Corte
Costituzionale, ordinanza 16 novembre 2001, n. 365, Inammissibilità
della questione di legittimità costituzionale dell'art.
91 L.F. nella parte in cui non prevede che tra gli "atti
richiesti dalla legge", per i quali l'Erario deve anticipare
le spese giudiziali, rientrino anche le azioni necessarie
per la ricostruzione dell'attivo fallimentare
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
Fernando
SANTOSUOSSO, Presidente - Massimo VARI - Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY - Valerio ONIDA - Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI - Guido NEPPI MODONA - Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI - Franco BILE - Giovanni Maria FLICK,
Giudici.
ha
pronunciato la seguente
ORDINANZA
N. 365 DEP. 16.11.2001
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell'art.
91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa),
promosso con ordinanza emessa l'8 giugno 1999 dal Tribunale
di Potenza sul reclamo proposto dal Curatore del Fallimento
di Cuccaro Vincenzo e Salzarulo Caterina, iscritta al n.
853 del registro ordinanze 2000 e pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno
2001.
Visti
l'atto di costituzione del Curatore del Fallimento di Cuccaro
Vincenzo e Salzarulo Caterina nonché l'atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nella camera di consiglio del 26 settembre 2001 il Giudice
relatore Fernando Santosuosso.
Ritenuto
che, a seguito del reclamo del curatore avverso un provvedimento
del giudice delegato del fallimento con il quale era stata
respinta la richiesta di rimborso delle spese anticipate
dal difensore della procedura, con addebito all'erario,
il Tribunale di Potenza ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 23, 35 e 36 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942,
n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa) nella parte in cui non prevede che tra gli
"atti richiesti dalla legge", per i quali l'Erario
deve anticipare le spese giudiziali, rientrino anche le
azioni necessarie per la ricostruzione dell'attivo fallimentare;
che,
secondo quanto premesso dal Tribunale, il giudice delegato
al fallimento aveva autorizzato il curatore a proporre azione
revocatoria per il recupero, nella massa attiva, di un appartamento
venduto dai falliti, e il difensore aveva proceduto alla
notifica dell'atto di citazione, alla iscrizione a ruolo
della causa e alla trascrizione della domanda, anticipando
la somma di lire ottocentomila, della quale aveva chiesto
il rimborso, negatogli dal giudice di prime cure;
che,
a parere del Collegio, la giurisprudenza prevalente interpreta
la nozione di "atti richiesti dalla legge", contenuta
nell'art. 91 menzionato, come riferibile ai soli atti "interni
al fallimento", ossia a tutti quelli necessari e indispensabili
agli adempimenti connessi alla sentenza dichiarativa del
fallimento e al decreto di chiusura della procedura (apposizione
di sigilli, inventario, ecc.), con esclusione di ogni attività
pur utile al suo scopo (es. azioni revocatorie);
che
tale interpretazione restrittiva non dovrebbe essere seguita
in ragione delle caratteristiche pubblicistiche proprie
del fallimento, le quali esigono che le decisioni del giudice
delegato all'amministrazione del dissesto devono ritenersi
atti necessari per la procedura, rientranti fra quelli di
cui all'art. 91 della legge fallimentare;
che
tali caratteristiche, miranti a far conseguire il soddisfacimento
paritario dei creditori e, perciò, a realizzare una
peculiare prospettiva distributiva, verrebbero ad improntare
tutta l'attività degli organi fallimentari; con la
conseguenza che le attività svolte nell'interesse
del fallimento, in mancanza di fondi, dovrebbero essere
poste a carico dell'erario;
che
la questione sarebbe rilevante per la decisione della controversia,
atteso che solo la rimozione del "diritto vivente"
sopra indicato potrebbe consentire di far riferimento alla
diversa interpretazione dell'articolo 91 della legge fallimentare;
che
vi sarebbe una violazione del principio di uguaglianza per
il diverso trattamento riservato al fallimento del tutto
sprovvisto di liquidità, costretto a ricorrere all'istituto
del gratuito patrocinio, rispetto a quello del fallimento
con attivo, il quale potrebbe fruire dell'accettazione dell'incarico
da parte di professionisti certi di conseguire un vantaggio,
negato in quell'altro caso;
che
vi sarebbe anche violazione del principio di ragionevolezza
poiché, se il fallimento è attivo, le decisioni
del giudice delegato sarebbero sufficienti a far avanzare
la procedura, mentre, se la liquidità (o l'attivo)
manchi del tutto, occorrerebbe trovare concorde il giudizio
sul probabile esito favorevole della causa da parte dell'apposita
Commissione per il gratuito patrocinio;
che,
pur in presenza di uno scrutinio negativo della stessa disposizione,
compiuto con le sentenze n. 488 del 1993 e n. 326 del 1996
da questa Corte, in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 della
Costituzione, il Tribunale ritiene di dover investire nuovamente
della questione il Giudice delle leggi, per la necessità
"di un intervento della Corte costituzionale che chiarisca
una volta per tutte ed in maniera inconfutabile il disposto
di cui all'art. 91" della legge fallimentare;
che
nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato,
concludendo per l'inammissibilità o il rigetto della
questione: la prima, oltre che per l'assoluto difetto di
motivazione in relazione ai parametri costituiti dagli artt.
