Corte
Costituzionale, Sentenza, 15 luglio 2003 n.240, Respinto
ogni dubbio di costituzionalità sulle due norme della
legge fallimentare (Artt. 6 e 8 regio decreto n. 267 del 1942)
che prevedono la dichiarabilità d'ufficio del fallimento
e l'obbligo per il giudice di riferire dell'insolvenza di
un imprenditore, emersa nel corso di un giudizio civile, al
tribunale competente per la dichiarazione di fallimento.
SENTENZA
N.240
ANNO
2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
-
Riccardo CHIEPPA Presidente
-
Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
-
Valerio ONIDA
-
Carlo MEZZANOTTE
-
Fernanda CONTRI
-
Guido NEPPI MODONA
-
Piero Alberto CAPOTOSTI
-
Annibale MARINI
-
Franco BILE
-
Giovanni Maria FLICK
-
Francesco AMIRANTE
-
Ugo DE SIERVO
-
Romano VACCARELLA
-
Paolo MADDALENA
-
Alfio FINOCCHIARO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 6
e 8 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata
e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con
n. 4 ordinanze del 18 (n. 2 ordinanze), del 29 e del 27 maggio
2002 della Corte d'appello di Venezia e del 5 ottobre 2002
del Tribunale di Saluzzo, rispettivamente iscritte ai nn.
348, 349, 368, 372 e 548 del registro ordinanze 2002 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 33, 34, 35,
prima serie speciale, dell'anno 2002 e nella edizione straordinaria,
prima serie speciale, del 27 dicembre 2002.
Visti gli atti di costituzione della Valdefin s.p.a., Lifegroup
s.p.a., Researchlife s.c.p.a., Dermalife s.p.a. e del Fallimento
Valdefin s.p.a., Fallimento Lifegroup s.p.a., Fallimento Researchlife
s.c.p.a. e Fallimento Dermalife s.p.a.;
udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2003 e nella camera
di consiglio del 7 maggio 2003 il Giudice relatore Romano
Vaccarella;
uditi gli avv.ti Elena Donzi per la Valdefin s.p.a., Lifegroup
s.p.a., Researchlife s.c.p.a., Dermalife s.p.a. e Nicola Picardi
per il fallimento Valdefin s.p.a., Fallimento Lifegroup s.p.a.,
Fallimento Researchlife s.c.p.a. e Fallimento Dermalife s.p.a.
Ritenuto
in fatto
1.- Nel corso di quattro giudizi di appello, promossi dalle
fallite società Valdefin s.p.a., Lifegroup s.p.a.,
Researchlife s.c.p.a. e Dermalife s.p.a. nei confronti dei
curatori dei rispettivi fallimenti, avverso le sentenze del
Tribunale di Padova, tutte in data 29 aprile 1999, con le
quali erano state rigettate le opposizioni alle dichiarazioni
di fallimento, la Corte d'appello di Venezia, con distinte
ordinanze, recanti identica motivazione, ha sollevato questione
di legittimità costituzionale, in riferimento all'articolo
111, secondo comma, della Costituzione, dell'articolo 6 del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata
e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in
cui consente la dichiarazione d'ufficio del fallimento dell'imprenditore,
in violazione del principio di terzietà del giudice.
1.1.- In punto di fatto, riferisce la Corte rimettente che
il fallimento delle quattro società appellanti era
stato dichiarato d'ufficio, con distinte sentenze in data
19 luglio 1996, a seguito di ispezione giudiziale dell'amministrazione
delle medesime società, disposta dal Tribunale di Padova
ai sensi dell'art. 2409 del codice civile con decreto del
28 giugno 1996, dei cui risultati il giudice delegato all'istruzione
della procedura aveva riferito al presidente della sezione,
il quale, a sua volta, lo aveva nominato giudice delegato
all'audizione dei legali rappresentanti, avviando, così,
il procedimento officioso.
Nei rispettivi atti di appello riferisce ancora la
rimettente - le fallite hanno eccepito l'illegittimità
costituzionale degli articoli 6 e 8 del richiamato regio decreto
n. 267 del 1942 (di seguito, legge fallimentare)
in riferimento agli artt. 3, 24 e 101 Cost.; in sede di discussione
della causa, poi, hanno evocato anche i principi dettati dall'art.
111 Cost., come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre
1999, n. 2(Inserimento dei principi del giusto processo nell'articolo
111 della Costituzione).
1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte veneziana
osserva che il principio della terzietà
del giudice, costituzionalmente sancito dal nuovo art. 111
Cost., richiede che il giudice non solo agisca come terzo,
ma appaia anche tale, «poiché la mancanza di
tale condizione esteriore è sufficiente a compromettere
la credibilità della sua funzione di garante della
corretta applicazione del diritto», e che detto principio
non può prescindere dalla distinzione tra il soggetto
che propone una domanda giudiziale e quello che sulla stessa
è chiamato a pronunciarsi.
Discende da ciò ad avviso della medesima Corte
territoriale l'inderogabilità del principio
della domanda e la non compatibilità, con la garanzia
costituzionale, dei procedimenti ad iniziativa dell'organo
giudicante.
