Corte di cassazione - Sezioni unite civili - Sentenza 19 luglio 2001, n. 9776

Descrizione
Vendita beni fallimentari a mezzo trattativa privata


Testo

Svolgimento del processo

La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con sentenza del 5 luglio 2000, ha ritenuto il dott. S.G.R. responsabile dell'addebito che gli era stato contestato e gli ha inflitto la sanzione della censura.

Il magistrato ha chiesto la cassazione della sentenza.

Il ricorso è stato notificato al Procuratore generale presso la Corte di cassazione il 6 ottobre 2000 e dal Ministero della giustizia presso l'Avvocatura generale dello Stato il 16 ottobre 2000; è stato depositato il 2 novembre 2000.

Il Ministero della giustizia ha resistito con contro ricorso.

Motivi della decisione

1 - Il ricorrente, che all’epoca dei fatti era procuratore della Repubblica presso la pretura di Enna, è stato

incolpato della violazione dell'art. 18, R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, per aver violato i doveri di correttezza propri del magistrato, così compromettendo il prestigio dell'ordine giudiziario.

L’addebito è stato quello d'essersi reso acquirente, per interposta persona, di un immobile trasferito alla moglie.

Il trasferimento era avvenuto, a trattativa privata, con decreto del giudice delegato, nell'ambito di un processo di fallimento in corso davanti al tribunale di Enna.

Il magistrato - secondo l'incolpazione - non solo non poteva non sapere che non è consentita, nei processi di fallimento, la vendita di immobili a trattativa privata, ma doveva astenersi dal partecipare alla procedura, anche se per interposta persona, perché tale condotta, in un piccolo centro e da parte di magistrato che riveste un ruolo quale quello di procuratore della Repubblica, getta discredito sulla magistratura, perché può ingenerare il convincimento di favoritismi.

2 - Il ricorso contiene sette motivi.

3 - Il primo denunzia un vizio di violazione di norme di diritto(art. 360, n. 3, c.p.c., in relazione all'art. 59, sesto coma, D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916).

Il ricorrente sostiene che il termine per l'esercizio dell'azione inizia a decorrere dal momento in cui gli organi che possono esercitarla hanno notizia di un fatto che nei suoi elementi storici è ipoteticamente suscettibile di rilevanza disciplinare, mentre acquisire gli elementi che ne consentono la concreta valutazione come fatto contrario a regole deontologiche costituisce un momento interno al procedimento.

E perciò, pronunciato dal giudice delle indagini preliminari del tribunale di Catania il decreto di archiviazione datato 11 gennaio 1997; potendo presumersi che fosse pervenuto al Ministro prima del 23 gennaio 1997e non essendo stato provato che sia pervenuto dopo, avrebbe dovuto dichiararsi che il Ministro era decaduto dalla facoltà di esercitare l'azione, una volta che la richiesta per il suo inizio era stata formulata appunto il 23 gennaio 1998.

Il motivo non è fondato.

La Corte ha già avuto occasione di affermare che la "notizia del fatto che forma oggetto dell'addebito disciplinare ", notizia che segna la decorrenza del termine per l‘azione, "va intesa come conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito, con la conseguenza che non rileva al suddetto fine l’acquisizione di dati insufficienti ad una esauriente formulazione dell'incolpazione ed alle corrispondenti esigenze di difesa dell'accusato" (Sez. Un. 12 dicembre 1989, n. 5542; 14 maggio 1993, n. 5510; 11 luglio 1995, n. 7577).

Dunque, quando si discuta del tempestivo inizio dell'azione disciplinare, la questione non può essere risolta attraverso il raffronto tra la data in cui l’azione è stata promossa e quella in cui è giunto, a conoscenza dei titolari dell'azione, il primo degli atti che hanno dato occasione al suo esercizio.

La questione può solo essere risolta attraverso, la valutazione del contenuto di quegli atti, valutazione che va compiuta alla stregua del principio di diritto prima richiamato.

