Corte
di Cassazione, 7 febbraio 2001 n. 1719, La conoscenza effettiva
e la conoscibilità dello stato di insolvenza da parte della
banca in caso di revocatoria fallimentare
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
La
liquidazione coatta amministrativa della s.p.a. A.L.I. -
All Leasing Italia - conveniva in giudizio il Banco di Sicilia
s.p.a., innanzi al Tribunale di Torino, per sentire revocare,
ai sensi dell'art. 67, secondo comma, l.fall., le rimesse
affluite, nell'anno anteriore alla apertura della procedura,
sul conto corrente intrattenuto dalla società. In
particolare, la liquidazione deduceva che la A.L.I. s.p.a.,
a fronte dei finanziamenti ricevuti, non aveva stipulato
con il Banco di Sicilia contratti di apertura di credito,
con la conseguenza che tutte le rimesse affluite nel periodo
sospetto avevano natura solutoria.
Il Banco di Sicilia si costituiva deducendo che aveva intrattenuto
con la A.L.I. s.p.a. rapporti di apertura di credito e che,
pertanto, dovevano ritenersi revocabili soltanto i rientri
da eventuali sconfinamenti; in ogni caso contestava di avere
conosciuto la sussistenza dello stato di insolvenza, tanto
che in epoca prossima al periodo considerato aveva concesso
alla A.L.I. s.p.a. un nuovo rilevante finanziamento.
Il Tribunale di Torino, con sentenza del 16 gennaio 1998,
ritenuta presuntivamente provata la scientia decoctionis
del Banco di Sicilia e ritenuta, inoltre, per l'insussistenza
di contratti di apertura di credito, la natura solutoria
di tutte le rimesse intervenute nell'anno anteriore alla
pubblicazione del decreto di sottoposizione della A.L.I.
s.p.a. a liquidazione coatta, condannava la banca convenuta
alla restituzione dell'importo delle rimesse, accertato
in lire 734.521.972, con gli interessi legali dalla domanda.
Avverso detta sentenza il Banco di Sicilia proponeva gravame
che la Corte di appello di Torino rigettava, con sentenza
del 26 gennaio 1999. In particolare, per quanto qui ancora
interessa, la Corte territoriale osservava che: 1a) l'esistenza
degli affidamenti invocati dal Banco di Sicilia non poteva
affermarsi sulla base dell'estratto del libro fidi e sulla
base delle schede e dei prospetti di delibera degli affidamenti,
sia perché tali documenti erano interni alla banca
e da essa unilateralmente predisposti sia perché
in essi veniva usata una terminologia equivoca che non consentiva
di affermare che nella specie era stata concessa una apertura
di credito piuttosto che una mera facoltà di sconfinamento
ovvero un castelletto di sconto; 1b) il valore probatorio
dei predetti documenti non mutava se gli stessi venivano
posti in relazione con i documenti che il Banco di Sicilia
indicava come provenienti dalla A.L.I. s.p.a.; in particolare,
la richiesta di proroga di una "facilitazione straordinaria
di L. 200 milioni accredito s.b.f. di effetti o ricevute
bancarie" non trovava rispondenza nell'estratto del
libro fidi, ove erano indicati importi differenti, ed utilizzava,
comunque, una dizione non univoca; d'altro canto, l'elenco
di affidamenti, redatto su carta intestata della A.L.I.