In particolare essa rileva che l'art. 6 legge fall., nel prevedere
che il fallimento possa essere dichiarato d'ufficio - quando
il giudice competente alla pronuncia, nell'esercizio della
sua attività o per rapporto di altro giudice (a norma
dell'art. 8 legge fall.), acquisisca la conoscenza dello stato
di insolvenza di un imprenditore - consente l'avvio del procedimento
prefallimentare ad iniziativa dello stesso organo giudicante,
sulla base di una delibazione che non può essere puramente
formale, ma che implica necessariamente una valutazione sommaria
di merito dei presupposti legittimanti l'iniziativa medesima,
di modo che si dà avvio ad un giudizio che non appare
rispettoso del principio di terzietà.
Né prosegue la Corte rimettente la specialità
della procedura fallimentare, giustificata dalle connotazioni
pubblicistiche e dalle esigenze d'urgenza che le sono proprie,
può assumere rilevanza in relazione al rispetto dell'indicato
principio tutelato dalla Carta fondamentale: le esigenze sottese
all'iniziativa officiosa potrebbero trovare sufficiente tutela
nell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento affidata
al pubblico ministero dallo stesso art. 6 legge fall., alla
quale deve riconoscersi portata generale e non limitata alle
sole ipotesi considerate dal successivo art. 7 legge fall.
1.3.- Quanto alla rilevanza della questione, la Corte rimettente
osserva che essa discende da ciò, che anche in grado
di appello si verte sulla legittimità dell'iniziativa
d'ufficio che ha portato alla dichiarazione di fallimento
delle società appellanti, esclusa la quale l'appello
dovrebbe essere accolto.
1.4.- Si sono ritualmente costituite le società appellanti,
le quali con identici atti di costituzione, deducono, a sostegno
dell'eccezione di incostituzionalità, che:
a)
le norme sul fallimento d'ufficio trascurano le garanzie di
estraneità del giudice al giudizio, violando i principi
del giusto processo, recepiti anche dall'art. 6 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo;
b)
l'iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento,
benché riconducibile alla previsione dell'art. 2907
cod. civ., di fatto appare non rispettosa del diritto alla
difesa, garantito dall'art. 24 Cost., giacché a seguito
di essa non si viene a formare un contraddittorio vero e proprio,
in mancanza del sostanziale controinteressato, che è
il ceto creditorio;
c)
il procedimento officioso non si svolge nelle condizioni
di parità, volute dall'art. 111 Cost., poiché
il giudice procedente, a differenza dell'imprenditore, riveste
una posizione di autorità e di potere;
d)
l'organo giudicante, nelle due fasi in cui si articola il
procedimento (quella preliminare e quella conseguente all'iniziativa),
svolge una doppia cognizione sullo stesso oggetto, costituito
dall'esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento,
sulla base del medesimo materiale probatorio, senza che la
parte abbia alcuna possibilità di interferire attivamente
nell'ambito di una dialettica processuale;
e)
l'opposizione alla dichiarazione di fallimento non fornisce
una adeguata tutela successiva, poiché la sentenza
dichiarativa è munita di forza esecutiva, che non viene
meno se non con il passaggio in giudicato dell'eventuale sentenza
di revoca.
Concludono pertanto le appellanti per la dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell'art. 6 legge fall.,
nonché dell'art. 8 legge fall., essendo questa norma
strettamente connessa alla prima, a fronte dei principi espressi
negli artt. 3, 24 e 101 Cost. e ribaditi nell'art. 111 Cost.
1.5.- Si sono, altresì, ritualmente costituiti i curatori
dei fallimenti, chiedendo che la questione di legittimità
costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata.
1.6.- In prossimità dell'udienza, le curatele dei fallimenti
hanno depositato memorie di identico contenuto, illustrando
le ragioni per le quali hanno concluso per la dichiarazione
di inammissibilità o infondatezza della questione di
legittimità costituzionale de qua.
Osservano, in particolare, a sostegno dell'inammissibilità,
che:
a)
i fallimenti delle società Lifegroup s.p.a. e Dermalife
s.p.a., come si evince dalla motivazione delle rispettive
sentenze, sono stati dichiarati su istanze di più creditori
e non già di ufficio, sicché la questione relativamente
a detti fallimenti è irrilevante;
b)
i procedimenti per la dichiarazione dei fallimenti de quibus
sono stati instaurati a seguito di segnalazione ex art. 8
legge fall. (che, per i fallimenti Lifegroup s.p.a. e Dermalife
s.p.a., si è aggiunta alle istanze dei creditori),
proveniente da un giudice diverso dal tribunale che ha provveduto,
e quindi da un soggetto terzo; sicché non
potrebbe dirsi violato il principio di terzietà;
c)
l'art. 6 legge fall., oggetto della questione, non dovrebbe
essere applicato nei giudizi di appello pendenti dinanzi alla
Corte rimettente, in quanto la sua applicazione è già
avvenuta ad opera delle sentenze dichiarative dei fallimenti,
emesse dal Tribunale di Padova in data 19 luglio 1996: la
nullità delle anzidette sentenze, conseguente alla
dedotta illegittimità costituzionale, avrebbe dovuto
essere fatta valere con l'opposizione ex art. 18 legge fall.;
non essendo ciò avvenuto, la rilevabilità del
vizio è ormai definitivamente preclusa, sicché
nessuna influenza può avere l'eventuale pronuncia di
incostituzionalità sui giudizi di appello a quibus.
