Corte
di Cassazione, 5 apile 2001 n. 5044, I sezione civile, Azione
di responsabilità contro il curatore: la prescrizione
comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto puņ
essere fatto valere (art. 2935 c.c.).
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con
atto 13.4.1992 il curatore del fallimento della società
Iece, Impianti Elettrici Costruzioni Edili-s.r.l., dichiarato
con sentenza 22.2.1974, promosse un giudizio di responsabilità
ex art. 38 L.F. nei confronti di Scaramuzzino Maria Caterina,
curatrice del fallimento sino alla revoca del 14.3.1990,
che all'uopo convenne dinanzi al Tribunale di Roma, per
ottenerne la condanna al risarcimento del danno conseguente
alla prescrizione dell'azione di responsabilità patrimoniale
contro gli amministratori della società Bellintende
Nunzio, Cilli Pietro e Forgiani Lidia, a causa della mancata
costituzione di parte civile nel procedimento penale, in
cui erano stati rinviati a giudizio con la imputazione di
bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, in forza
di ordinanza 3.2.1979, e dei quali solo il primo era rimasto
condannato per entrambe le imputazioni di bancarotta documentale
e patrimoniale, mentre per il Cilli, prima condannato, era
stata dalla Corte di appello di Roma con sentenza 29.11.1989
dichiarata, in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione,
la estinzione del reato per prescrizione, al pari della
Forgiani, prima assolta con formula dubitativa.
Il tribunale, rilevando che il procedimento si era concluso
con la declaratoria di estinzione dei reati nei confronti
dei soggetti che disponevano di beni e che per tale motivo
la costituzione di parte civile non avrebbe giovato alla
massa dei creditori, in quanto la condotta addebitata al
curatore sarebbe stata collegata al danno solo in via indiretta,
rigettò la domanda con sentenza 11.3-7.10.1996, con
cui ritenne, inoltre, che l'art. 240 L.F. prevede la facoltà
e non l'obbligo di costituzione di parte civile, cui era
peraltro legittimato qualunque creditore.
La sentenza fu gravata da appello da parte della curatela
fallimentare, che tra l'altro invocò la prescrizione
dell'azione; la Corte di appello di Roma con sentenza 31.3-3.7.1999
accolse la impugnazione, condannando la Scaramuzzino al
risarcimento del danno in L. 97.495.200, oltre interessi
e spese processuali.
Ha ritenuto la corte territoriale - così superando
la eccezione di prescrizione dell'azione sollevata dalla
appellata - che, decorrendo il termine quinquennale dal
momento in cui poteva l'azione di responsabilità
essere esercitata, e cioè dalla nomina del nuovo
curatore, ai sensi dell'art. 38 L.F., quel termine non fosse
decorso alla data del 13.4.1992 in cui la citazione era
stata notificata. Nel merito ha giudicato negligente la
condotta della Scaramuzzino e casualmente idonea - secondo
un giudizio di regolarità causale da compiersi ex
ante - alla produzione del danno, per il fatto che quanto
meno nei confronti del Cilli, che disponeva di beni immobili
ed era rimasto condannato per bancarotta - salva la successiva
declaratoria di estinzione per prescrizione - l'azione risarcitoria
avrebbe prodotto effetti vantaggiosi per la massa concorsuale.
Ha disatteso l'assunto secondo cui il giudice delegato del
fallimento aveva condiviso le ragioni espresse informalmente
a favore del non esercizio dell'azione ex art. 240 L.F.,
non essendo tanto risultato; e la tesi difensiva in ordine
alla facoltà e non all'obbligo della costituzione
di parte civile, affermando che ciò non equivale
ad arbitrio, dovendo la facoltà essere esercitata
secondo criteri di prudenza e diligenza; quanto poi all'argomento
che i beni del Cilli erano sopravvenuti ai fatti di causa,
ha rilevato che invece egli sin dall'aprile 1980 era risultato
proprietario di immobili ed ha, infine, con riferimento
alla osservazione che le passività erano risultate
eccedenti l'attivo solo in conseguenza delle insinuazioni
tardive, rilevato che il consistente numero delle insinuazioni
tardive fosse prevedibile, tanto più a causa della
non adeguata documentazione contabile dell'impresa al momento
del fallimento.
