Corte
Costituzionale sentenza 39 del 2008
Fallimento,iscrizione pubblici registri, perdita diritti civili,riabilitazione
"dichiara l'illegittimità costituzionale degli
articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
(Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel
testo anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo
9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della
legge 14 maggio 2005, n. 80), in quanto stabiliscono che le
incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione
di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura
concorsuale."
SENTENZA
N. 39
ANNO 2008
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli
50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel
testo anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legislativo
9 gennaio 2006, n. 5, promosso dal Tribunale amministrativo
regionale dell'Emilia-Romagna, sezione di Parma, sul ricorso
proposto da B. R. contro la Provincia di Reggio Emilia ed
altra, con ordinanza del 20 febbraio 2007, iscritta al n.
426 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno
2007.
Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice
relatore Francesco Amirante.
Ritenuto in fatto
Il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna,
sezione di Parma, con ordinanza del 20 febbraio 2007, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 2, 3, 41 e 117 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale degli articoli
50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nelle
parti in cui, nel testo anteriore alle modifiche introdotte
dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, fanno automaticamente
derivare dalla dichiarazione di fallimento e dalla conseguente
iscrizione nel pubblico registro dei falliti la perdita dei
diritti civili dell'interessato fino alla pronuncia giudiziale
di cancellazione dell'iscrizione nel registro, ancorché
questi si trovi nella condizione di richiedere la riabilitazione
civile.
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio
instaurato da un farmacista per l'annullamento dalla determinazione
dirigenziale n. 392 del 9 maggio 2006, a firma del dirigente
dell'Area Welfare della Provincia di Reggio Emilia, con la
quale il ricorrente è stato escluso dalla graduatoria
finale di un concorso pubblico per il conferimento di due
sedi farmaceutiche - nel quale si era classificato secondo
nella graduatoria di merito - in quanto, in sede di verifica
del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l'amministrazione
aveva accertato che l'interessato era stato dichiarato fallito
con sentenza del 1986 e risultava tuttora iscritto nel pubblico
registro dei falliti, non avendo mai richiesto la riabilitazione
cui avrebbe avuto pieno titolo, essendosi il fallimento chiuso,
appunto, nel 1986.
Il giudice a quo riferisce che l'interessato ha impugnato
il suddetto provvedimento sotto molteplici profili, la maggior
parte dei quali privi di fondamento.
Sottolinea, tuttavia, il remittente che alcune doglianze del
ricorrente sono incentrate sul fatto che la Corte europea
per i diritti dell'uomo ha più volte censurato la normativa
in materia di pubblico registro dei falliti e di riabilitazione
- considerandola, sotto vari aspetti, in contrasto con la
Convenzione per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata con la legge 8 agosto 1955 n. 848
(Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale
alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952)
- sicché, a suo dire, ciò avrebbe dovuto indurre
a disapplicare la normativa statale incompatibile con la Convenzione,
ovvero a promuovere il sindacato di costituzionalità
sull'omesso pieno adeguamento della disciplina nazionale alla
Convenzione medesima. Al riguardo, il remittente ricorda che
l'orientamento giurisprudenziale invocato dal ricorrente si
desume da una serie di sentenze della Corte di Strasburgo
del 2006 che, facendo riferimento all'art. 8 della CEDU, hanno
censurato il sistema normativo di cui agli artt. 50 e 142
della legge fallimentare, perché, quando era in vigore,
assoggettava automaticamente il fallito alle relative incapacità
personali (fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione
dell'iscrizione nel registro) prescindendo dal concreto apprezzamento
delle specifiche condizioni soggettive e, quindi, dalla necessaria
applicazione discrezionale delle relative misure.
Ciò assume, nella specie, ad avviso del remittente,
particolare importanza in quanto mette in discussione il fondamento
stesso dell'istituto giuridico in ragione del quale il ricorrente
è risultato carente del requisito del godimento dei
diritti civili, di talché appare necessario verificare
l'efficacia esercitata, nell'ordinamento interno, dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo e, soprattutto,
la posizione occupata dalla CEDU nella gerarchia delle fonti.
Al riguardo, il remittente - uniformandosi all'orientamento
espresso dalla Corte di cassazione e tenendo conto degli artt.
13, 46 e 56 della CEDU nonché della legge 9 gennaio
2006, n. 12 - ritiene che, pur essendo precettivo il riconoscimento
dei diritti garantiti dalla Convenzione suddetta, tuttavia
le relative modalità applicative sono rimesse alla
legislazione interna e le norme della Convenzione non sono
assimilabili ai regolamenti comunitari, sicché non
operano immediatamente nell'ordinamento interno né
i diritti da essa garantiti trovano diretta tutela in sede
comunitaria se la normativa nazionale censurata non rientra
nel campo di applicazione del diritto comunitario. D'altra
parte, osserva il giudice a quo, dopo la riforma dell'art.