Quanto al merito della questione, le curatele osservano che
le deroghe al principio della domanda, consentite dall'art.
2907 cod. civ., non importano di per sé lesione dei
principi costituzionali di terzietà e imparzialità
del giudice, come già chiarito dalla Corte costituzionale
con la sentenza 31 marzo 1965, n. 17.
Al riguardo, in dottrina si è affermato che l'iniziativa
del processo è una sorta di variabile indipendente
che il legislatore, volta a volta, risolve, conferendone il
potere a determinati soggetti o addirittura all'ufficio.
D'altro canto, il nuovo art. 111 Cost. non ha innovato quanto
ai principi di terzietà e imparzialità del giudice,
giacché essi venivano ricavati, già prima della
legge cost. n. 2 del 1999, dall'esame consequenziale degli
artt. 3, 24, 25 e 101 Cost.
Ciò posto, l'art. 6 legge fall., come interpretato
dalla giurisprudenza di legittimità, non viola affatto
i principi di terzietà e imparzialità del giudice,
ora affermati (anche) dall'art. 111 Cost., avendo la Corte
di cassazione chiarito che «il potere di pronuncia di
ufficio previsto dall'art. 6 legge fall., non consente al
tribunale la dichiarazione di fallimento d'ufficio in base
ad una qualsiasi conoscenza ricevuta di uno stato di insolvenza»;
e, se è vero che le ipotesi di iniziativa d'ufficio
non possono restringersi ai soli casi espressamente previsti
dalla legge fallimentare (artt. 137, 138, 147, 162, 163, 173,
179, 181, 188, 192, 193), tuttavia è da ritenere che
il tribunale in tanto possa assumere un'iniziativa officiosa
in quanto «acquisisca la conoscenza di un'insolvenza
imprenditoriale nell'esercizio della sua ordinaria attività»,
ovvero attraverso il «rapporto di un altro giudice per
situazioni emerse in altro procedimento giurisdizionale»
(Cass. 9 marzo 1996, n. 1876).
2.- Nel corso di un procedimento per dichiarazione di fallimento,
promosso nei confronti della società Effebi di Fusco
Antonello e C. s.a.s., a seguito di rapporto ai sensi dell'art.
8 legge fall., il Tribunale di Saluzzo, con ordinanza del
5 ottobre 2002, solleva questione di legittimità costituzionale,
in riferimento all'art. 111, secondo comma, Cost., degli artt.
6 e 8 legge fall., nelle parti in cui prevedono, il primo,
che il fallimento possa essere dichiarato d'ufficio e, il
secondo, che il giudice debba riferire dell'insolvenza di
un imprenditore, emersa nel corso di un giudizio civile, al
tribunale competente per la dichiarazione di fallimento, anziché
al pubblico ministero presso detto tribunale, così
violando i principi del giusto processo, e segnatamente
quelli di terzietà e imparzialità del giudice,
sanciti dalla richiamata norma costituzionale.
2.1.- Il Tribunale rimettente espone, in punto di fatto, che
un giudice dello stesso ufficio giudiziario, investito di
una domanda per decreto ingiuntivo a carico della Effebi di
Fusco Antonello e C. s.a.s., ravvisava la sussistenza di elementi
sintomatici dello stato di insolvenza della debitrice e ne
riferiva al presidente, ai sensi del citato art. 8 legge fall.
Nominato il giudice relatore per l'audizione dei fallendi
e l'istruttoria di rito, il Tribunale, prima che si procedesse
a tali incombenti, con ordinanza del 16 marzo 2001, sollevava
questione di legittimità costituzionale nei termini
di cui innanzi. La Corte costituzionale, con ordinanza n.
411 del 10 luglio 2002 (depositata il 26 luglio 2002), dichiarava
inammissibile la questione. Preso atto di ciò, il giudice
relatore procedeva alla convocazione del socio accomandatario
Antonello Fusco e, su decreto collegiale, all'assunzione di
informazioni; all'esito, riferiva al collegio. Il Tribunale,
quindi, pronunciava l'ordinanza in epigrafe, con la quale
sollevava nuovamente identica questione di legittimità
costituzionale e disponeva la sospensione del procedimento
prefallimentare.
2.2.- Osserva il giudice rimettente che il principio ne procedat
iudex ex officio, affermato in via generale dall'art. 2907
cod. civ. e dagli artt. 99 e 112 del codice di procedura civile,
trova una delle sue più rilevanti eccezioni nella legge
fallimentare, laddove l'art. 6 prevede che il fallimento dell'imprenditore
commerciale in stato di insolvenza possa essere dichiarato
anche per iniziativa autonoma dello stesso tribunale territorialmente
competente, in carenza di esercizio della cosiddetta «azione
fallimentare» da parte di soggetti a tanto legittimati
(ossia da parte di uno o più creditori, dello stesso
debitore o del pubblico ministero), diversi dall'organo giudiziario
chiamato a decidere.
