Corte
Costituzionale - Sentenza n°66 Anno 1999
SENTENZA
N.66
ANNO
1999
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
-
Dott. Renato GRANATA Presidente
-
Prof. Giuliano VASSALLI Giudice
-
Prof. Francesco GUIZZI "
-
Prof. Cesare MIRABELLI "
-
Prof. Fernando SANTOSUOSSO "
-
Avv. Massimo VARI "
-
Dott. Cesare RUPERTO "
-
Dott. Riccardo CHIEPPA "
-
Prof. Valerio ONIDA "
-
Prof. Carlo MEZZANOTTE "
-
Avv. Fernanda CONTRI "
-
Prof. Guido NEPPI MODONA "
-
Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "
-
Prof. Annibale MARINI "
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 147,
primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942,
n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), promossi con ordinanze emesse: 1) il 15
ottobre 1997 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile
Gentile Orazio contro Fallimento Mauro Tomassini Motors
s.a.s. ed altri, iscritta al n. 306 del registro ordinanze
1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1998; 2) il 18 giugno
1998 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile Merlini
Miria ed altra contro Masi Giuseppe ed altri, iscritta al
n. 755 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale,
dell'anno 1998.
Visto
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nella camera di consiglio del 13 gennaio 1999 il Giudice
relatore Annibale Marini.
Ritenuto
in fatto
1.
- Nel corso di un giudizio di opposizione ad una dichiarazione
di fallimento il Tribunale di Roma, con ordinanza del 15
ottobre 1997, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento all'art. 3, primo comma,
della Costituzione, dellart. 147, primo comma, del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata
e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione
all'art. 11, primo comma, dello stesso regio decreto "nella
parte in cui prevede che la sentenza che dichiara il fallimento
della società con soci a responsabilità illimitata
produce il fallimento anche del socio (illimitatamente responsabile)
defunto, pur dopo che sia decorso un anno dalla morte".
1.1.
- Premessa la rilevanza della questione - in quanto lopposizione,
avente ad oggetto la declaratoria di fallimento di un socio
accomandatario di società in accomandita semplice,
intervenuta oltre un anno dalla morte di costui, si fonda
proprio sulla asserita non assoggettabilità al fallimento
del socio illimitatamente responsabile deceduto da oltre
un anno, ai sensi degli artt. 10 e 11 della legge fallimentare
(r.d. n. 267 del 1942) - il rimettente rileva innanzitutto
che, per consolidata giurisprudenza, il fallimento del socio
illimitatamente responsabile discende automaticamente dal
fallimento della società e prescinde da qualsiasi
accertamento, nei suoi confronti, dei presupposti previsti
dagli artt. 1 e 5 della legge fallimentare. La ratio del
fallimento del socio illimitatamente responsabile di una
società di persone si rinverrebbe dunque non già
in una sua ipotetica qualità di imprenditore (o coimprenditore)
commerciale, ma solo nellesigenza di realizzare la
garanzia costituita dal patrimonio del socio con le modalità
(quelle, appunto, della procedura fallimentare) ritenute
dal legislatore più idonee a tutelare la massa creditoria.
1.2.
- Osserva ancora il giudice a quo che la prevalente giurisprudenza
esclude lapplicabilità, alla fattispecie disciplinata
dallart. 147 della legge fallimentare, del termine
di un anno previsto dagli artt. 10 e 11 della medesima legge
riguardo al fallimento dellimprenditore individuale
defunto o che comunque abbia cessato lattività
di impresa. Con la conseguenza che il socio illimitatamente
responsabile sarebbe assoggettato senza alcun limite di
tempo al fallimento, pur dopo la morte o la perdita, per
qualsiasi causa, della qualità di socio, allunica
condizione che linsolvenza della società si
riferisca ad obbligazioni contratte prima dello scioglimento,
nei suoi confronti, del rapporto sociale.
1.3.
- La norma, così interpretata, determinerebbe, ad
avviso del rimettente, una disparità di trattamento
tra limprenditore individuale cessato o defunto ed
il socio illimitatamente responsabile di una società
di persone cessato o defunto, in quanto, mentre il primo
potrebbe essere dichiarato fallito solamente entro lanno
dalla cessazione dellattività di impresa, il
secondo resterebbe soggetto al fallimento senza alcun limite
temporale.