s.p.a., mancava della sottoscrizione, con la conseguenza
che non poteva parlarsi di proposta proveniente dalla predetta
società; 1c) la sussistenza degli affidamenti non
poteva affermarsi neppure sulla base di una autonoma valutazione
dei documenti da ultimo menzionati poiché gli stessi
erano privi di data certa ed a tal fine, da un lato, era
irrilevante la circostanza che gli stessi fossero redatti
su carta intestata della A.L.I. s.p.a., priva della menzione
della sottoposizione a procedura e, d'altro canto, non poteva
sostenersi la possibilità di prova della data con
ogni mezzo, poiché la questione verteva su scritture
concernenti un asserito negozio bilaterale di apertura di
credito; 1d) la prova per testi, diretta a dimostrare la
stipula dei contratti di apertura di credito, non aveva
carattere di novità rispetto alla analoga prova dedotta
in primo grado e, pertanto, la sua ammissione non poteva
fondarsi sul disposto dell'art. 345 c.p.c. nel testo anteriore
alla riforma (l. 353/1990), né, d'altro canto, la
sentenza di primo grado era stata impugnata in relazione
alla ritenuta inammissibilità della prova per testi;
1e) l'insussistenza di un contratto di apertura di credito
era positivamente confermata dalla inesistenza di una revoca
degli affidamenti in occasione della chiusura del conto
corrente; 2) la scientia decoctionis in capo al Banco di
Sicilia doveva ritenersi presuntivamente provata sulla base
di sintomi esteriori dell'insolvenza, quali le notizie di
stampa, i risultati del bilancio al 31 dicembre 1986 ed
i protesti a partire dal marzo 1988, posti in relazione
alla qualità professionale dell'appellante; in senso
contrario non poteva darsi rilievo alla concessione di ulteriore
credito nel dicembre 1987, sia perché si trattava
di momento anteriore al periodo sospetto sia perché,
comunque, la concessione di ulteriore credito poteva fondarsi
sulla speranza di agevolare il ritorno della A.L.I. s.p.a.
alla solvibilità; 3) la sentenza di primo grado non
era affetta da vizio di ultrapetizione, in ordine alla condanna
al pagamento degli interessi, poiché la relativa
domanda, formulata nell'atto di citazione, non poteva ritenersi
abbandonata, anche se non riproposta espressamente in sede
di conclusioni, poiché mancava una condotta processuale
incompatibile con la volontà di insistere nella domanda;
4) quanto alla condanna alle spese, la mancata compensazione
doveva ritenersi giustificata dalla prevalente soccombenza
del Banco di Sicilia e dal fatto che la procedura aveva
prontamente adeguato la domanda ai risultati della consulenza
tecnica.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione il
Banco di Sicilia, deducendo cinque motivi illustrati anche
con memoria. La l.c.a. della A.L.I. s.p.a. resiste con controricorso.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1.
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art.
67, secondo comma, l.fall. nonché vizio di motivazione
sia in relazione alla affermata natura solutoria delle rimesse,
conseguente alla erronea affermazione dell'insussistenza
di una apertura di credito, sia in relazione alla affermata
conoscenza dello stato di insolvenza. In particolare, sotto
il primo profilo, il ricorrente assume che le schede ed
i prospetti di delibera degli affidamenti non potevano considerarsi
atti meramente interni e riflettevano, invece, intese negoziali;
che la richiesta di proroga dell'affidamento, proveniente
dalla A.L.I. s.p.a., trovava riscontro nel libro fidi; che,
infine, erroneamente era stata disconosciuta la valenza
probatoria dell'elenco di affidamenti redatto su carta intestata
della A.L.I. s.p.a. Sotto il secondo profilo, il ricorrente
deduce che erroneamente la Corte di merito aveva desunto
la conoscenza dello stato di insolvenza dalla sola veste
professionale dell'accipiens, trascurando i significativi
indizi di segno contrario emergenti dalla concessione di
ulteriore credito.
Il primo profilo del motivo è inammissibile. Con
esso, infatti, pur deducendo formalmente una violazione
di legge ed un vizio di motivazione, si deduce nella sostanza
una censura in fatto, con la richiesta di una nuova valutazione
della documentazione prodotta.
In ordine al secondo profilo del motivo si deve anzitutto
osservare che la prova della conoscenza dello stato di insolvenza
si caratterizza per un intreccio tra il profilo oggettivo
della insolvenza ed il profilo soggettivo della sua conoscenza.
Le ragioni sono evidenti. L'imperscrutabilità dell'animo
umano rende impossibile una prova diretta degli stati soggettivi.
