della procedura di fallimento, infatti, non devono piu'
essere operate
le variazioni in aumento o in diminuzione discendenti da obblighi
o scelte
di precedenti dichiarazioni o derivanti da indeducibilita'
totale o parziale
di costi sostenuti o sopraggiunti nel particolare periodo
di imposta.
Neppure eventuali plusvalenze in precedenza rateizzate, che
non siano ancora
state assoggettate a tassazione in tutto o in parte, concorreranno
al
reddito della procedura. Ne' le stesse dovranno essere riprese
a tassazione
nei periodi d'imposta successivi alla chiusura del fallimento,
pur
nell'ipotesi del ritorno in bonis del soggetto fallito.
In conclusione, le particolari regole di determinazione del
reddito
del fallimento provocano, esse stesse, una soluzione di continuita'
nell'ordinario regime fiscale delineando un assetto normativo
coerente con
la previsione che il maxi-periodo d'imposta di durata del
fallimento sia,
fiscalmente, anche l'ultimo periodo dell'impresa.
2. Riporto delle perdite
Con riguardo alle perdite d'impresa maturate nei periodi d'imposta
precedenti all'inizio della procedura concorsuale si pone
il duplice
problema della loro deducibilita' dal reddito della procedura
concorsuale e
dai redditi derivanti da un'eventuale attivita' d'impresa
esercitata
successivamente dal soggetto tornato in bonis, entro il quinto
periodo
d'imposta successivo.
In merito al primo problema, si conferma l'utilizzabilita'
delle
perdite pregresse in diminuzione del risultato della procedura
concorsuale,
come gia' affermato nella risoluzione ministeriale n. 153/E
del 7 ottobre
1998. Nel caso di ritorno in bonis dell'imprenditore fallito,
si ritiene che le perdite pregresse possano essere utilizzate
in compensazione degli
eventuali redditi della nuova impresa esercitata.
Nel caso di fallimento dell'imprenditore individuale,
l'utilizzabilita' delle perdite pregresse, da parte dell'impresa
fallita ed
anche successivamente al fallimento, deriva direttamente dall'articolo
8 del
TUIR. La norma, infatti, non limita l'utilizzo delle perdite
alla
compensazione dei futuri redditi della medesima impresa che
le ha generate,
ma si possono compensare perdite e redditi anche di imprese
differenti.
Nel caso di fallimento di una societa', il successivo ritorno
in
bonis non comporta il venir meno dello stato di liquidazione
dell'ente, che
non avra' soluzione di continuita' salvo revoca espressa da
parte dei soci
che decidano di riprendere un'attivita' d'impresa. In tali
casi, le perdite
d'impresa pregresse potranno essere utilizzate in diminuzione
sia del
reddito della successiva fase di liquidazione ordinaria, sia
dei redditi
derivanti dall'esercizio d'impresa, nel rispetto delle condizioni
indicate
dall'art. 102 del TUIR.
Il limite temporale per il riporto delle perdite d'impresa
fissato
dalla legge - non oltre il quinto periodo d'imposta successivo
a quello nel
quale le perdite sono realizzate - deve essere determinato
considerando che
la procedura concorsuale rappresenta un unico periodo d'imposta,
qualunque
sia la sua durata e anche se vi e' stato esercizio provvisorio
dell'impresa.
Pertanto, la perdita del periodo d'imposta immediatamente
precedente la
procedura concorsuale, ad esempio, sara' utilizzabile in diminuzione
del
risultato della procedura stessa e dei successivi quattro
periodi d'imposta.
3. Riduzione dei debiti a seguito di concordato
Ai sensi dell'art. 55, comma 4 del TUIR, non si considera
sopravvenienza attiva, tra l'altro, la riduzione dei debiti
dell'impresa in
sede di concordato fallimentare o preventivo. Al riguardo
sorge il problema
relativo all'applicabilita' di tale norma anche ad altre fattispecie
di
concordato, disciplinate dalla legge fallimentare o da altre
leggi speciali.