Osserva, ancora, che il potere di iniziativa officiosa del
tribunale è dotato dalla legge fallimentare di due
(non esclusivi) canali di attivazione: il primo è costituito
dall'obbligo ex art. 8 legge fall. del giudice civile di riferire
circa lo stato di insolvenza di un imprenditore, emerso nel
corso di un giudizio in cui questi sia parte; il secondo dall'obbligo
ex art. 13 legge fall. di trasmissione al presidente del tribunale
degli elenchi dei protesti cambiari per mancato pagamento.
Osserva, altresì, che andrebbero tenute distinte dalla
fattispecie prevista dall'art. 6 legge fall., in quanto caratterizzate
da una situazione di mera doverosità, e perciò
non integranti un vero e proprio esercizio officioso dell'«azione
fallimentare», le ipotesi di automatica
dichiarazione di fallimento, previste nella patologia del
concordato preventivo (artt. 162, secondo comma, 163, secondo
comma, 173, 179, 181, secondo comma, 186, terzo comma, legge
fall.) e dell'amministrazione controllata (artt. 192, terzo
comma, 193, secondo comma, legge fall.). Accanto a queste
andrebbero collocate le ipotesi di dichiarazione di fallimento
di grandi imprese soggette ad amministrazione straordinaria
ex art. 30 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova
disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi
imprese in stato di insolvenza, a norma dell'art. 1 della
legge 30 luglio 1998, n. 274), e di dichiarazione di stato
di insolvenza di imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa
ex art. 195, settimo comma, legge fall. e di imprese soggette
ad amministrazione straordinaria ex art. 3 del d.lgs. n. 270
del 1999.
2.3.- Ad avviso del rimettente, l'orientamento della giurisprudenza
di legittimità, secondo cui il tribunale, a norma dell'art.
6 legge fall., non può dichiarare d'ufficio il fallimento
in base alla conoscenza di uno stato di insolvenza in qualsiasi
modo ricevuta, ma com'è desumibile dall'art.
8 legge fall. - in tutte le ipotesi in cui esso tribunale
acquisisca la conoscenza dell'insolvenza di un imprenditore
nell'esercizio della sua ordinaria attività giurisdizionale,
ovvero grazie al rapporto di un altro giudice per situazioni
emerse in un diverso procedimento giurisdizionale (Cass. 9
marzo 1996, n. 1876), non può essere condiviso, perché,
da un lato, finisce col privare di ratio la norma dell'art.
13 legge fall., la quale, invece, è preordinata all'esercizio
officioso dell'«azione fallimentare» in assoluta
carenza sia di domanda di parte sia di previa attività
giurisdizionale, e, dall'altro, non tiene conto che la segnalazione
del giudice civile ex art. 8 legge fall. in sé non
è diversa da qualunque altra notizia di insolvenza
emersa aliunde. Sostiene, pertanto, che l'art. 6 legge fall.
va interpretato nel senso che l'iniziativa officiosa è
attivabile ogni qual volta il tribunale apprenda una notitia
decoctionis in qualunque modo, non quindi esclusivamente attraverso
il canale informativo dell'art. 8 legge fall., com'è
a suo avviso - costante indirizzo della giurisprudenza
di merito.
2.4.- Così delineato il quadro normativo di riferimento,
il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata la questione,
in quanto i principi del giusto processo, introdotti
nell'art. 111 Cost. dalla legge costituzionale 23 novembre
1999, n. 2 - già rintracciabili nella Carta costituzionale
attraverso una lettura combinata di altre norme (artt. 24,
25, 97, 101 e 106 Cost.) , hanno fatto sì che
ad «una presenza diffusa e non concettualmente espressa»
dei principi di terzietà e imparzialità del
giudice si sostituisse «l'attribuzione di autonoma dignità
costituzionale ai caratteri fondanti il giusto processo»;
sicché la violazione dell'imparzialità e della
terzietà del giudice assurge de iure condito a vizio
di incostituzionalità non recuperabile altrimenti.
Secondo il rimettente, pertanto, l'iniziativa officiosa del
tribunale per la dichiarazione di fallimento, prevista dall'art.
6 legge fall., confligge con i principi di terzietà
e imparzialità del giudice, «di cui il canone
nulla iurisdictio sine actione costituisce l'indefettibile
corollario logico»: il concetto di terzietà e
imparzialità del giudice è connaturato ad una
dialettica processuale tra una parte che dice e una che contraddice,
rispetto alle quali il giudice si trova in posizione di equidistanza,
e viene leso quando la stessa autorità che deve decidere
si è autonomamente attivata contro la parte cui il
provvedimento decisorio è destinato. I principi di
terzietà e imparzialità prosegue il giudice
rimettente «subiscono un'inevitabile compressione
laddove il giudice si comporti sostanzialmente come attore,
rischiando perciò di condividere pregiudizialmente
la prospettazione attribuita ab intra al caso da sé
posto al proprio vaglio». Per di più - egli aggiunge
il giudice non solo deve essere, ma deve apparire terzo
ed imparziale, e non può ammettersi che l'imprenditore
chiamato a difendersi davanti al tribunale che lo deve giudicare
possa anche soltanto dubitare della terzietà e della
imparzialità del tribunale medesimo.