Da ciò consegue la necessità di fare riferimento,
utilizzando lo strumento delle presunzioni, alla esistenza
di segni esteriori dell'insolvenza ed alla loro conoscibilità
da parte del convenuto in revocatoria. A tale necessità
si accompagna, quale portato dello strumento utilizzato,
l'irrilevanza di tutte le manifestazioni di ingenuità,
di sprovvedutezza, di soggettivi errori di percezione attraverso
le quali il terzo volesse accreditare, contro ogni ragionevole
valutazione delle circostanze e contro ogni evidenza di
segno contrario, una condizione di buona fede.
In questo modo è fisiologico che, attraverso il ricorso
alle presunzioni, si svaluti notevolmente la contrapposizione
tra la conoscenza effettiva e la conoscibilità dello
stato di insolvenza. Infatti, le due situazioni sono sostanzialmente
parificate dallo schema logico-deduttivo proprio delle presunzioni,
per cui dal fatto noto (segno esteriore conoscibile dello
stato di insolvenza) si risale al fatto ignoto (conoscenza
dello stato di insolvenza).
Il reale significato di tale parificazione può, però,
essere colto soltanto fermando l'attenzione sulla regola
con cui si elabora la premessa maggiore del sillogismo,
cioè sulla regola di esperienza che ne costituisce
la base. E' evidente, infatti, che, ferma per necessità
di evidenza legislativa la clausola generale della gravità,
precisione e concordanza del fatto indiziario, ciò
che conta è se la concreta portata della clausola
venga specificata avendo riguardo al parametro astratto
del soggetto di ordinaria prudenza ed avvedutezza, ed introducendo
così un elemento di doverosità, ovvero valorizzando
i concreti criteri di collegamento tra i segni esteriori
dell'insolvenza ed il terzo.
La contrapposizione alla quale avere riguardo non è,
pertanto, quella tra le situazioni (conoscenza e conoscibilità
concreta) che il meccanismo delle presunzioni finisce per
rendere indistinguibili, ma quella tra queste situazioni
e quelle nelle quali si ha solo una astratta conoscibilità
oggettiva accompagnata da un presunto dovere di conoscere.
Un siffatto dovere, tuttavia, non ha cittadinanza nell'ambito
dello schema della presunzione, che consente, invece, di
valorizzare regole di esperienza storicamente accertate,
e quindi pratiche individuali o collettive realmente seguite
in determinati contesti.
Pertanto, la scientia decoctionis può essere desunta
con il mezzo delle presunzioni soltanto in presenza di concreti
collegamenti ("veicoli di conoscenza" secondo
Cass. 24 marzo 2000, n. 3524) tra il terzo ed i sintomi
conoscibili dello stato di insolvenza: in tal senso, deve
darsi rilievo, tra l'altro, alla contiguità territoriale
con il luogo in cui si manifestano i segni dell'insolvenza
(Cass. 6.11.93, n. 11013, in relazione alla diffusione della
stampa che pubblica la notizia del dissesto; Cass. 27.4.98
n. 4277, in relazione al luogo di pubblicazione del protesto
ed al luogo di residenza o domicilio dell'accipiens), alla
occasionalità o al contrario alla continuità
dei rapporti, all'importanza degli stessi. In questo stesso
ambito si deve dare rilievo anche all'attività professionale
esercitata dall'accipiens (Cass. 6 dicembre 1996, n. 10886
e decisioni infra citate) ed alle regole di prudenza ed
avvedutezza che caratterizzano concretamente, indipendentemente
da ogni doverosità, l'operare della categoria di
appartenenza.
Al riguardo, questa Corte ha affermato l'inutilizzabilità
di una prova correlata al parametro del tutto teorico del
"creditore avveduto" (Cass. 12 maggio 1998, n.
4769; contra, Cass. 27 aprile 1998, n. 4277, secondo cui
lo status professionale del banchiere può comportare
una differenziazione, rispetto al quisque de populo, in
ordine alla valutazione della normale diligenza esigibile).