Quanto alla misura del danno, l'ha determinata in relazione
al periodo in cui il Cilli aveva svolto le funzioni di amministratore,
anche dopo la formale scadenza della carica.
Scaramuzzino Maria Caterina ha proposto ricorso per cassazione
con unico motivo, illustrato da memoria; ha resistito il
curatore del fallimento, che ha depositato controricorso.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Denunzia
la ricorrente la violazione dell'art. 360 nn. 2, 3, 4 e
5 c.p.c. e degli artt. 38 e 240 L.F., lamentando, anzitutto,
la apoditticità della decisione, che sarebbe priva
delle ragioni del convincimento espresso dal dispositivo.
Deduce che, dovendosi riferire al 22.2.1979 - cinque anni
dopo la sentenza dichiarativa del fallimento - la maturazione
della prescrizione quinquennale dell'azione contro gli amministratori,
la circostanza che il momento in cui essa ricorrente avrebbe
dovuto costituirsi parte civile, al quale dovevano dunque
rapportarsi la pretesa negligenza e la insorgenza della
pretesa risarcitoria, fosse identificabile con la data dell'1.7.1982
- data di compimento delle formalità di apertura
del dibattimento nel procedimento penale - sarebbe idonea
a privare di fondamento l'azione, anch'essa comunque prescritta
per essere il termine quinquennale decorso da quel momento
e comunque dall'11.12.1985, in cui il tribunale penale aveva
emesso la sentenza di condanna.
Quanto al rapporto di causalità, ravvisato dalla
corte di merito attraverso una valutazione preventiva, deduce
la ricorrente che la affermazione di responsabilità
suppone invece l'accertamento, con riguardo alla condotta
omissiva, di precisi elementi di fatto, i quali erano tutti
di segno contrario alla tesi della sentenza impugnata, avuto
riguardo, sia alla adesione del giudice delegato alla determinazione
di non esercitare l'azione di responsabilità, sia
alla sua natura discrezionale, sia alla incapienza dell'attivo
a causa delle insinuazioni tardive, sia alla sopravvenienza
delle possidenze immobiliari del Cilli e della Forgiani.
In ordine al quantum, rileva che, dovendo essere il danno
causato dal Cilli riferito alla data della apertura del
fallimento, in cui era quantificabile in L. 11.000.000,
esso trovava copertura nell'attivo fallimentare e per tale
motivo non giustificava l'azione risarcitoria.
La censura è infondata sotto tutti i profili prospettati.
Va anzitutto rilevato che, contrariamente alla deduzione
della ricorrente, la prescrizione dell'azione di responsabilità
nei confronti degli amministratori non maturò affatto
il 22.2.1979, e cioè cinque anni dopo la sentenza
dichiarativa di fallimento, ai sensi dell'art. 2949 c.c.,
trovando applicazione il disposto dell'art. 2947 III comma
c.c., secondo cui "in ogni caso, se il fatto è
considerato dalla legge come reato e per il reato è
stabilità una prescrizione più lunga, questa
si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato
è estinto per causa diversa dalla prescrizione o
è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio
penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive
nei termini indicati nei primi due commi, con decorrenza
dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la
sentenza è divenuta irrevocabile". Pertanto,
costituendo reato di bancarotta fraudolenta il fatto illecito
addebitato agli amministratori ed essendo per esso prevista
la prescrizione quindicennale, ai sensi dell'art. 157 c.p.,
nella data stabilita per la costituzione di parte civile,
coincidente con le formalità di apertura del dibattimento
penale, accertata all'1.7.1982, la prescrizione era lontana
dall'essersi compiuta.