Il giudice rimettente osserva, poi, che il paradigma del giusto
processo ex art. 111, secondo comma, Cost. risulta insidiato
anche sotto il profilo del contraddittorio, giacché,
dovendo il giudice essere terzo, non è
più ipotizzabile un processo giurisdizionale senza
(almeno) due parti contrapposte: ove manchi il contraddittorio
fra parti contrapposte, come avviene nel caso del procedimento
prefallimentare aperto d'ufficio ex artt. 6 e 8 legge fall.,
in cui di fronte al debitore non vi è un legittimo
contraddittore, il convincimento del giudice non può
dirsi immune da pre-giudizi, «proprio perché
matura in una logica autoreferenziale sottratta alla ginnastica
dialettica del contraddittorio coessenziale alla dinamica
del giusto processo».
Né prosegue ancora il giudice rimettente
si può superare il problema, ascrivendo il procedimento
prefallimentare alla cosiddetta giurisdizione volontaria
o qualificandolo come processo senza parti, dal
momento che la dichiarazione di fallimento comporta una notevole
capitis deminutio dell'imprenditore, la quale comprime valori
di rilievo costituzionale; sicché non può ammettersi
che ad essa si pervenga attraverso un'attività giurisdizionale
non modellata sui principi del giusto processo,
ancorché sussista un interesse pubblico alla sollecita
liquidazione coattiva dell'impresa insolvente e alla sua eliminazione
dal mercato.
2.5.- La prospettata censura dell'art. 6 legge fall.
ad avviso del giudice rimettente rende consequenziale
il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 8
legge fall., nella parte in cui dispone che il giudice civile
debba riferire dello stato di insolvenza al tribunale competente
per la dichiarazione di fallimento, anziché al pubblico
ministero presso di esso. Se a tale tribunale non può
riconoscersi il potere di iniziativa officiosa, sembra più
conforme al paradigma costituzionale del giusto processo
ritenere che la relazione del giudice civile debba essere
rivolta non al tribunale, ma al pubblico ministero, essendo
questo l'organo istituzionalmente preposto all'esercizio dell'azione
civile nei casi previsti dalla legge, ai sensi dell'art. 75,
primo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento
giudiziario), nonché all'esercizio dell'azione diretta
per fare eseguire ed osservare le leggi di ordine pubblico,
a norma dell'art. 73, secondo comma, dello stesso ord. giud.
2.6.- Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a
quo osserva che, essendo stata espletata l'istruttoria, la
pronuncia sull'insolvenza, segnalata ex art. 8 legge fall.,
è condizionata alla soluzione del prospettato dubbio
di costituzionalità.
Considerato
in diritto
1.- I giudizi devono essere riuniti per la loro evidente connessione.
La Corte d'appello di Venezia dubita della legittimità
costituzionale del solo art. 6 del regio decreto 16 marzo
1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), laddove il Tribunale di Saluzzo dubita della
legittimità costituzionale anche dell'art. 8 dello
stesso regio decreto (di seguito, legge fallimentare),
entrambi in riferimento all'art. 111, secondo comma, della
Costituzione.
Il dubbio investe l'art. 6 legge fall., nella parte in cui
prevede che il fallimento possa essere dichiarato d'ufficio
dal tribunale, e l'art. 8 legge fall., in quanto prevede che
il giudice debba riferire dell'insolvenza di un imprenditore,
emersa nel corso di un giudizio civile, al tribunale competente
per la dichiarazione di fallimento, anziché al pubblico
ministero presso detto tribunale, così derogando al
principio della domanda, costituente «indefettibile
corollario logico» dei principi di terzietà e
imparzialità del giudice.
2.- Preliminarmente, devono essere esaminate le eccezioni
proposte dalla difesa delle curatele dei fallimenti, volte
a far dichiarare inammissibile la questione sollevata dalla
Corte d'appello di Venezia.
Tali eccezioni sono infondate.
Quella secondo la quale i fallimenti delle società
Lifegroup s.p.a. e Dermalife s.p.a. sarebbero stati dichiarati
anche su istanza di creditori e, pertanto, non d'ufficio
non considera che i procedimenti autonomamente promossi
dai creditori non risultano formalmente riuniti a quelli promossi
d'ufficio e sfociati nelle sentenze dichiarative di fallimento.
E' vero che nelle due sentenze dichiarative si fa cenno alle
istanze dei creditori, ma del tutto irritualmente, come confermano
le circostanze che gli atti di opposizione a tali sentenze
sono stati notificati soltanto ai curatori, che in tali giudizi
di opposizione non è stata disposta l'altrimenti doverosa
(ex art. 18, terzo comma, legge fall.) integrazione del contraddittorio
nei confronti dei creditori richiedenti e che,
infine, le sentenze di rigetto delle opposizioni non sono
state emesse (anche) nei confronti di tali creditori.
Ne consegue che anche i fallimenti della Lifegroup s.p.a.
e della Dermalife s.p.a. devono ritenersi dichiarati d'ufficio.