Con particolare riferimento alla posizione del banchiere,
questa Corte ha, poi, precisato l'insufficienza della mera
qualità soggettiva in assenza di sintomi conoscibili
dell'insolvenza (Cass. 12 maggio 1998, n. 4765), ed ha dato
rilievo, per uscire dalla genericità della presunzione,
alla sfera di operatività dell'istituto di credito
(Cass. 24 marzo 2000, n. 3524; nello stesso senso Cass.
11 novembre 1998, senza riferirsi specificamente alla posizione
del banchiere, dà rilievo, in relazione alle eventuali
qualità professionali dell'accipiens, alla struttura
organizzativa di cui lo stesso può disporre ed alla
zona commerciale in cui esplica in concreto la sua attività).
In definitiva, la qualità soggettiva di colui che
entra in contatto con l'insolvente, e in particolare la
qualità di banchiere, non rileva di per sé
e neppure in relazione alle doverose regole di prudenza
ed avvedutezza che dovrebbero caratterizzarne la condotta,
ma in quanto consente di fondare una presunzione sulla base
di un sillogismo la cui premessa generale consista nell'affermazione
che i modelli di comportamento di una categoria professionale
fanno acquisire la conoscenza dei sintomi dello stato di
insolvenza che nel caso concreto si sono manifestati.
Ciò premesso, si può osservare che nella specie
la Corte di merito non ha affatto fondato, come assume il
ricorrente, la conoscenza dello stato di insolvenza in capo
al Banco di Sicilia sulla mera qualità professionale
della parte, ma ha correttamente fondato tale conoscenza
sulla esistenza di sintomi della insolvenza (le notizie
di stampa, i risultati del bilancio al 31 dicembre 1986
ed i protesti a partire dal marzo 1988) e sulla percezione
di tali sintomi da parte di un soggetto professionalmente
qualificato, quale una banca. Nessuna doglianza, d'altro
canto, è stata formulata dal ricorrente in ordine
alla motivazione con cui la Corte di merito è giunta
ad affermare che i sintomi dell'insolvenza dovevano presumersi
percepiti da parte del Banco di Sicilia. La Corte di merito,
infine, non ha trascurato l'elemento della pretesa concessione
di ulteriore credito nel dicembre 1987, osservando, con
motivazione congrua, immune da vizi logici e giuridici,
che la circostanza non poteva escludere la conoscenza dello
stato di insolvenza sia perché l'ulteriore prestito
sarebbe stato concesso in epoca anteriore al periodo sospetto
sia perché, comunque, la concessione di ulteriore
credito poteva fondarsi sulla speranza di agevolare il ritorno
della A.L.I. s.p.a. alla solvibilità. Il secondo
profilo del primo motivo è, pertanto, infondato.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione
e falsa applicazione degli artt. 2704 e 2697 c.c. nonché
vizio di motivazione. In particolare, il ricorrente lamenta
che la Corte territoriale abbia ritenuto che la redazione
dei documenti su carta intestata della A.L.I. s.p.a., non
recante menzione della messa in liquidazione, fosse inidonea
a dimostrare l'anteriorità della formazione dei documenti
rispetto all'apertura della procedura, in assenza della
prova della inesistenza di vecchi fogli in bianco di carta
intestata della società, ponendo così a carico
del Banco di Sicilia l'onere della prova di un fatto negativo,
mentre doveva gravare sulla procedura la prova positiva
dell'esistenza, al momento della sua apertura, del possesso
da parte del ricorrente di carta intestata in bianco della
A.L.I. s.p.a. Il Banco di Sicilia lamenta, inoltre, che
la Corte di merito abbia ritenuto inapplicabile, quanto
al prospetto dei finanziamenti, il disposto del secondo
comma dell'art. 2704 c.c. e non abbia, quindi, ritenuto
possibile accertare la data con qualsiasi mezzo di prova,
ivi compresa la presunzione ricavabile dalla redazione su
carta intestata della società.