In primo luogo, si osserva che l'espressione "concordato
fallimentare", contenuta nella norma citata, non trova
riscontro con la
terminologia contenuta nel regio decreto n. 267/42.
La legge fallimentare prevede due tipologie di concordato:
- il concordato proposto dall'imprenditore nel corso del fallimento
(articoli 124 e seguenti) o della liquidazione coatta amministrativa
(articoli 214 e 215). Le norme in questione utilizzano il
termine
"concordato", senza ulteriore specificazione, per
indicare quelle
fattispecie che, attraverso l'accordo tra debitore e creditori,
determinano
la cessazione della procedura concorsuale.
- il concordato preventivo proposto dall'imprenditore insolvente
prima che venga dichiarato tale stato (articoli160 e seguenti),
o durante la
procedura di amministrazione controllata (articolo192).
Anche nel corso della procedura di amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in stato di insolvenza, disciplinata
dal decreto
legislativo 8 luglio 1999, n. 270, l'imprenditore puo' essere
autorizzato
dall'autorita' di vigilanza a proporre il concordato.
Tutte le tipologie di concordato esaminate sono ispirate alla
medesima ratio. Esse, infatti, favoriscono un accordo tra
il debitore ed i
creditori finalizzato ad eliminare l'insolvenza, rispettando
la par condicio
creditorum, ed evitare l'avvio o la prosecuzione di procedure
concorsuali
complesse, dispendiose e finalizzate prevalentemente alla
liquidazione della
struttura produttiva. In ogni caso, inoltre, nel concordato
viene garantito
il soddisfacimento integrale dei crediti privilegiati e parziale
di quelli
chirografari, attraverso un particolare accordo raggiunto
tra debitore e
creditori chirografari ed assoggettato ad un controllo di
legalita' e
convenienza da parte dell'autorita' giudiziaria, o di vigilanza,
a tutela
degli interessi di tutti i creditori.
In sostanza, si puo' affermare che esiste una piena simmetria
tra il
concordato disciplinato dall'articolo 124 e seguenti della
legge
fallimentare e le altre procedure concordatarie contenute
nella stessa legge
fallimentare e nel d.lgs. 270/99, alle quali si applica la
medesima
disciplina.
Pertanto, si ritiene che la disposizione contenuta nell'art.
55,
comma 4, del TUIR sia applicabile a tutte le procedure concordatarie
sopra
indicate.
4. Dichiarazione iniziale e finale presentata dal curatore
del
fallimento di un imprenditore individuale.
Nel caso di fallimento dell'imprenditore individuale, la
dichiarazione dei redditi iniziale e finale cui e' obbligato
il curatore
dovra' contenere il quadro relativo all'attivita' d'impresa,
nel quale e'
indicato il reddito o la perdita realizzata, rispettivamente,
nel periodo
d'imposta precedente la procedura e nel corso della procedura,
ed
eventualmente i quadri relativi ad altri redditi suscettibili
di essere
attratti nel fallimento, senza alcun riferimento alla liquidazione
delle
imposte dovute.
Tali conclusioni discendono dalla considerazione che il fallito,
durante la procedura fallimentare, non perde la soggettivita'
passiva
d'imposta e dovra' personalmente adempiere, nei termini ordinari,
gli
obblighi di dichiarazione derivanti anche da ulteriori redditi,
non compresi
nel fallimento. Pertanto, fermo restando l'obbligo a carico
del curatore di
dichiarare il reddito d'impresa relativo alla frazione del
periodo d'imposta
che precede l'inizio della procedura e quello della procedura
stessa,
spettera' al fallito includere tali redditi nelle proprie
dichiarazioni
relative al periodo d'imposta in cui si e' aperto e chiuso
il fallimento,
unitamente agli altri eventuali redditi posseduti, al fine
di liquidare le
imposte complessivamente dovute.
L'attuale quadro normativo di riferimento e' rappresentato
dall'art.