E siccome il giudizio in cui si risolve comporta un accertamento di merito, le sezioni unite ne possono

Controllare la legittimità solo nei limiti in cui ciò è consentito, per i giudizi di merito, dalla disposizione dettata dall'art. 360, n. 5 c.p.c.: questo, a sua volta, presuppone che il ricorrente svolga un tale tipo di critica, indicando il concreto contenuto dei precedenti atti e mostrando perché una sua corretta valutazione avrebbe dovuto condurre da un punto di vista logico ad affermare che il titolare dell'azione disciplinare aveva già in precedenza avuto conoscenza di tutti gli elementi necessari per risolversi a proporla.

Il ricorrente ha prospettato un diverso tipo di critica, perché, senza discutere la valutazione compiuta dalla sezione disciplinare e senza indicare il contenuto del decreto di archiviazione, ha postulato che, quanto meno dalla data in cui era da presumersi che fosse venuto a conoscenza del ministro, questi era stato in grado dia vere conoscenza del fatto che avrebbe poi dato sostanza all’addebito.

4 - I motivi dal secondo al quinto denunciano vizi di violazione di norme di diritto e di norme sul procedimento, oltre a vizi di difetto di motivazione (art. 360, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., in relazione agli artt. 34 e 35 del R. D. Lgs. 31 maggio 1946, n. 511 e dell'art. 477 c.p.p. 1930, nonché agli artt. 1261, 1471 e 2624 c.c.).

4. 1 - L’addebito contestato al magistrato - lo si è visto - era stato quello d’aver preso parte, anche se attraverso la moglie , alla procedura di acquisto dell'immobile dal fallimento.

La sezione disciplinare, nel considerare che il Comportamento addebitato al magistrato era stato da lui tenuto e violava i doveri di correttezza, ha svolto questi argomenti.

L’acquisto, dalla moglie del magistrato, era stato Compiuto impiegando sì in misura prevalente denaro proprio, ma anche denaro del marito il magistrato, quindi, mentre sapeva che l‘acquisto, per il regime patrimoniale di comunione tra i coniugi si sarebbe risolto anche in suo favore, invece di dissuadere la moglie dal farlo, aveva lasciato non solo che si attivasse per l'acquisto, ma che rimanesse occultato il suo nome.

Il magistrato, che, in una circostanza di questo tipo, non si presenta anche lui come acquirente, favorisce che nell'ambiente giudiziario, e fuori di questo, si generino illazioni circa presunti favoritismi, con grave discredito del lo stesso magistrato, degli altri giudici che debbono operare nel procedimento, dell'intera magistratura.

4.2 - La critica svolta nei tre motivi si riassume in questi argomenti.

L sezione disciplinare ha finito col considerare che nella circostanza comportamento rispettoso delle regole di correttezza sarebbe stato per il magistrato, quello di avanzare la domanda di acquisto direttamente: così, però, è venuta a mancare ogni relazione tra il fatto contestato e quello ritenuto.

Perché si abbia acquisto per interposta persona è necessario un comportamento attivo consistente nella preordinazione del meccanismo contrattuale volto a rendere possibile a sé l'acquisto che si è occultato: nel caso, l'acquisto si presentava, per il magistrato, come l'effetto legale di un 'iniziativa della moglie , che egli non aveva i mezzi giuridici per impedire.

La sezione disciplinare avrebbe dovuto spiegare perché egli avrebbe dovuto essere pienamente consapevole del fatto che il procedimento seguito per la vendita dagli uffici fallimentari non era consentito: da tempo esercitava solo funzioni di magistrato penale e peraltro il giudice delegato anche in altri casi aveva seguito per la vendita la stessa procedura.

4.3 - Orbene, l'ultimo degli argomenti appena riassunti è inammissibile, non richiede cioè d'essere discusso: la sezione disciplinare ha infatti finito col prescindere dall'elemento dell'addebito contestato, cui il ricorrente ha fatto riferimento nel motivo.

Quanto al secondo argomento esso trova risposta in quanto la sezione disciplinare ha accertato, ovvero sia che la moglie del magistrato non si è mossa a sua insaputa, ma per presentare l'offerta d'acquisto s'è avvalsa anche di risorse economiche del marito.

Resta quindi da valutare il primo argomento.