Altrettanto preliminarmente va rilevata la infondatezza
dell'assunto della ricorrente, che, pur supponendo, diversamente
da quanto prima prospettato e testé esaminato, maturata
alla data del 22.2.1989 (f. 9 del ricorso) la prescrizione
del reato e dunque dell'azione di responsabilità
di cui trattasi, ha però da essa desunto il venir
meno di qualunque possibilità di agire in via risarcitoria
contro gli amministratori, lasciando, per l'effetto, ritenere
priva di rilievo, perché senza pregiudizio per i
creditori, la condotta omissiva del curatore, quand'anche
ammessa.
Tale tesi è infatti resistita dall'art. 2945 c.c.,
il quale al II comma stabilisce che se l'interruzione è
avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due
commi dell'art. 2943, la prescrizione non corre fino al
momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce
il giudizio; e al terzo comma aggiunge "se il processo
si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo e il nuovo
periodo di prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo";
con la conseguenza che alla data del 29.11.1989, in cui
la Corte di Appello di Roma dichiarò la estinzione
del giudizio, sarebbe iniziato un nuovo periodo, ove l'atto
interruttivo fosse stato compiuto, tanto da lasciare integra
l'azione di cui si tratta.
Devesi, infine, osservare, anche qui in via preliminare,
che altrettanto infondata è la doglianza riferita
alla mancata applicazione da parte del giudice di merito
della prescrizione dell'azione di risarcimento nei confronti
del curatore uscente, nessuno dei termini indicati potendo
giovare a tal fine, né quello dell'ordinanza di rinvio
a giudizio (3.2.1979), né quello delle formalità
di apertura del dibattimento del giudizio penale (1.7.1982),
né quello della sentenza penale di primo grado (11.12.1986),
dal momento che "durante il fallimento l'azione di
responsabilità contro il curatore è proposta
dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato"
(art. 38 cpv. L.F.), sicché il dies a quo del termine
di prescrizione in questione - che è peraltro decennale
(Cass. 8716/1996), in considerazione della natura del rapporto,
equiparabile al mandato - non decorre prima della sostituzione
del curatore, a nulla rilevando che l'illecito rimonti ad
un tempo notevolmente anteriore, per il fondamentale principio
che la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno
in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935
c.c.).
Ciò posto con riguardo alle doglianze sollevate in
riferimento ai tre profili considerati della prescrizione,
va ulteriormente disatteso ogni altro rilievo relativo:
alla condivisione del giudice delegato al fallimento della
scelta di non costituirsi parte civile; alla mancanza del
rapporto causale tra condotta e danno, sotto il triplice
aspetto della inidoneità della condotta a cagionarlo,
della imprevedibilità delle insinuazioni tardive,
che avevano reso incapiente l'attivo per i creditori ammessi,
e della sopravvenuta possidenza di beni immobili in capo
al Cilli, rispetto alla data prevista per la costituzione
di parte civile; alla entità del danno; rilievi ai
quali la corte territoriale ha dato risposte puntuali, che
giovano a svalutare la censura, prospettata in termini sia
di violazione di legge, riferita agli artt. 38 e 240 L.F.,
che di vizio motivazionale.
Infatti, quanto alla adesione del giudice delegato alla
determinazione del curatore, la sentenza impugnata ha osservato
che, al di là della mancanza di riscontri a siffatta
asserzione, la circostanza che non vi sia stata la richiesta
al giudice di autorizzazione priva di valore l'argomento,
attesa la diversità dei ruoli e delle funzioni dei
due organi della procedura, alla curatela competendo - allorché
le funzioni richiedono il reciproco coordinamento - l'esercizio
del potere di impulso e al giudice spettando quelli di controllo
e di integrazione, con l'effetto che, operando su livelli
l'uno rispetto all'altro autonomi, le responsabilità
restano separate e non si elidono, non giovando ad escluderle
il convincimento, preventivo alla attivazione della iniziativa,
della sua inutilità, a fronte dell'ipotizzato rifiuto
dell'atto autorizzatorio ad essa necessario.
