Corte Costituzionale, ordinanza 7 novembre 2001, n. 361, Inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 L.F. nella parte in cui esonera dal fallimento l’imprenditore individuale già iscritto nel Registro delle Imprese, il quale ha effettivamente cessato l’esercizio dell’impresa da un anno, a prescindere dall’opponibilità del fatto ai terzi secondo il meccanismo degli artt. 2193-21963 c.c


ORDINANZA N.361
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Fernando SANTOSUOSSO Presidente

- Massimo VARI Giudice

- Gustavo ZAGREBELSKY "

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 2 novembre 2000 dal Tribunale di Monza nel procedimento civile vertente tra Gollinucci Luigi e il Fallimento Gollinucci Luigi ed altra, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’ano 2001.

Udito nella camera di consiglio del 26 settembre 2001 il Giudice relatore Annibale Marini.

Ritenuto che il Tribunale di Monza, con ordinanza emessa il 2 novembre 2000, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), «nella parte in cui tale norma esonera dal fallimento l’imprenditore individuale già iscritto nel Registro delle Imprese, il quale ha effettivamente cessato l’esercizio dell’impresa da un anno, a prescindere dall’opponibilità del fatto ai terzi secondo il meccanismo degli artt. 2193-21963 c.c.»;

che il Tribunale rimettente muove dalla premessa secondo cui, alla stregua del diritto vivente, il termine di un anno previsto dall’art. 10 della legge fallimentare per l’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore che abbia cessato l’attività imprenditoriale decorre dalla cessazione di fatto dell’impresa, dovendosi attribuire alle risultanze dei registri pubblici – ivi compreso il registro delle imprese, istituito con legge 29 dicembre 1993, n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) - un valore soltanto indiziario dell’effettiva interruzione dell’attività;

che siffatta disciplina risulterebbe, tuttavia, sostanzialmente diversa da quella prescritta per l’imprenditore societario "cessato" nonché per il socio illimitatamente responsabile che abbia dismesso la propria partecipazione in società;

che, per quanto riguarda l’imprenditore collettivo, infatti, il termine di cui all’art. 10 della legge fallimentare decorre espressamente, a seguito della sentenza di questa Corte n. 319 del 2000, dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, mentre, per quanto riguarda gli ex soci illimitatamente responsabili, pur in difetto di un analogo dato testuale, nessun ostacolo si opporrebbe ad un’interpretazione della citata sentenza n. 319 del 2000 nel senso che il termine di un anno dalla perdita della responsabilità illimitata, entro il quale può essere dichiarato il fallimento di costoro, in estensione di quello della società, decorra soltanto dalla data della relativa pubblicità;

che la rilevata disparità di trattamento tra imprenditori individuali e collettivi si tradurrebbe, secondo il rimettente, in una disparità di trattamento anche tra creditori i quali sarebbero maggiormente tutelati, sotto il profilo dell’affidamento, qualora contrattino con una società piuttosto che con un imprenditore individuale, con l’ulteriore conseguenza di rendere maggiormente oneroso il ricorso al credito per gli imprenditori individuali, proprio in ragione del rischio che costoro possano sottrarsi all’esecuzione collettiva «attraverso un semplice comportamento omissivo, non ostensibile ai terzi»;

che il legislatore, nella sua discrezionalità, potrebbe, d’altro canto, fissare limiti temporali differenti, dopo la cessazione dell’impresa, per l’assoggettamento al fallimento dell’imprenditore individuale e di quello collettivo (o del socio illimitatamente responsabile), ma non anche individuare in maniera difforme l’evento costituente il dies a quo dei rispettivi termini;

che la denunciata disparità di trattamento potrebbe essere eliminata solamente rendendo omogenee le due discipline e quindi «assoggettando al vincolo della pubblicazione per conseguire l’opponibilità quanto alla decorrenza dell’anno anche la cessazione dell’impresa individuale»;

che l’enfatizzazione della natura "materiale" della cessazione dell’attività imprenditoriale individuale si rivelerebbe in definitiva coerente con una concezione arcaica dell’impresa, rispondente al tipo della fabbrica ottocentesca, ma non più adeguata all’attuale sistema economico e risulterebbe, pertanto, in contrasto anche con il principio di ragionevolezza;

che conclusivamente la norma, come risultante dal diritto vivente, contrasterebbe non solo con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione sia del principio di eguaglianza che del canone di ragionevolezza, ma anche con l’art. 24 Cost., «nella misura in cui assoggetterebbe la tutela giurisdizionale, sia pur esecutiva "speciale", del credito ad un ostacolo non controllabile né percepibile dal titolare della situazione soggettiva pregiudicata»;

che risulterebbe infine leso anche l’art. 97 Cost., in quanto l’indicata normativa pregiudicherebbe il buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia.

Considerato che il rimettente censura l’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), con riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, nell’interpretazione, evidentemente non condivisa ma assunta come diritto vivente, secondo la quale il termine di un anno ivi previsto per l’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore che abbia cessato l’attività imprenditoriale decorre in ogni caso dalla cessazione di fatto dell’impresa, dovendosi attribuire alle risultanze dei registri pubblici – e dunque anche a quelle del registro delle imprese, previsto dall’art. 2188 del codice civile ed effettivamente istituito con la legge n. 580 del 1993 - un valore soltanto indiziario dell’effettiva interruzione dell’attività;

che siffatto diritto vivente – la cui esistenza è apoditticamente affermata – non trova tuttavia riscontro alcuno nella giurisprudenza di legittimità successiva all’entrata in vigore della citata legge n. 580 del 1993, per quanto specificamente riguarda l’asserita irrilevanza rispetto ai terzi, ai fini dell’applicazione dell’art. 10 della legge fallimentare, della iscrizione nel registro delle imprese della cessazione dell’impresa, iscrizione prevista come obbligatoria dall’art. 2196, terzo comma, del codice civile, per gli effetti di cui all’art. 2193 dello stesso codice;

che del tutto estranee alla problematica in questione sono infatti, con ogni evidenza, le pronunce riguardanti il valore meramente indiziario delle risultanze di pubblici registri diversi dal registro delle imprese;

che d’altro canto l’affermazione – costante nella giurisprudenza, anche recente, della Cassazione – secondo cui «la cessazione dell’attività di impresa, ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell’imprenditore (art. 10 l. fall.), presuppone che nel detto periodo non vengano compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere nell’esercizio dell’impresa» (Cass. 4 settembre 1998, n. 8781), non è affatto incompatibile con il riconoscimento di una piena efficacia dichiarativa alla iscrizione della cessazione dell’impresa nell’apposito registro;

che è infatti del tutto coerente con i principi della pubblicità dichiarativa la possibilità per i terzi di provare la non veridicità del fatto iscritto e, dunque, in ipotesi, di dimostrare il compimento di atti di esercizio dell’impresa successivamente alla iscrizione della sua cessazione;

che l’interpretazione che il rimettente ritiene lesiva di principi costituzionali è pertanto erroneamente qualificata in termini di diritto vivente e non è sicuramente l’unica compatibile con il tenore della norma;

che la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Monza con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2001.

F.to:

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2001.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA

 












 

 

 


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