5, comma 4, del DPR 22 luglio 1998, n. 322, come modificato
dall'art. 5,
comma 1, lettera c), del DPR n. 7 dicembre 2001, n. 435. Secondo
le nuove
disposizioni, la dichiarazione relativa alla frazione di periodo
d'imposta
che precede l'inizio della procedura e la dichiarazione relativa
al
risultato della stessa devono essere presentate, anche nel
caso di
fallimento dell'imprenditore individuale, esclusivamente in
via telematica,
entro l'ultimo giorno del decimo mese successivo a quello,
rispettivamente,
della nomina del curatore e della chiusura del fallimento.
Le nuove disposizioni, che ai sensi dell'art. 19 del DPR n.
435 del
2001 hanno effetto a decorrere dal 1 gennaio 2002, si devono
ritenere
applicabili anche alle procedure iniziate o terminate prima
di tale data,
per le quali non siano ancora stati adempiuti gli obblighi
di dichiarazione.
A norma dell'art. 18, comma 4, del DPR n. 42 del 1988, il
curatore,
contemporaneamente alla presentazione delle dichiarazioni
iniziale e finale,
deve consegnarne o spedirne copia all'imprenditore persona
fisica, ai
familiari partecipanti all'impresa o a ciascuno dei soci di
societa' di
persone, ai fini dell'inclusione del reddito o della perdita
che ne risulta
nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d'imposta
in cui ha
avuto inizio o si e' chiusa la procedura. Infatti, ai sensi
del comma 3,
dell'art. 125 del TUIR, il reddito della procedura concorsuale
e' imputato
all'imprenditore nel periodo d'imposta in cui si e' chiuso
il procedimento.
Al riguardo, occorre considerare che il nuovo e piu' ampio
termine di
dieci mesi entro cui devono essere presentate le dichiarazioni
da parte del
curatore potrebbe scadere anche successivamente a quello entro
il quale i
soggetti falliti sono obbligati a presentare la propria dichiarazione
dei
redditi, che, come detto, deve includere il reddito o la perdita
comunicata
dal curatore.
In tali casi, sara' opportuno che il curatore comunichi tale
reddito
o perdita non contemporaneamente alla presentazione delle
dichiarazioni,
come prescritto dall'art. 18, comma 4, del DPR n. 42 del 1988,
ma anche
prima di tale momento, per consentire al fallito di liquidare
le imposte
complessivamente dovute per il periodo d'imposta e presentare
la relativa
dichiarazione dei redditi.
5. Obblighi di dichiarazione ai fini dell'IVA.
L'art. 8, comma 4, del DPR n. 322/98, cosi' come modificato
dall'art.
8 del DPR n. 435/2001, disciplina la presentazione della dichiarazione
IVA
relativa all'anno solare precedente il fallimento o la liquidazione
coatta
amministrativa e la presentazione della dichiarazione relativa
alle
operazioni registrate nell'anno solare in cui sono iniziate
le procedure
concorsuali.
Nulla dispone tale norma, cosi' come anche l'art. 74-bis del
decreto
del presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, in
merito alla
dichiarazione annuale da presentare al termine della procedura
fallimentare.
Tuttavia, l'articolo 74-bis indica chiaramente che, per le
operazioni
effettuate successivamente all'apertura del fallimento, tutti
gli
adempimenti previsti per l'applicazione del tributo sono a
carico del
curatore, compresi, quindi, anche gli obblighi di dichiarazione.
Nel paragrafo 1 si e' evidenziato come l'analisi della disciplina
fiscale del fallimento porti a concludere che il maxi-periodo
d'imposta di
durata della procedura sia, fiscalmente, anche l'ultimo periodo
d'imposta
dell'impresa. E cio' anche nel caso di ritorno in bonis del
soggetto
fallito, poiche', in tale ipotesi, la ripresa della precedente
attivita'
economica e' del tutto eventuale, e in ogni caso determina
- anche ai fini
fiscali - il sorgere di una nuova impresa.