Anche l'eccezione, secondo la quale la questione della nullità
delle sentenze dichiarative di fallimento avrebbe dovuto essere
fatta valere con l'opposizione ex art. 18 legge fall. e, pertanto,
sarebbe preclusa in sede di appello sub specie di pretesa
illegittimità costituzionale, deve essere respinta,
(se non altro) perché dagli atti risulta che l'illegittimità
della dichiarazione officiosa fu dedotta dalle società
fallite con l'opposizione alla sentenza dichiarativa (anche
ma ciò è irrilevante denunciando
il contrasto con gli artt. 3, 24 e 101 Cost., non essendo
ancora intervenuta la legge cost. n. 2 del 1999).
3.- Le questioni di legittimità costituzionale poste
dai giudici rimettenti non sono fondate.
3.1.- Evidentemente consapevoli che questa Corte ha in passato
più volte statuito che, di per sé, eccezioni
alla «regola ne procedat iudex ex officio non importano
lesione del principio della imparzialità del giudice»
(sentenze n. 17 del 1965; n. 123 del 1970; n. 148 del 1996)
e, anzi, ha espressamente riconosciuto la legittimità
costituzionale di iniziative officiose (sentenza n. 133 del
1993) e, talvolta, le ha ripristinate (sentenze n. 41 del
1985 e n. 46 del 1995), sancendone la compatibilità
con il valore del giusto processo, entrambi i
giudici rimettenti muovono dalla premessa che il nuovo art.
111 Cost., avendo attribuito «autonoma dignità
costituzionale ai caratteri fondanti il giusto processo»
(in precedenza allo stato diffuso in altre norme
costituzionali), avrebbe reso assoluti i valori della terzietà
e della imparzialità, e, pertanto, rilevante la loro
violazione pur se siano rispettate le garanzie del contraddittorio
e del diritto di difesa.
3.2.- Questa Corte che, anteriormente alla legge cost.
n. 2 del 1999, aveva ripetutamente fatto riferimento al principio
di imparzialità-terzietà come connaturale alla
funzione giurisdizionale (sentenze n. 93 del 1965; n. 41 del
1985; n. 148 del 1996; n. 351 del 1997; n. 363 del 1998)
ha, poi, chiarito che, quanto alla tutela di tale principio,
il novellato art. 111 Cost. non introduce alcuna sostanziale
innovazione o accentuazione (ordinanze n. 75 e n. 168 del
2002); sicché meramente nominalistico appare l'argomento
che, in senso contrario, vorrebbe dedursi dalla locuzione
giudice terzo e imparziale, quasi che essa sia
espressiva di un nuovo valore di livello costituzionale e
non già la sintesi di una serie di valori che connotano
il modo in cui, nel suo complesso, l'ordinamento deve far
sì che il giudice si ponga di fronte alla res iudicanda.
4.- Certamente contraria ma altrettanto certamente
già prima della legge cost. n. 2 del 1999 al
principio di imparzialità-terzietà è
la fusione, in un unico soggetto, delle funzioni del domandare
e del giudicare sulla domanda, ma ciò non implica la
costituzionalizzazione del processual-civilistico principio
della domanda e il bando di qualsiasi iniziativa officiosa.
E, in effetti, le ordinanze di rimessione rivelano chiaramente
come il principio della domanda sia, da esse stesse,
assunto esclusivamente nella accezione (ben diversa da quella,
processual-civilistica appunto, che ha come suo corollario
il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato)
per cui soltanto l'impulso iniziale al procedere deve provenire
da un soggetto diverso da quello chiamato a giudicare.
4.1.- La circostanza che, ad espresso avviso del Tribunale
di Saluzzo (e, implicitamente, anche della Corte veneziana),
non siano sospettabili di illegittimità costituzionale
le numerose ipotesi in cui la legge fallimentare parla di
dichiarazione d'ufficio del fallimento in relazione al concordato
preventivo (artt. 162, 163, 173, 179, 181, 186 legge fall.)
e all'amministrazione controllata (artt. 188, 192 e 193 l.
fall.) è significativa del modo in cui è inteso
il principio della domanda: il tribunale, che,
respingendo la domanda di ammissione all'amministrazione controllata
o al concordato preventivo, dichiara d'ufficio il fallimento,
certamente pronuncia extra petita, e, però, lo farebbe
legittimamente perché investito di una situazione (comprensiva
del presupposto oggettivo del fallimento: l'insolvenza, ma
dedotta o come temporanea difficoltà di adempiere o
come più proficuamente risolvibile con il concordato)
prospettatagli dall'imprenditore; sicché vi sarebbe
pur sempre ab externo l'impulso all'esercizio di poteri che
il tribunale, tuttavia, non è tenuto a mantenere nell'alveo
segnato dalla domanda di parte. E quel medesimo impulso iniziale
dell'imprenditore giustifica, in assenza di qualsiasi domanda
ulteriore, la dichiarabilità d'ufficio del fallimento
in pendenza della procedura ora a titolo lato sensu sanzionatorio
(artt. 173 e 186 legge fall.), ora prendendo atto del dissenso
del ceto creditorio (art. 179 legge fall.), ora perfino andando
di contrario avviso rispetto ai creditori (art. 181 legge
fall.).
