Cassazione - Sezione Prima Civile - Sent. n. 7147/2000 - Presidente A. Sensale - Relatore D. Plenteda.

Contestazione delo stato di insolvenza ai fini della revoca della sentenza dichiarativa del falliento - leggittimazione del custode giudiziario della società fallita - esclusione.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 16 febbraio1996 la società (omissis) propose opposizione avverso la sentenza dichiarativa del suo fallimento 23.1.1996 del Tribunale di Milano, resa su ricorso della società (omissis), deducendo la insussistenza dello stato di insolvenza, in quanto il suo patrimonio era stato sottoposto a sequestro conservativo penale. Nella contumacia del curatore del fallimento, il tribunale respinse l'opposizione con sentenza 13 giugno 1996, rilevando che il sequestro era stato concesso a garanzia di crediti per lire 30 miliardi dello Stato e che fosse irrilevante la causa della insolvenza, posto che comunque la società non era nelle condizioni di fronteggiare le passività.

La società fallita propose impugnazione, che la Corte di appello di Milano con sentenza 9 luglio 1997 respinse, condannando l'appellante al pagamento delle spese processuali. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la (omissis) con unico motivo, cui hanno resistito il curatore del fallimento e la (omissis).

MOTIVI DELLA DECISIONE

Denunzia la società ricorrente la violazione e falsa applicazione degli articoli 5 e 51 Lf 116 c.p.c. e 316 c.p.p. e il difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, in riferimento all'articolo 360 numeri 3 e 5 c.p.c. Rileva che a rendere indisponibile il suo patrimonio era stata una misura cautelare penale disposta nei confronti del proprio amministratore ed eseguita dunque su beni di terzi, anziché sulle quote sociali di esso imputato, e lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare in ordine al sequestro, dimostrando di non conoscerlo per il fatto che non aveva evidenziato quando ed ad istanza di quale pubblico ministero ora stato richiesto, nei confronti di quale imputato e per quale reato e a quale titolo lo Stato era stato ritenuto creditore per 30 miliardi.

Deduce ancora la ricorrente che la richiesta di fallimento era stata proposta da un solo creditore, per un credito contestato portato da un titolo provvisorio emesso in corso di causa, a nulla rilevando che fossero poi stati ammessi al passivo altri crediti, dal momento che la insolvenza va giudicata con riguardo alla situazione della data di dichiarazione di fallimento.

Preliminarmente va esaminata la eccezione del curatore del fallimento, di inammissibilità del ricorso, perché proposto dal custode giudiziario della società fallita, anziché dal rappresentante legale di quest'ultima. Stabilisce in via generale l'articolo 65 c.p.c. che "la conservazione e l'amministrazione dei beni pignorati o sequestrati siano affidate ad un custode, quando la legge non dispone altrimenti", e il riscontro della natura di tale potere gestorio la norme speciali offrono in tema cautelare, in cui l'articolo 671 c.p.c. precisa che "nel disporre il sequestro giudiziario il giudice nomina il custode, stabilisce i criteri ed i limiti della amministrazione delle cose sequestrate e le particolari cautele idonee a rendere più sicura la custodia e ad impedire la divulgazione dei segreti", mentre per il sequestro conservativo mobiliare attribuiscono all'ufficio giudiziario che procede la nomina del custode (articoli 678, 520 e 521 c.p.c.) e per quello immobiliare assegnano la custodia, ex lege, al creditore (articoli 679 e 559 c.p.c.), salvo che il creditore non richieda al giudice (del sequestro) la nomina di persona diversa. Quanto al pignoramento, in quello immobiliare l'articolo 560 dispone che al debitore ed al terzo nominato custode "è fatto divieto di dare in locazione l'immobile pignorato" se non siano autorizzati dal giudice, e in quello mobiliare l'articolo 521, ultimo comma, impone al custode di non usare le cose pignorate senza tale autorizzazione.

In tutte le fattispecie considerate è, poi, previsto l'obbligo di rendiconto (articoli 560 1° comma; 595; 632 11° comma; 676 ultimo comma c.p.c.).

Gli articoli 316 e 317 c.p. nel disciplinare il sequestro conservativo in sede penale, "se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano la garanzie per il pagamento della pene pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato", si richiamano alle disposizioni del codice di procedura civile, per la esecuzione del sequestro conservativo sul beni mobili e sugli immobili.

Ne deriva che in qualunque situazione processuale e in ogni tipo di procedimento il custode tenuto conto della concezione unitaria della sua figura - ha una funzione limitata alla conservazione ed amministrazione dei beni, per cui i poteri, derivati direttamente dalla legge o determinati dal provvedimento giudiziale, non possono non trovare in essa l'area di esercizio ed i limiti massimi di espansione, oltre i quali opera un divieto insuperabile, perché connaturale a siffatta funzione di custodire, in quanto la norma, parlando di conservazione e amministrazione, non formula due ipotesi nettamente distinte, ma considera la seconda strumentale alla prima.

Connessa a tale potere, nella misura ad esso corrispondente, é la legittimazione ad agire rame attore e a stare in giudizio come convenuto, non essendo esso esercitabile nella necessaria pienezza, se fosse esclusa l'azione relativa. Il custode opera in tal caso come rappresentante di ufficio - in quanto ausiliare del giudice - di un patrimonio separato, che costituisce centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi, e in tale veste - e dunque solo per la tutela degli interessi che vi sì collegano - ha la legittimazione processuale (Cass. 7354/1991; 2232/1987; 381/1974), la quale resta, sempre e comunque limitata alle azioni relative alla custodia e alla amministrazione dei beni.

Ciò posto, risulta fondata la eccezione di inammissibilità, atteso che la contestazione dello stato di insolvenza, ai fini della revoca della sentenza dichiarativa dei fallimento, è estranea al potere del custode giudiziario, restando invece in capo alla società fallita e al suo legale rappresentante, sia in termini di legittimatio ad causa che di legittimatio ad processum. Né rileva la circostanza che ad abilitare il custode al ricorso per cassazione sia stato il presidente della sezione penale del tribunale, presso la quale il giudizio pendeva, non potendo quel provvedimento giovare ad allargare i limiti della funzione in esame, sia perché ciò porterebbe a snaturala sia perché tale eccesso determinerebbe una indebita invasione dell'area ad altri soggetti riservata.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in favore del fallimento in 3.179.000 di cui lire 3.000.000 per onorari e in favore della società (omissis) in lire 3.820.500 di cui lire 3.500.000 per onorari.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna - il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in favore del fallimento in cui lire 3.000,000 per onorari e in favore della società (omissis) in cui lire 3.500.000 per onorari.

 












 

 

 


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