Il motivo è infondato. La Corte di merito non ha
operato alcuna inversione dell'onere della prova, limitandosi
ad affermare che il fatto (la messa in liquidazione coatta
e l'obbligatoria menzione della circostanza sulla carta
intestata) invocato da chi produceva il documento redatto
su carta intestata della A.L.I. s.p.a. era inidoneo a dimostrarne
con certezza l'anteriorità, essendo ipotizzabile
l'utilizzazione, pur dopo l'apertura della procedura, della
vecchia carta intestata. Quanto alla possibilità
di dimostrare con qualsiasi mezzo di prova la data della
scrittura recante il prospetto dei finanziamenti, non sussiste
la dedotta violazione dell'art. 2704, secondo comma c.c.
poiché nella specie, in assenza della sottoscrizione,
come accertato nella sentenza impugnata, neppure è
configurabile l'esistenza di una dichiarazione.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione
degli artt. 345 (nel testo anteriore alle modifiche dettate
dalla legge n. 353 del 1990) e 346 c.p.c. nonché
il vizio di motivazione. In particolare, il ricorrente si
duole che la Corte di merito abbia escluso la novità
dei mezzi di prova diretti a dimostrare la stipula di contratti
di apertura di credito e si duole, comunque, del fatto che
la Corte territoriale non abbia considerato che la prova
per testi non ammessa nel giudizio di primo grado era stata
espressamente riproposta con l'atto di appello, mentre la
decadenza sancita dall'art. 346 c.p.c. è prevista
da detta norma per la sola ipotesi di omessa riproposizione
delle domande non accolte.
La censura è fondata poiché l'odierno ricorrente,
oltre a riformulare la prova per testi non ammessa in primo
grado, ha anche lamentato nell'atto di appello un "erroneo
disconoscimento della sussistenza di capienti affidamenti",
dolendosi specificamente in tale contesto dell'errore in
cui sarebbe incorso il primo giudice nel ritenere generici
i capitoli di prova orale. Peraltro, secondo il più
recente orientamento di questa Corte, il requisito della
novità, cui è condizionata, a norma dell'art.
345 cod. proc. civ. (nel testo anteriore alla l. n. 353/1990),
l'ammissione dei mezzi di prova in appello, non osta a che
la prova testimoniale, dichiarata inammissibile per genericità
nel giudizio di primo grado, possa essere riproposta in
secondo grado mediante la deduzione di capitoli dettagliatamente
articolati, dal momento che il potere conferito al giudice
di consentire in primo grado l'integrazione della prova
testimoniale dedotta in modo incompleto comporta, a fortiori,
la possibilità per la stessa parte, non incorsa in
alcuna decadenza, di farlo spontaneamente in appello (Cass.
13 maggio 1993, n. 5458; Cass. 14 dicembre 1989, n. 5620).
In relazione a tale motivo la sentenza deve essere cassata
con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino.
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione
degli artt. 112 e 189 c.p.c. nonché vizio di motivazione
in relazione alla condanna al pagamento degli interessi
sulla somma capitale, malgrado la relativa domanda, formulata
nell'atto di citazione, non fosse stata riproposta nelle
conclusioni del giudizio di primo grado. In particolare
si duole che erroneamente la Corte di merito abbia escluso
l'abbandono della domanda ritenendo che la stessa fosse
strettamente dipendente da quella di condanna al pagamento
della somma capitale e che la relativa rinunzia non fosse
desumibile dal comportamento processuale della parte, malgrado
la stessa non avesse speso parola sugli interessi neppure
nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado.
Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 92, secondo comma, c.p.c. nonché il vizio
di motivazione in relazione alla mancata compensazione delle
spese del giudizio di primo grado, che, secondo lo stesso
ricorrente, doveva conseguire all'accoglimento della domanda
di revoca in misura largamente inferiore alla richiesta
ed al rigetto della domanda del risarcimento del danno da
svalutazione monetaria.
Entrambi i motivi devono ritenersi assorbiti, poiché
relativi a capi della sentenza posti in discussione dall'accoglimento
del terzo motivo.
P.Q.M.
rigetta
il primo ed il secondo motivo del ricorso; accoglie il terzo
motivo e dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa in relazione
al motivo accolto e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione
della Corte di appello di Torino