Il principio della domanda, al quale fanno riferimento
i rimettenti, e che sarebbe costituzionalizzato dal novellato
art. 111 Cost., dunque, si identifica con un qualsiasi atto
di impulso, proveniente da soggetto diverso dal giudice, che
sottoponga al di lui giudizio una situazione fattuale potenzialmente
riconducibile (anche se dall'istante non ricondotta) ai presupposti
del fallimento: se l'imprenditore che propone il concordato
preventivo esplicita lo stato d'insolvenza in cui versa, altrettanto
farebbe, pur se qualificandolo come temporanea difficoltà
di adempiere, l'imprenditore che chiede di essere ammesso
all'amministrazione controllata, sicché le due ipotesi
hanno in comune l'estraneità dell'impulso iniziale
rispetto al giudice e si differenziano soltanto per la diversa
qualificazione giuridica che l'istante dà (nell'istanza
di ammissione all'amministrazione controllata) ad una situazione
di fatto che il giudice è libero di valutare e qualificare
come insolvenza.
4.2.- Così delimitato il significato del principio
della domanda, al quale alludono ritenendolo
costituzionalizzato dall'art. 111 Cost.
i giudici rimettenti, è evidente che si sottrae alla
censura di illegittimità costituzionale ogni ipotesi
in cui (come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità)
la dichiarazione di fallimento intervenga a conclusione di
un procedimento comunque avviato da soggetto diverso dal giudice
decidente: dal creditore sedicente o non legittimato o rinunciante,
ovvero dal pubblico ministero.
4.3.- E' opinione dominante in giurisprudenza e in dottrina
che l'art. 8 legge fall. comprenda, oltre a quella in cui
altro giudice riferisca dell'insolvenza al tribunale (v. 4.4.),
l'ipotesi in cui lo stato d'insolvenza di un imprenditore
emerga davanti al tribunale competente per la dichiarazione
di fallimento; sicché in questa ipotesi (diversa dalla
vicenda che ha originato la questione sollevata dal Tribunale
di Saluzzo, ma almeno apparentemente coincidente
con quanto denunciato dalla Corte d'appello di Venezia) si
pone il problema della identità del giudice che assume
l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento con il giudice
che su tale iniziativa è chiamato a pronunciarsi.
Questa Corte ha più volte osservato che «il principio
di imparzialità-terzietà della giurisdizione
ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque
tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro,
può e deve trovare attuazione con le peculiarità
proprie di ciascun tipo di procedimento» (sentenza n.
387 del 1999), sicché l'identità del giudice
può coniugarsi con «la sua veste giurisdizionale
e quindi super partes», senza far sì che il giudice
agisca, e appaia, come l'attore del procedimento sul quale
giudica (sentenza n. 148 del 1996).
Il costante orientamento di questa Corte, in altri termini,
è nel senso che anche l'iniziativa officiosa
prevista dal legislatore in ragione di peculiari esigenze
di effettività della tutela giurisdizionale
non lede il fondamentale principio di imparzialità-terzietà
del giudice, quando il procedimento è strutturato in
modo che, ad onta dell'officiosità dell'iniziativa,
il giudice conservi il fondamentale requisito di soggetto
super partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti.
Tale fondamentale requisito del giudice sarebbe certamente
compromesso ove al tribunale fallimentare fosse consentito,
come pure in passato si è ritenuto, di promuovere il
procedimento prefallimentare sulla base di una notitia decoctionis
comunque acquisita, ma non può dirsi compromesso ove
la conoscenza di una situazione di fatto in ipotesi riconducibile
allo stato di insolvenza derivi (non già da quella
che, attesa l'informalità della fonte, ben può
definirsi scienza privata del giudice, bensì) da una
fonte qualificata, perché formalmente acquisita nel
corso di un procedimento, del quale il giudice sia, come tale,
investito: come conferma la ben diversa formulazione degli
artt. 6 e 8 legge fall. rispetto alla corrispondente norma
(art. 688) del codice di commercio (che autorizzava il tribunale
a dichiarare d'ufficio il fallimento «se sia notorio
o se per altri mezzi siavi sicura notizia che un commerciante
abbia cessato di fare i suoi pagamenti»).
In tale ipotesi, e solo in tale ipotesi, il giudice investito
di un procedimento, del quale sia parte (o al quale, comunque,
partecipi) l'imprenditore, può legittimamente acquisire
la conoscenza di una situazione di fatto, delibata positivamente
la quale deve avviare la procedura prefallimentare e giudicare,
dopo aver consentito all'imprenditore il pieno esercizio del
diritto di difesa in relazione ai fatti delibati, della fondatezza
della notitia decoctionis.
Infatti il tribunale, acquisita, nelle forme di legge, la
notizia di una situazione di fatto nella quale si profilano
i presupposti di cui agli artt. 1 e 5 legge fall. e delibatane
la consistenza, è tenuto ad aprire il procedimento
per accertare la sussistenza degli anzidetti presupposti,
senza avere alcuna discrezionalità al riguardo, essendogli
del tutto preclusa dalla legge ogni valutazione di opportunità:
in simile ipotesi, quindi, l'iniziativa officiosa è
doverosa, non meno che nelle specifiche ipotesi
(sub 4.1.) di dichiarazione di fallimento d'ufficio previste
dalla legge fallimentare.