Il rilievo che vi è contenuto è in parte esatto, anche se non è decisivo.

Il fatto contestato al magistrato è stato certamente quello di non essersi astenuto da un acquisto, che si sarebbe prodotto anche a suo favore, quando l'immobile che la moglie aveva chiesto di poter comprare a proprio nome le fosse stato venduto; e di non essersene astenuto, come invece avrebbe dovuto fare, in quanto l'immobile veniva venduto nell'ambito di una procedura di fallimento, che si veniva svolgendo davanti al tribunale della stessa città in cui egli rivestiva la qualifica di procuratore della Repubblica presso la pretura.

Sicché non è diverso il fatto che ha costituito

Oggetto di accertamento ed in relazione al quale al magistrato è stata applicata la sanzione disciplinare (e tale identità, secondo un orientamento della Corte è sufficiente per escludere che vi sia violazione del

Principio di relazione tra sentenza e contestazione : Sez. Un. 24 febbraio1997, n. 1670).

È vero però che la sezione disciplinare non si è limitata a considerare se questo fatto violasse di per sé una regola di correttezza - come era stato postulato nell'addebito(in un caso, che presenta analogie con quello in discussione qui, è stato invero ritenuto che d agli artt. 1261 e 1471 c.c. si può desumere una più ampia regola di correttezza, per cui i magistrati debbono astenersi dal prendere interesse personale in procedimenti pendenti davanti ad organi giudiziari, anche diversi, se compresi nella giurisdizione davanti al quale il processo è pendente: Sez. Un. 11 luglio 1995, n. 7577).

La sezione disciplinare ha infatti rinvenuto nel comportamento del magistrato, così come contestato, un aspetto di rilevanza ulteriore - quello di essersi per così dire nascosto dietro il nome della moglie , non aggiungendo il proprio nella richiesta di acquisto, una volta che s'era risolto a non ostacolarla.

Sennonché, nel dare rilievo a questo aspetto, la sezione disciplinare nonne ha alterato i connotati di fatto, mentre l'art. 477 c.p.p. 1930 non impediva l giudice di dare del fatto una diversa qualificazione giuridica e di applicare le pene corrispondenti, anche se più gravi.

Peraltro, neppure si può ritenere che il procedimento logico seguito nel giudicare della rilevanza disciplinare

del fatto abbia condotto la sezione a considerare il medesimo fatto in contrasto con una diversa e più grave regola deontologica.

In realtà, la sezione disciplinare ha posto l'accento sul fatto che , se il magistrato si fosse risolto a spendere il proprio nome, le spiacevoli illazioni, che costituiscono la conseguenza pregiudizievole di un comportamento non consigliabile da un punto di vista deontologico e perciò vietato, ne sarebbero potute risultare attenuate anziché rafforzate.

4.4 - I tre motivi sono quindi infondati.

5. - Gli altri tre motivi del ricorso deducono vizi di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.p., in relazione agli artt. 18, 19, 20 e 21 del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511).

Il ricorrente sostiene che la decisione non è sorretta da adeguata motivazione in relazione a tre distinti aspetti e cioè la lesione del prestigio dell'ordine giudiziario, l'elemento soggettivo e la misura della sanzione applicata.

Nessuno dei motivi è fondato.

Quanto al primo aspetto, si deve rilevare che la sezione ha considerato la denuncia anonima come indice della diffusione della notizia nel ristretto ambiente della piccola città e del tipo di illazioni pregiudizievoli che aveva suscitato; quanto al secondo, che la sezione ha accertato il fattivo concorso del magistrato nel porre la moglie in condizioni di presentare l'offerta; quanto al terzo, che la sanzione applicata lo è stata sulla base di un giudizio di gravità del fatto.

Si tratta in tutti e tre i casi di un giudizio di merito, alla cui base è una valutazione congruente con i fatti valutati e non illogica.

6 - Il ricorso è rigettato.

7. - Le spese del giudizio possono essere compensate tra le parti.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.

Così deciso il giorno 4 maggio 2001 in Roma, nella camera di consiglio del le sezioni unite civili della Corte di cassazione.













 

 

 


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