Siffatta
disparità di trattamento contrasterebbe, secondo
il giudice a quo, con il principio di eguaglianza in quanto
le due situazioni, poste a confronto, presenterebbero quali
essenziali tratti comuni: lesercizio di impresa commerciale,
in forma individuale o collettiva; la responsabilità
illimitata per le obbligazioni conseguenti; la cessazione
dellesercizio o della partecipazione allesercizio
dellimpresa; il permanere della responsabilità
illimitata per le obbligazioni inerenti allimpresa
commerciale.
Mentre
non varrebbero a legittimare la denunciata diversità
di disciplina gli elementi di differenziazione delle due
fattispecie e precisamente: lessere limpresa
esercitata in un caso in forma individuale e nellaltro
in forma collettiva; il non avere il socio la qualità
di imprenditore commerciale; il permanere dellimpresa,
dopo lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente
al socio, a fronte del venir meno dellimpresa dopo
la cessazione dellesercizio da parte dellimprenditore
individuale o dopo la morte di questo.
1.4.
- E intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dallAvvocatura
generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria
di inammissibilità e infondatezza della questione.
Rileva
la difesa erariale che identica questione è già
stata dichiarata da questa Corte manifestamente infondata,
con ordinanza n. 919 del 1988, sul rilievo che la posizione
del socio illimitatamente responsabile non sarebbe comparabile,
in tema di fallimento, a quella dellimprenditore individuale,
in quanto il fallimento del socio è pronunciato in
via di estensione del fallimento della società, mentre
il fallimento dellimprenditore individuale consegue
ad una autonoma dichiarazione.
2.
- Con altra ordinanza, del 18 giugno 1998, di contenuto
sostanzialmente identico, lo stesso giudice ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, sempre in
riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione,
"dellart. 147, commi 1 e 2, r.d. 16 marzo 1942,
n. 267, in relazione all'art. 10 stesso r.d., nella parte
in cui prevedono che, in caso di fallimento della società
con soci a responsabilità illimitata, deve essere
dichiarato, contestualmente o successivamente, il fallimento
anche del socio illimitatamente responsabile, che abbia
ceduto la sua quota, pur dopo che sia decorso un anno dalla
iscrizione della cessione nel registro delle imprese".
Considerato
in diritto
1.
- I due giudizi, avendo ad oggetto questioni sostanzialmente
identiche, possono essere riuniti per essere definiti con
unica sentenza.
2.
- La questione non è fondata, nei sensi di seguito
precisati.
3.
- Il rimettente mostra di condividere - pur dubitando della
sua legittimità costituzionale - una interpretazione
dell'art. 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa),
secondo cui i soci illimitatamente responsabili delle società
di persone resterebbero soggetti al fallimento in via di
estensione del fallimento della società anche successivamente
alla perdita per qualunque causa (morte, recesso, esclusione,
cessione della quota) della loro qualità di soci.
E ciò senza alcuna limitazione di ordine temporale
ed all'unica condizione che l'insolvenza della società
riguardi obbligazioni da questa contratte prima dello scioglimento
del rapporto sociale.
Sarebbe,
pertanto, evidente la disparità di trattamento tra
il socio illimitatamente responsabile e l'imprenditore che,
nel caso di morte o di cessazione, per qualunque causa,
dell'esercizio dell'impresa può, invece, ai sensi
degli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, essere dichiarato
fallito solo entro un anno dalla cessazione dell'impresa.
Disparità che, secondo quanto ritenuto dal rimettente,
risulterebbe priva di ragionevole giustificazione e, pertanto,
lesiva dell'art. 3 della Costituzione.
4.
- La interpretazione sulla cui base il rimettente solleva
la questione di costituzionalità non è, tuttavia,
la sola compatibile con il testo e la ratio della disposizione
denunciata alla quale, come si vedrà, è possibile
attribuire un significato coerente con il rispetto dei precetti
costituzionali e che, perciò stesso, non solo può,
ma deve essere preferito dall'interprete (v. sentenze nn.