117 Cost. anche la giurisprudenza costituzionale sembra orientata
ad attribuire rilievo indiretto alle norme della Convenzione
(sentenza n. 445 del 2002), così negando implicitamente
ogni eventualità di abrogazione automatica o di disapplicazione
giudiziale delle leggi interne in contrasto con le disposizioni
di rango sovranazionale. Conseguentemente, il potere di far
venire meno le norme primarie difformi dalla CEDU nel nostro
ordinamento rimane riservato al legislatore statale, a quello
regionale e alla Corte costituzionale, in sede di sindacato
di costituzionalità effettuato soprattutto con riguardo
al nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost. Rispetto
a tale sindacato le disposizioni della CEDU operano quali
norme interposte, attraverso l'interpretazione che ne dà
la Corte di Strasburgo (loro giudice naturale) e, con riguardo
alle norme interne contrastanti con la Convenzione anteriori
all'entrata in vigore della riforma del menzionato art. 117
Cost., si verifica una situazione di illegittimità
costituzionale sopravvenuta, derivante dall'omesso adeguamento
della disciplina nazionale alla fonte sovranazionale.
In questa situazione - osserva il remittente - essendo da
escludere sia che il giudice comune possa disapplicare le
norme statali che la Corte di Strasburgo ha dichiarato incompatibili
con l'art. 8 della CEDU sia che le suddette norme possano
considerarsi direttamente abrogate per effetto del contrasto
con la disciplina sovranazionale, non resta altro che investire
questa Corte della presente questione di legittimità
costituzionale (la quale, contrariamente a quanto sostenuto
dal ricorrente, coinvolge solo indirettamente l'art. 4, comma
2, della legge 8 novembre 1991, n. 362).
Quanto al merito della questione, il TAR ricollega l'ipotizzata
violazione dell'art. 117 Cost. al fatto che il legislatore
nazionale non ha tempestivamente provveduto a conformare la
disciplina interna alla CEDU, laddove questa Convenzione tutela
il diritto della persona a non essere sottoposta ad interferenze
arbitrarie nella vita privata (art. 8). Tale diritto fondamentale
- come affermato dalla Corte di Strasburgo con sentenze che,
ancorché successive all'abrogazione delle disposizioni
interne, assumono rilievo anche nella presente fattispecie
in quanto di natura dichiarativa - non tollera un sistema
basato sull'automatica sottoposizione dei falliti ad un regime
di incapacità personali svincolato dalla preventiva
valutazione giudiziale delle singole posizioni e operante
per un lungo lasso di tempo dopo la chiusura della procedura
concorsuale fino alla sentenza di riabilitazione civile.
Con riguardo, poi, all'ipotizzata violazione degli artt. 2,
3 e 41 Cost., il TAR remittente sottolinea come il fatto che
l'automatismo insito nel regime delle incapacità personali
del fallito operi - oltre tutto per molto tempo dopo la chiusura
del fallimento - al di fuori di una preventiva verifica delle
singole condizioni soggettive ed oggettive e, quindi, a prescindere
da un appropriato rapporto di adeguatezza con le peculiarità
dei singoli casi concreti, ovvero da una graduale e ponderata
applicazione delle relative misure si traduca in: a) un arbitrario
sacrificio del diritto alla riservatezza della sfera privata
della persona, data l'assenza di un preliminare accertamento
delle relative restrizioni; b) un'oggettiva lesione del principio
di uguaglianza, consistente nella previsione di un identico
regime di incapacità personali per tutti i soggetti,
senza che sia attribuito alcun rilievo alla diversa portata
delle rispettive vicende fallimentari; c) un'indiscriminata
limitazione del diritto di iniziativa economica, ostacolato,
nel suo esplicarsi, da vincoli che non tengono conto ex ante,
caso per caso, dell'effettivo pregiudizio dei valori protetti
dall'art. 41, secondo comma, Cost.
Per quel che si riferisce alla rilevanza, il TAR pone l'accento
sul fatto che il provvedimento impugnato è stato adottato
sul presupposto della perdurante iscrizione del ricorrente
nel pubblico registro dei falliti, sicché l'eventuale
espunzione dall'ordinamento delle disposizioni impugnate comporterebbe
le cessazione, con effetto ex tunc, del regime delle incapacità
personali addotto a fondamento della carenza del requisito
del possesso dei diritti civili. Né assume alcun rilievo
in contrario la circostanza che medio tempore e, precisamente,
a decorrere dal 16 gennaio 2006 - per effetto dell'art. 47
del d.lgs. n. 5 del 2006, che ha abrogato l'art. 50 del r.d.
n. 267 del 1942, e dell'art. 128 dello stesso decreto, che
ha sostituito il titolo II, capo IX, della legge fallimentare
- il pubblico registro dei falliti è stato soppresso
e l'istituto della riabilitazione è venuto meno (sicché,
da quella data, è stata eliminata la preclusione legale
al godimento dei diritti civili attualmente in discussione),
visto che la presente fattispecie risulta tuttora disciplinata
dalla precedente normativa, in quanto essa era ancora in vigore
quando si è svolta la fase procedimentale nel corso
della quale occorreva maturare il possesso dei requisiti di
ammissione al concorso.