23, 35 e 36 della Costituzione solo formalmente evocati,
perché nella specie non verrebbe in rilievo un problema
di anticipazione ma di rimborso delle spese anticipate;
la seconda, per la giurisprudenza della Corte, espressa
nelle citate decisioni;
che
si è altresí costituito il fallimento, in
persona del curatore, chiedendo l'accoglimento della questione
e depositando un'ulteriore memoria illustrativa in prossimità
della discussione in camera di consiglio.
Considerato
che ritorna all'esame della Corte la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942,
n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa) sollevata, in riferimento agli artt. 3,
23, 35 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevede
che tra gli "atti richiesti dalla legge" rientrino
anche le azioni giudiziarie autorizzate dagli organi fallimentari,
e rese necessarie per la ricostruzione dell'attivo, sostanzialmente
già oggetto di scrutinio negativo da parte di questa
Corte (ordinanze n. 368 del 1994 e n. 488 del 1995 e sentenza
n. 302 del 1985);
che
il giudice rimettente non precisa la sua scelta, né
motiva, in ordine al presupposto interpretativo che è
alla base della questione sollevata, ma si riporta alla
"giurisprudenza prevalente", senza far sua, questa
o quella linea ermeneutica;
che,
nel caso in esame, non può affermarsi (come invece
sembra sostenere il giudice a quo, in alcuni passaggi della
sua ordinanza) l'esistenza di un diritto vivente, in quanto
nella materia dell'anticipazione delle spese si fronteggiano
due diversi orientamenti giurisprudenziali (e dottrinali)
che non hanno ancora dato segni di assestamento e, tanto
meno, di consolidamento;
che,
pertanto, la questione di costituzionalità risulta
sollevata, in ultima analisi, al fine di ottenere un avallo
all'interpretazione preferita dal rimettente, con la conseguente
attribuzione a questa Corte di un compito che rientra tra
quelli del giudice della controversia, il quale - quando
siano prospettabili diverse interpretazioni della disposizione
censurata, di cui una sola sia conforme alla Costituzione
- ha il dovere di farla propria, promuovendo il giudizio
di costituzionalità solo quando risulti impossibile
seguire l'interpretazione costituzionalmente corretta (vedi,
da ultimo, l'ordinanza n. 233 del 2000);
che
il Tribunale rimettente, al contrario, dopo aver motivato
in ordine alla maggior correttezza della tesi estensiva,
svolta in base a criteri teleologici e sistematici, pone
a fondamento della presente questione l'altra tesi, dal
medesimo non condivisa, ma ritenuta prevalente nella giurisprudenza
di merito;
che,
pertanto, secondo quanto piú volte affermato da questa
Corte (da ultimo con le ordinanze n. 233, n. 158 e n. 93
del 2000), finalità estranee alla logica del giudizio
incidentale (quali l'avallo all'emananda pronuncia) portano
alla dichiarazione di manifesta inammissibilità delle
questioni di legittimità costituzionale non correttamente
sollevate.
Visti
gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i
giudizi innanzi alla Corte costituzionale.
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942,
n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3,
23, 35 e 36 della Costituzione, dal Tribunale di Potenza,
con l'ordinanza in epigrafe.
Cosí
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 6 novembre 2001