307 del 1996, 296 del 1995 e 149 del 1994; ordinanza n.
188 del 1998).
5.
- E' noto che nel sistema della legge fallimentare la dichiarazione
di fallimento presuppone la qualità di imprenditore
commerciale.
La
possibilità, prevista negli artt. 10 e 11 della legge
fallimentare, del fallimento dell'imprenditore commerciale
defunto o che per altra causa abbia cessato l'esercizio
dell'impresa non risulta, a ben vedere, inconciliabile con
tale presupposto, ma ne costituisce un necessario corollario
essendo volta ad evitare, come è stato rilevato,
che quella tutela dei creditori che la procedura fallimentare
è diretta ad assicurare sia rimessa alla mercé
della volontà di chi vi è sottoposto o al
caso.
L'assoggettabilità
a fallimento dell'imprenditore cessato o defunto postula,
tuttavia, in applicazione del generale principio di certezza
delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite
temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento.
Limite nella specie tanto più necessario considerando
le conseguenze che dalla declaratoria di fallimento discendono
non solo per chi ne è colpito, ma anche per i terzi
che con lui siano entrati in rapporto.
Si
spiega allora come il legislatore, nei citati artt. 10 e
11 della legge fallimentare, operando un bilanciamento tra
le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza
delle situazioni giuridiche, abbia fissato in un anno dalla
cessazione dell'impresa il termine entro il quale può
essere dichiarato il fallimento dellimprenditore cessato
o defunto.
6.
- Lart. 147 della legge fallimentare prevede in generale
il fallimento del socio illimitatamente responsabile della
società commerciale di persone in estensione del
fallimento della società. La giurisprudenza - come
ricorda il rimettente - è infatti univocamente orientata
nel senso che la dichiarazione di fallimento del singolo
socio discende dal fallimento della società e prescinde
dalla sussistenza, in capo a costui, dei presupposti di
cui agli artt. 1 e 5 della stessa legge, che vanno accertati
solo nei confronti della società.
Ritiene
altresì la prevalente giurisprudenza che il fallimento
della società comporti il fallimento anche degli
ex soci, sempreché linsolvenza della società
si riferisca ad obbligazioni da questa contratte prima dello
scioglimento del rapporto sociale.
Al
riguardo, non sembra possa dubitarsi che l'affermata assoggettabilità
al fallimento dei soci cessati o defunti - a prescindere
dalle differenti opinioni dottrinali e giurisprudenziali
sul suo più preciso fondamento normativo - costituisca
comunque espressione di quella medesima esigenza di tutela
dei creditori alla quale rispondono le norme degli artt.
10 e 11 della legge fallimentare riguardo allimprenditore
individuale.
L'ammissibilità
del fallimento dell'ex socio deve essere, tuttavia, circoscritta
entro un rigoroso limite temporale proprio al fine di non
pregiudicare, come si è detto precedentemente, l'interesse
generale alla certezza delle situazioni giuridiche.
Tale
limite, non risultando fissato dallart. 147, deve
essere rinvenuto allinterno del sistema della stessa
legge fallimentare e precisamente nella norma dettata dagli
artt. 10 e 11 che, in considerazione della sua ratio, assume
una portata generale ed è, in quanto tale, applicabile
anche al fallimento degli ex soci.
Sicché,
e conclusivamente, può affermarsi che la disposizione
denunciata va interpretata nel senso che, a seguito del
fallimento della società commerciale di persone,
il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti
o rispetto ai quali sia comunque venuta meno lappartenenza
alla compagine sociale può essere dichiarato solo
entro il termine, fissato dagli articoli 10 e 11 della legge
fallimentare, di un anno dallo scioglimento del rapporto
sociale.
Così
interpretata, la norma si sottrae alla censura di incostituzionalità.
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti
i giudizi,
dichiara
non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dellart. 147,
primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942,
n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), sollevata, in riferimento allart.
3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma
con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, l8 marzo 1999.
F.to Renato GRANATA, Presidente
Annibale
MARINI, Redattore
Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in cancelleria il 12 marzo 1999
Il Direttore della Cancelleria
F.to
DI PAOLA