Del pari riscontrata da adeguata motivazione è la
deduzione in ordine alla discrezionalità della costituzione
di parte civile, la cui infondatezza è palese anche
con riguardo al vizio di violazione di legge, non attribuendo
affatto l'art. 240 L.F. al curatore il potere assoluto di
compierla o meno, ma il potere-dovere di esercitare l'azione
di responsabilità in questione secondo i criteri
di diligenza, prudenza e professionalità, prescritti
dall'art. 38 L.F. e dalle norme generali che disciplinano
l'adempimento delle obbligazioni, di cui agli artt. 1176,
1218 e 2236 c.c.
Quanto al rapporto causale tra condotta ed evento, la corte
di merito ha correttamente utilizzato il principio della
regolarità causale, dal quale, stabilita la doverosità
dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, in
relazione agli obblighi ora ricordati, ha tratto la conseguenza
che la sua omissione, attraverso una valutazione ex ante,
si prospettava capace, direttamente e indirettamente, di
generare il pregiudizio alla massa passiva concorsuale,
sia perché l'insolvenza, presupposta dalla dichiarazione
di fallimento, imponeva di reperire fuori dal patrimonio
della fallita società, acquisito alla massa, le risorse
per soddisfare le pretese dei creditori, sia perché
uno degli amministratori della fallita - Cilli Pietro -
già disponeva di beni idonei allo scopo, al di là
di quelli sopraggiunti in seguito, sia perché non
rilevava che nel momento in cui la costituzione di parte
civile doveva compiersi le passività verificate fossero
coperte dall'attivo fallimentare, essendo la verifica dei
crediti aperta alle insinuazioni tardive, che lecito era
supporre dovessero intervenire, non appalesandosi quell'evento
eccezionale o imprevedibile, tanto più dinanzi alla
mancanza di contabilità, che il sospetto di sopravvenienze
passive era in grado di ingenerare.
Tali valutazioni, che la corte di merito ha ampiamente rappresentato,
resistono alla censura proposta, la quale, se con riguardo
al compiuto accertamento della possidenza dei beni immobili
da parte del Cilli sin dall'aprile 1980, è persino
inammissibile in questa sede, è infondata anche laddove
lamenta la quantificazione del danno compiuta mercé
rivalutazione dell'importo di L. 11.000.000, secondo gli
indici Istat. A riguardo, posto che non è controverso
in quella misura l'importo delle distrazioni addebitate
al Cilli, alla data della dichiarazione di fallimento, e
che la ricorrente non contesta né la sua rivalutabilità,
né il criterio impiegato, la censura finisce per
essere riferita alla "incomprensibile esplicitazione
della formazione del convincimento giudiziale della corte
di appello" e si concretizza nell'assunto che nel 1974
"il danno causato dal Cilli considerato in L. 11.000.000,
poteva trovare ampia copertura nella massa attiva del fallimento"
e che "dunque all'epoca dei fatti in oggetto la somma
dell'attivo fallimentare copriva il passivo e mancava la
necessità di ogni azione protettiva del ceto creditorio".
La corte territoriale ha invece indicato la ragione della
quantificazione in L. 97.495.200 nella esigenza di aggiornamento
del danno al momento della sua liquidazione, trattandosi
di indiscusso debito di valore, per cui senza pregio è
l'argomento che nel 1974 il danno fosse di L. 11.000.000,
come inconferente è quello che siffatto importo fosse
coperto dalla massa attiva fallimentare, poiché la
comparazione non va compiuta tra due elementi dell'attivo
- le risorse rinvenibili dall'azione risarcitoria e quelle
proprie e dirette dell'attivo inventariato - ma tra l'attivo
nella sua interezza ed il passivo globale, tempestivamente
o tardivamente verificato, risultato di L. 145.018.166,
come incontestatamente affermato dal controricorrente, in
forza della quale legittima risulta la rivalutazione compiuta,
in quanto necessaria a soddisfare le pretese creditorie.
Il ricorso va pertanto respinto, con la condanna della ricorrente
al pagamento delle spese processuali in L. 4.225.800 di
cui L. 4.000.000 per onorari.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese
processuali in L. 4.225.800 di cui L. 4.000.000 per onorari.