Sottolinea poi il giudice a quo che il ricorrente, pur avendo
a tempo debito omesso di proporre istanza di riabilitazione,
appare, tuttavia, pienamente legittimato ad invocare la caducazione
di un sistema normativo che ne ha causato l'automatica sottoposizione
al regime di incapacità personali del fallito e che,
di conseguenza, gli ha impedito di conseguire il conferimento
della sede farmaceutica in esito al concorso in oggetto.
E', infine, da escludere la possibilità di disapplicazione
della disciplina censurata per contrasto con le norme comunitarie
che, ad avviso del ricorrente, recherebbero disposizioni sostanzialmente
corrispondenti alle prescrizioni della CEDU che vengono, nella
specie, in considerazione. Infatti, da un lato, le direttive
comunitarie invocate non rientrano tra quelle self executing
e, d'altra parte, l'asserita violazione del generale principio
della libera concorrenza - rappresentata, in ipotesi, dal
regime discriminatorio riservato ai cittadini italiani falliti
rispetto a quelli degli altri Paesi dell'Unione europea -
neppure può indurre alla richiesta disapplicazione,
poiché la presunta discriminazione in argomento non
costituisce, di per sé, causa di illegittimità
comunitaria, in quanto i singoli Stati della UE godono di
un ambito di autonomia che esclude un'assoluta uniformità
di regime delle condizioni legali di accesso alle attività
economiche.
Il remittente riferisce, inoltre, che l'istanza cautelare
del ricorrente, respinta dal giudice di primo grado, è
stata viceversa accolta dal Consiglio di Stato, sezione V,
con ordinanza del 3 ottobre 2006, n. 5065.
Considerato in diritto
1.- Il TAR per l'Emilia-Romagna, sezione di Parma, in riferimento
agli articoli 2, 3, 41 e 117 della Costituzione, ha sollevato,
«nei sensi di cui in motivazione», questione di
legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142
del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata
e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore
alle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.
Il remittente espone in fatto e osserva in punto di rilevanza
che è stato chiamato a giudicare sulla legittimità
della determinazione n. 382 del 9 maggio 2006, a firma del
dirigente dell'Area Welfare Locale della Provincia di Reggio
Emilia, con la quale il ricorrente era stato escluso dalla
graduatoria finale del concorso per il conferimento di due
sedi farmaceutiche - bandito dalla Provincia di Reggio Emilia
il 20 maggio 2003 - pur essendosi classificato al secondo
posto della graduatoria di merito, in quanto, in sede di verifica
del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l'amministrazione
aveva accertato che egli era stato dichiarato fallito nel
1986 dal Tribunale di Termini Imerese e figurava ancora iscritto
nell'albo dei falliti, pur essendo trascorsi molti anni dalla
chiusura della procedura concorsuale (avvenuta nello stesso
1986) e avendo, quindi, la facoltà di promuovere il
giudizio di riabilitazione civile, al fine di ottenere la
cancellazione dal suddetto albo.
Il remittente rileva, in particolare, che, secondo la normativa
censurata - vigente alla data di scadenza del termine per
la presentazione delle domande per la partecipazione al concorso
di cui si tratta e, pertanto, da applicare nel caso di specie,
nonostante la sopravvenuta abrogazione dell'art. 50 del r.d.
n. 267 del 1942, con conseguente soppressione dell'albo dei
falliti, ad opera dell'art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, entrato
in vigore il 16 gennaio 2006 - allo stato di fallito era automaticamente
connessa la perdita dei diritti civili e politici (permanente
fino al passaggio in giudicato della sentenza di riabilitazione
civile, emanata ai sensi dell'art. 142 dello stesso r.d. n.
267 del 1942, istituto del pari eliminato dall'art. 128 del
menzionato d.lgs. n. 5 del 2006), la cui titolarità
è richiesta per la partecipazione ai concorsi per l'assegnazione
delle sedi farmaceutiche, dall'art. 4, comma 2, della legge
8 novembre 1991, n. 362.
2.- Sulla non manifesta infondatezza della questione, il TAR
remittente osserva che le norme censurate, configurando le
suddette incapacità personali come conseguenza automatica
della dichiarazione di fallimento e, soprattutto, prevedendo
il loro permanere dopo la chiusura della procedura per lungo
tempo fino alla cancellazione dall'albo a seguito dell'esito
favorevole del giudizio di riabilitazione, contrastano con
i parametri costituzionali suindicati.
