Corte
Costituzionale, Ordinanza, 20 giugno 2002 n. 267, Fallimento
- termini per riabilitazione
ORDINANZA
N.267
ANNO
2002
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
-
Cesare RUPERTO Presidente
-
Riccardo CHIEPPA Giudice
-
Gustavo ZAGREBELSKY "
-
Valerio ONIDA "
-
Carlo MEZZANOTTE "
-
Fernanda CONTRI "
-
Guido NEPPI MODONA "
-
Piero Alberto CAPOTOSTI "
-
Annibale MARINI "
-
Franco BILE "
-
Giovanni Maria FLICK "
-
Francesco AMIRANTE "
-
Ugo DE SIERVO "
-
Romano VACCARELLA "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dellart.
143, numero 3), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, dellamministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso
con ordinanza emessa il 10 novembre 2000 dal Tribunale di
Siena sul ricorso proposto da Speranza Sergio, iscritta al
n. 627 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dellanno
2001.
Udito
nella camera di consiglio del 22 maggio 2002 il Giudice relatore
Annibale Marini.
Ritenuto
che il Tribunale di Siena, nel corso di un giudizio avente
ad oggetto la riabilitazione di un imprenditore fallito, con
ordinanza emessa il 10 novembre 2000 e depositata il 2 febbraio
2001, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 15,
16 e 41 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dellart. 143, numero 3), del regio decreto
16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
preventivo, dellamministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede
che, per la riabilitazione civile del fallito, debba comunque
decorrere il termine minimo di cinque anni dalla chiusura
del fallimento;
che
ad avviso del rimettente - la norma impugnata non consentirebbe
al giudice "di valutare lesistenza in concreto
delle condizioni sostanziali sottese alla pronuncia di riabilitazione
e ritenere non impeditive quelle cause o eventi che, ritardando
indefinitivamente lesaurimento della procedura concorsuale
(cause o eventi pure non imputabili al fallito), impediscono
che maturi il dies a quo di decorrenza del quinquennio";
che
la mancata concessione della riabilitazione civile impedirebbe
daltro canto allimprenditore fallito di esercitare
una qualsiasi attività commerciale, con pregiudizio
del diritto al lavoro e del diritto allesercizio di
impresa, tutelati dagli artt. 4 e 41 della Costituzione, e
con ingiustificata disparità di trattamento rispetto
allamministratore di società di capitali fallita,
non essendo questultimo colpito dalle incapacità
previste dagli artt. 42 e seguenti della legge fallimentare;
che
il protrarsi delle incapacità conseguenti alla dichiarazione
di fallimento, a causa di fatti indipendenti dalla condotta
del fallito, sarebbe stato del resto censurato anche dalla
Corte Europea dei Diritti dellUomo (recte: dalla Commissione
Europea dei Diritti dellUomo) in una decisione del 26
giugno 1996, quale ingiustificata ingerenza dello Stato nella
vita privata del cittadino;
che,
comunque, nel caso di specie, il lungo tempo trascorso dallinizio
della procedura renderebbe palese il contrasto della norma
censurata con gli artt. 15 e 16 della Costituzione.
Considerato
che la questione di legittimità costituzionale dellart.
143, numero 3), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, dellamministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), é
stata dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 3,
4 e 41 della Costituzione, con sentenza n. 549 del 2000;
che
in tale sentenza si sottolinea innanzitutto lerroneità
dellassunto secondo il quale la condizione di fallito
precluderebbe lo svolgimento di attività di impresa,
essendo viceversa pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza,
in mancanza di una norma di carattere generale che privi il
fallito della capacità di agire, la possibilità,
per questultimo, di esercitare una nuova impresa anche
nel corso della stessa procedura concorsuale, con beni non
aggredibili o comunque non aggrediti dal fallimento;
che
si rileva in ogni caso come la censura riferita ai parametri
di cui agli artt. 4 e 41 della Costituzione si appalesi del
tutto inconferente, "ove si consideri che la denunciata
illegittimità costituzionale deriverebbe semmai [...]
dalle singole norme che prevedono, quali effetti personali
della dichiarazione di fallimento, limitazioni di carattere
permanente alla possibilità di svolgimento di talune
particolari attività lavorative, e non certo dalla
norma impugnata, che al contrario disciplina le condizioni
per la rimozione di tali effetti";
che,
per quanto riguarda la possibile disparità di trattamento
tra falliti, in conseguenza della diversa durata delle procedure
fallimentari, si ribadisce nella suddetta pronuncia, in conformità
alla costante giurisprudenza di questa Corte, che "le
disparità di mero fatto, ossia quelle differenze di
trattamento che derivano da circostanze contingenti e accidentali,
non danno luogo a problemi di costituzionalità con
riferimento allart. 3 Cost. (sentenze n. 175 del 1997,
n. 417 del 1996, n. 295 e n. 188 del 1995)";
che,
quanto alla pretesa irragionevolezza del requisito rappresentato
dal necessario decorso del termine quinquennale dalla data
di chiusura del fallimento, si afferma nella medesima sentenza
che "la soluzione adottata, traducendosi nel porre la
chiusura della procedura fallimentare quale condizione della
misura premiale, aggiuntiva alla buona condotta del fallito,
costituisce in effetti esercizio non irragionevole dellampio
potere discrezionale di cui gode il legislatore nella determinazione
dei presupposti della misura stessa";
che
palesemente infondati sono daltro canto anche i profili
ulteriori di illegittimità prospettati dallodierno
rimettente;
che
lasserita disparità di trattamento tra imprenditore
individuale ed amministratore di società di capitali
a parte lobiettiva diversità tra le due
situazioni, tale da giustificare la non identità di
disciplina sarebbe, in ogni caso, ascrivibile, secondo
la prospettazione dello stesso rimettente, alle norme che
non estendono allamministratore di società fallita
le incapacità personali previste per limprenditore
individuale fallito e non certo alla norma impugnata che,
come si é detto, disciplina le condizioni per la rimozione
di tali incapacità;
che
la censura riferita agli artt. 15 e 16 della Costituzione
considerato che il fallimento del ricorrente nel giudizio
a quo risulta ormai chiuso, pur se da meno di cinque anni
- si fonda evidentemente sullerroneo presupposto che
i limiti alla segretezza della corrispondenza ed alla libertà
di movimento del fallito, di cui agli artt. 48 e 49 della
legge fallimentare, si protraggano fino alla pronuncia di
riabilitazione, mentre é invece pacifico che essi vengono
meno con la chiusura della procedura;
che,
infine, il parametro di cui allart. 2 della Costituzione
é evocato senza alcuna specifica motivazione;
che
la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata
sotto ogni profilo.
Visti
gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi
innanzi alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dellart. 143, numero 3), del regio decreto
16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
preventivo, dellamministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento
agli artt. 2, 3, 4, 15, 16 e 41 della Costituzione, dal Tribunale
di Siena, con lordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Annibale
MARINI, Redattore
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2002.
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