Pertanto, ai fini IVA, la chiusura della procedura fallimentare
integra una fattispecie di cessazione dell'attivita', ai sensi
dell'art. 35,quarto comma, del DPR n. 633/72, anche nel caso
di ritorno in bonis del
soggetto fallito. Il curatore sara' tenuto a presentare la
dichiarazione di
cessazione dell'attivita' entro trenta giorni dalla data di
ultimazione
delle operazioni relative alla liquidazione dell'impresa,
e sara' tenuto
all'adempimento di tutti gli altri obblighi connessi all'applicazione
del
tributo, compresa la presentazione della dichiarazione annuale,
negli
ordinari termini di legge.
Inoltre, come affermato nella circolare ministeriale n. 3
del 28
gennaio 1992, la dichiarazione di cessazione di attivita'
ai fini IVA non e'strettamente collegata all'emanazione del
decreto di chiusura della
procedura fallimentare, ma all'ultimazione delle operazioni
di liquidazione
dell'azienda. In sostanza, la dichiarazione di cessazione
dell'attivita' e
la successiva dichiarazione annuale possono essere presentate
anche prima
che si chiuda il fallimento, purche' siano ultimate tutte
le operazioni
rilevanti ai fini dell'IVA.
6. Ritenute effettuate sugli interessi attivi dei depositi
intestati
alle procedure.
Le ritenute operate ai sensi dell'art. 26 del decreto del
Presidente
della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, sugli interessi
attivi dei
depositi intestati alle procedure concorsuali, costituiscono
ritenute a
titolo di acconto sulle imposte dovute al termine della procedura
sul
risultato complessivo della stessa, determinato a norma dell'art.
125, comma
2, del TUIR.
Puo' accadere che in sede di dichiarazione finale - che ai
sensi del
nuovo testo dell'art. 5 del DPR n. 322/98 deve essere presentata
entro dieci
mesi dalla chiusura del fallimento - a fronte di tali ritenute,
emergano
eccedenze di imposta che, seppure chieste a rimborso, non
sarebbero piu'
distribuibili tra i creditori, a causa dell'intervenuta chiusura
del
fallimento.
In merito e' stato chiesto se sia ammissibile un'interpretazione,
ai
fini fiscali, dell'espressione "chiusura del fallimento",
di cui all'art. 5
citato, nel senso di attribuire ad essa un significato diverso
da quello
civilistico di cui all'art. 119 della legge fallimentare,
che recita: "La
chiusura del fallimento e' dichiarata con decreto motivato
del
tribunale......".
Tale interpretazione sembrerebbe avvalorata dalle conclusioni
espresse nelle risoluzioni n. 9/294 del 1 aprile 1977 e n.
7/1806 del 14
giugno 1982, che hanno individuato la chiusura del fallimento
nel momento in
cui si definiscono tutti i rapporti giuridico-economici della
procedura
concorsuale, anche anteriormente al decreto di chiusura della
medesima.
Analogamente nella circolare n. 3 del 28 gennaio 1992 viene
precisato che,
ai fini IVA, la cessazione dell'attivita' si realizza nel
momento in cui si
sono ultimate le operazioni rilevanti ai fini di detta imposta.
Si ritiene di non poter condividere tale interpretazione.
L'espressione "chiusura del fallimento", contenuta
nell'art. 5, comma
4, del DPR n. 322/98 deve essere assunta nella sua accezione
civilistica.
Pertanto, anche ai fini fiscali, il momento di chiusura del
fallimento
coincide con l'emissione del decreto del tribunale di cui
all'art. 119 della
legge fallimentare. Ed infatti, la formulazione dell'art.
5, comma 4, citato
non induce a ritenere che il legislatore fiscale abbia inteso
dettare una
autonoma disciplina dell'istituto.
Ne' a diverse conclusioni si puo' pervenire in considerazione
dei
chiarimenti dettati con le citate risoluzioni n. 9/294 del
1977 e n. 7/1806
del 1982, secondo cui "la chiusura del fallimento deve
intendersi
riferita......alla data di chiusura delle operazioni poste
in essere per la
definizione di tutti i rapporti giuridico-economici".