In particolare, esse violerebbero l'art. 3 Cost. perché
dispongono un'irragionevole sanzione ed equiparano situazioni
diverse, prescindendo da ogni valutazione delle cause del
dissesto dell'imprenditore; contrasterebbero inoltre con i
diritti della persona e con il principio della libertà
di iniziativa economica e anche con le disposizioni dell'art.
8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, secondo quanto
ritenuto in numerose decisioni dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo di Strasburgo, cui istituzionalmente è attribuito
il compito di interpretare la CEDU.
3.- La questione è rilevante e, nel merito, fondata.
In punto di rilevanza non è implausibile la motivazione
dell'ordinanza di rimessione, secondo la quale i requisiti
per la partecipazione ad un concorso, se diversamente non
è nei singoli casi stabilito, vanno determinati alla
stregua della normativa vigente al momento della scadenza
del termine fissato per la presentazione della domanda, nel
caso in esame antecedente l'abrogazione di una delle disposizioni
impugnate e la sostituzione dell'altra.
4.- Nel merito è necessario premettere che, secondo
la giurisprudenza formatasi prima dell'abrogazione dell'art.
50 del r.d. n. 267 del 1942 e nella vigenza del testo originario
dell'art. 142 del medesimo, il riacquisto dei diritti civili
e politici, la cui perdita era automaticamente connessa allo
stato di fallito, veniva, come si è detto, condizionato
al favorevole esito del giudizio di riabilitazione.
Va, inoltre, sottolineato che nell'ordinanza di rimessione,
anche con specifico riferimento alle peculiarità della
vicenda sulla quale il giudice amministrativo deve pronunciarsi,
i sospetti di incostituzionalità si appuntano non soltanto
sull'automatismo delle incapacità del fallito ma anche
sul loro protrarsi ben oltre la chiusura della procedura concorsuale.
5.- Così identificati i termini della questione soggetta
a scrutinio, se ne rileva la fondatezza per contrasto con
gli artt. 117, primo comma, e 3 della Costituzione.
Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del
2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art.
117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere
considerate come interposte e che la loro peculiarità,
nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione
all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale
gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità,
sono vincolati ad uniformarsi.
Ora, riguardo alle incapacità personali connesse allo
stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50
e 143 della legge fallimentare all'epoca vigente, la Corte
di Strasburgo, con numerose pronunce (si veda, ex plurimis,
la sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01),
ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive
dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità
di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere,
quindi, di un'ingerenza «non necessaria in una società
democratica».
La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a
causa della natura automatica dell'iscrizione del nome del
fallito nel registro e dell'assenza di una valutazione e di
un controllo giurisdizionali sull'applicazione delle incapacità
discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo
previsto per ottenere la riabilitazione, l'ingerenza prevista
dall'art. 50 della legge fallimentare nel diritto al rispetto
della vita privata dei ricorrenti non è necessaria
in una società democratica, ai sensi dell'art. 8, §
2, della Convenzione», e ha dichiarato l'avvenuta violazione
del citato art. 8, dopo aver precisato che la nozione di "vita
privata" presa in considerazione da tale norma, «non
esclude, in linea di principio, le attività di natura
professionale o commerciale, considerato che proprio nel mondo
del lavoro le persone intrattengono un gran numero di relazioni
con il mondo esteriore».
Nel contempo le disposizioni censurate, in quanto stabiliscono
in modo indifferenziato incapacità che si protraggono
oltre la chiusura della procedura fallimentare e non sono,
perciò, connesse alle conseguenze patrimoniali della
dichiarazione di fallimento ed, in particolare, a tutte le
limitazioni da questa derivanti, violano l'art. 3 Cost. sotto
diversi profili. Esse, infatti, poiché prevedono generali
incapacità personali in modo automatico e, quindi,
indipendente dalle specifiche cause del dissesto - così
equiparando situazioni diverse - e in quanto stabiliscono
che tali incapacità permangono dopo la chiusura del
fallimento, assumono, in ogni caso, carattere genericamente
sanzionatorio, senza correlarsi alla protezione di interessi
meritevoli di tutela.
Deve essere, pertanto, dichiarata la illegittimità
costituzionale degli artt. 50 e 142 della legge fallimentare
di cui al r.d. n. 267 del 1942, nel testo vigente prima della
riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, in quanto stabiliscono
che le incapacità personali derivanti al fallito dalla
dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della
procedura concorsuale.
Restano assorbiti gli altri profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli
50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel
testo anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo
9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della
legge 14 maggio 2005, n. 80), in quanto stabiliscono che le
incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione
di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura
concorsuale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2008.
Il Direttore della Cancelleria
F.to:
DI PAOLA
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