Le prevalenti finalità pubblicistiche, che caratterizzano
la procedura fallimentare (sentenze n. 141 e n. 142 del 1970,
n. 110 del 1972, n. 148 del 1996), impongono al tribunale
di attivarsi anche in assenza di un'iniziativa di parte, dando
così attuazione alla volontà della legge, che
ha già valutato, preventivamente e una volta per tutte,
l'interesse pubblico sotteso; di tal che non può dubitarsi
che il tribunale, procedendo d'ufficio, «agisca non
come attore, ma nella sua veste giurisdizionale e quindi super
partes» (sentenza n. 148 del 1996).
Ed è solo all'esito della successiva attività
istruttoria, da espletarsi nel pieno rispetto delle garanzie
difensive e del principio del contraddittorio, che può
pervenirsi all'accertamento dei presupposti del fallimento:
è da escludere, dunque, che l'imprenditore, convocato
in camera di consiglio, possa trovarsi di fronte ad un giudice
che abbia già maturato il suo convincimento (il «convincimento
di un giudice-attore», per usare ancora un'espressione
della sentenza n. 148 del 1996), questo dovendo formarsi dopo,
non già prima, dell'atto di iniziativa officiosa.
L'esigenza che il tribunale sia formalmente investito di un
procedimento dal quale emerga lo stato di insolvenza giustifica
pienamente oltre alla dichiarazione d'ufficio connessa
a procedure concorsuali minori (retro 4.1.) la estensione
d'ufficio del fallimento della società ai soci illimitatamente
responsabili (art. 147 legge fall.), mentre la medesima conclusione
non può essere tratta a proposito dell'art. 13 legge
fall.: tale norma, infatti, si limita a prevedere che il presidente
del tribunale come tale non investito di alcuna ordinaria
attività giurisdizionale riceva l'elenco
dei protesti levati nei quindici giorni precedenti, e, pertanto,
si limita a far acquisire un elemento istruttorio, utilizzabile
(dal collegio) ove sia legittimamente iniziato il procedimento,
disponendo l'audizione del fallendo (ordinanza n. 411 del
2002).
Analogamente, non può dirsi legittimamente investito
di un procedimento il singolo magistrato componente di un
collegio, se al collegio soltanto la legge riconosce la qualità
di giudice e se il collegio soltanto, quindi, può legittimamente
acquisire e legittimamente delibare la notitia decoctionis
(nel caso di cui alle ordinanze di rimessione nn. 348, 349,
368 e 372 del 2002, fornita da un ispettore nominato ex art.
2409, secondo comma, cod. civ.): non può certamente
riconoscersi - ove la legge non riservi al singolo componente
del collegio (ad es., al giudice istruttore) una sua propria
funzione - né al relatore né al presidente del
collegio, uti singuli, la qualità di giudice, sicché
soltanto al collegio spetta il potere di disporre l'audizione
del fallendo, in tal modo determinando l'inizio del procedimento.
E' del tutto ovvio, peraltro, che l'eventuale iniziativa adottata
da singoli magistrati, e non già dal giudice (id est,
dal collegio), non pone questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 6 e 8 legge fall., bensì questioni di legittimità
del procedimento devolute al giudice di merito.
4.4.- A maggior ragione si sottrae alla censura d'incostituzionalità
l'ipotesi (esplicitamente disciplinata dall'art. 8 legge fall.)
in cui un giudice civile diverso dal tribunale competente
per la dichiarazione di fallimento riferisca a quest'ultimo
dell'insolvenza emersa nel corso di un giudizio civile davanti
a lui pendente e del quale sia parte l'imprenditore insolvente.
Non è revocabile in dubbio, infatti, che in questa
ipotesi si è in presenza di una notitia decoctionis
non soltanto formalizzata, ma acquisita ab externo,
sicché è escluso in radice che il tribunale,
essendo chiamato ad accertare con pienezza di poteri l'esistenza
dei presupposti (soggettivo e oggettivo) che altro giudice
- investito come tale di un procedimento giurisdizionale -
si è limitato a sommariamente delibare, possa assumere,
anche solo apparentemente, la veste di attore.
5.- In conclusione, gli artt. 6 e 8 legge fall., correttamente
interpretati, non confliggono con la denunciata norma della
Costituzione, rientrando nella discrezionalità del
legislatore riconoscere al giudice il potere officioso sopra
descritto ovvero disporre che il giudice riferisca in ogni
caso dell'insolvenza, perché si attivi, al pubblico
ministero.
PER QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell'articolo 6 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), e
degli articoli 6 e 8 del medesimo regio decreto, sollevate,
in riferimento entrambe all'articolo 111, secondo comma, della
Costituzione, rispettivamente dalla Corte d'appello di Venezia
e dal Tribunale di Saluzzo con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 30 giugno 2003.
F.to:
Riccardo
CHIEPPA, Presidente
Romano
VACCARELLA, Redattore
Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 15 luglio 2003.
Il
Direttore della Cancelleria
F.to:
DI PAOLA
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