Questi chiarimenti
sono stati resi in vigenza del vecchio regime di tassazione
del reddito
d'impresa prodotto nel periodo concorsuale e, pertanto, non
appaiono piu'
aderenti alla ratio della nuova disciplina fiscale di determinazione
del
reddito del maxi periodo d'imposta fallimentare di cui all'art.
125 del TUIR.
Anteriormente all'entrata in vigore del TUIR il reddito di
impresa
del periodo concorsuale veniva determinato secondo gli ordinari
criteri, in
base al conto dei profitti e delle perdite; la normativa vigente,
invece,
come illustrato in precedenza, ha adottato un diverso criterio,
di natura
patrimoniale. Sulla base di tale criterio nel fallimento si
determina un
risultato fiscalmente rilevante ai fini delle imposte dirette,
esclusivamente nel caso in cui il residuo attivo emergente
al termine della
procedura sia superiore al patrimonio netto dell'impresa esistente
all'inizio del procedimento, con riferimento, quindi, necessariamente
ad
un'epoca successiva al riparto.
Con riguardo, infine, alla circolare n. 3 del 28 gennaio 1992,
la
stessa e' riferibile unicamente agli adempimenti ai fini IVA,
disciplinati
in modo nettamente differente rispetto a quelli previsti per
le imposte
dirette.
In conclusione, si deve ritenere che l'eventuale rimborso
di
eccedenze di ritenute d'acconto operate ai sensi dell'art.
26 del TUIR resti
nella titolarita' dell'imprenditore fallito, nei confronti
del quale potra'
sempre essere intrapresa un'azione civile per il recupero
dei crediti
residui, anche, eventualmente, con una nuova procedura fallimentare.
7. Inapplicabilita' di sanzioni ed interessi ai sensi dell'art.
6-bis
del decreto legge n. 328/97
L'articolo 6-bis del decreto legge 29 settembre 1997, convertito,
con
modificazioni, dalla legge 29 novembre 1997, n. 410, stabilisce
che "per le
procedure concorsuali in essere alla data di entrata in vigore
della legge
di conversione del presente decreto non si applicano le sanzioni
di cui
all'articolo 44 del decreto del Presidente della Repubblica
26 ottobre 1972,
n. 633, e all'articolo 92 del decreto del Presidente della
Repubblica 29
settembre 1973, n. 602, ne' gli interessi, a condizione che
l'imposta dovuta
venga versata in un'unica soluzione (...)".
La norma fissa, inoltre, un termine perentorio di trenta giorni
per
il versamento dell'imposta dovuta, indicando una differente
decorrenza di
tale termine in relazione ad ogni specifica procedura concorsuale
disciplinata dalla legge fallimentare ed in relazione alla
procedura di
amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi,
disciplinata
dal decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, convertito con modificazioni,
dalla legge 3 aprile 1979, n. 95. E' ovvio che tale ultimo
richiamo deve
intendersi, ora, riferito alla procedura di amministrazione
straordinaria
delle grandi imprese in stato di insolvenza, di cui al d.lgs.
n. 270/99, che
ha sostituito la precedente disciplina.
La norma nulla stabilisce, in modo esplicito, in relazione
alla
decorrenza del termine di cui sopra, nel caso in cui la procedura
del
fallimento cessi per effetto dell'omologazione del concordato
proposto ai
sensi dell'art. 124 della legge fallimentare.
Al riguardo si ribadisce quanto gia' espresso nella risoluzione
n. 15
del 6 febbraio 2001 e, specificamente, che il termine di trenta
giorni per
il pagamento in unica soluzione dell'imposta dovuta decorre
dalla data della
sentenza di omologazione del concordato fallimentare o dalla
data del
successivo decreto del giudice delegato, di cui all'art. 130,
comma 2, della
legge fallimentare.
Fonte:
Agenzia delle Entrate
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