"L'istituto
di credito, il quale prospetti una sua ragione di credito
verso il fallito e ne chieda l'ammissione allo stato passivo,
ha l'onere di dare la prova piena del suo credito, assolvendo
al relativo onere secondo il disposto della norma generale
dell'art. 2697 c.c., attraverso la documentazione relativa
allo svolgimento del conto, se di rapporti obbligatori regolati
in conto corrente si sia trattato, senza poter pretendere
di far valere nei confronti del curatore, con valore di
per sé esaustivamente probatorio, gli estratti conto anche
non contestati dal fallito e la conseguente approvazione
tacita degli stessi.
Non è, pertanto, giuridicamente possibile opporre alla curatela,
nel fallimento del correntista, gli effetti che dall'approvazione
anche tacita del conto e dalla decadenza dalle impugnazioni
derivano ex art. 1832 c.c. tra le parti del contratto."
(Dott. Raimondo Olmo)
Corte
di Cassazione, 9 maggio 2001 n. 6465
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Nel
fallimento della S.n.c. "Ignesti" di Sergio Ignesti
e C. e dei soci illimitatamente responsabili Sergio Ignesti,
Valeriano Cattelan, Diego Cattelan e Walter Menegotto, dichiarato
dal tribunale di Vicenza con sentenza del 27.07.1992 e in
quello degli altri soci illimitatamente responsabili per
la suddetta società, Maria Ghirardi, Giuliana Lazzerini
e Maria Luigia Scoffori, dichiarato dallo stesso tribunale
con successiva sentenza del 21.11.1992, Il Banco Ambrosiano
Veneto, con istanza depositata il 27.11.1992 richiese di
essere ammesso al passivo come segue:
a) del fallimento della Snc Ignesti per il credito chirografario
di lire 230.824.970 quale saldo debitore del c/c n. 5011/25
intestato alla società;
b) dei fallimenti dei soci Valeriano Cattelan e Walter Menegotto
per debiti personali degli stessi risultanti dal saldo debitore
dei rispettivi conti correnti;
c) del fallimento personale dei soci Ignesti, Lazzerini
e Scoffoni per crediti verso la società e verso i
soci stessi in proprio e quali fideiussori e datori di ipoteca.
A prova dei crediti la banca produsse a) estratti autentici
del libro sofferenze dai quali risultavano i saldi dei conti
correnti, b) copie fotostatiche degli atti di fideiussione,
c) copia fotostatica dell'atto di costituzione d'ipoteca,
d) copie degli estratti-conto finali dei conti correnti
intestati alla Snc Ignesti e ai soci Menegotto e Valeriano
Cattelan.
In sede di verificazione dello stato passivo, il Giudice
delegato dispose per la "esclusione dei crediti non
documentati", precisando che l'esclusione valeva per
ciascuna delle richieste di ammissione al passivo dei singoli
fallimenti.
La Banca proponeva opposizione allo stato passivo, insistendo
per l'ammissione dei crediti come richiesti e precisati
nell'istanza.
Il curatore, costituendosi in giudizio, a) contestò
l'idoneità della documentazione prodotta a dare adeguata
dimostrazione dei crediti, "neppure potendosi invocare
l'art. 2710 c.c.", b) negò l'efficacia probatoria
dell'atto di costituzione di ipoteca volontaria, in quanto
posto in essere da soggetti terzi rispetto ai creditori
garantiti, c) osservò che il disposto dell'art. 148
l.f. non consentiva l'ammissione di uno stesso credito nel
passivo del fallimento sociale e in quello dei singoli soci,
anche se il creditore deduceva un titolo autonomo nei confronti
del fallimento personale; d) oppose che la garanzia ipotecaria
costituita dall'Ignesti, dalla Lazzarini e dalla Scoffoni,
in quanto costituita il 14.02.1992, entro l'anno dalla dichiarazione
del fallimento, era soggetta a revocatoria ex artt. 64 o
67 l.f.
Con sentenza del 15.04.1996, il tribunale rigettò
l'opposizione.
Propose appello la Banca che la Corte di Venezia, con sentenza
emessa in data 8.6.1999, rigettò, confermando la
pronuncia del tribunale.
In premessa la motivazione della sentenza enuncia che il
giudizio del tribunale, secondo il quale "la prova
derivante dal saldo di un conto corrente bancario non era
sufficiente a sostenere il credito vantato per tale titolo
dalla banca, che nel caso di specie, la documentazione prodotta
era insufficiente ai fini della prova anche in relazione
all'eccezione di inopponibilità sollevata dalla curatela
per la sua qualità di terzo nei procedimenti di ammissione
dei crediti al passivo del fallimento" era condiviso
dalla Corte di Appello.
Precisa poi la Corte medesima che la banca appellante aveva
basato le sue richieste sulla produzione degli estratti
di saldaconto, sugli estratti notarili autentici del libro
giornale di sofferenze, sulle fideiussioni prestate dai
falliti, sugli estratti conto riguardanti alcuni periodi
di tempo ed inerenti ai conti intrattenuti con i falliti,
sull'atto costitutivo di ipoteca volontaria del 14.02.1992,
e afferma che "tali documenti, anche se visti nel loro
insieme, non consentivano di ritenere raggiunta la prova
della sussistenza del credito vantato dal Banco", e
ciò in quanto:
a) il richiamo dell'appellante agli estratti autentici del
libro giornale delle sofferenze, attestante il saldo, risultava
inutile ai fini della prova per l'assorbente ragione che
tali documenti "non risultavano allegati agli atti
del processo, che l'acquisizione d'ufficio del fascicolo
fallimentare inerente la fase della verifica dei crediti
costituiva una facoltà discrezionale del giudice,
senza che la parte potesse ritenersi esonerata dall'adempimento
dell'onere della prova".
b) ai "salda-conto" non poteva essere riconosciuta
dignità di prova nel processo di cognizione;
c) la prova del credito della banca derivante dal saldo
di conto corrente - a fronte delle contestazioni del cliente
- doveva essere data attraverso la dimostrazione analitica
delle varie partite di dare e avere al fine di verificare
il saldo finale;
d) nel caso di specie, la banca si era limitata a produrre
alcuni degli estratti conto, peraltro informi, che prendevano
data da un'epoca scelta dalla stessa banca, onde gli stessi
non offrivano prova alcuna, anche perché era mancata
la prova dell'invio degli estratti conto al cliente richiesta
dall'art. 1832 c.c.;
e) che, ancora nel caso di specie, non poteva prescindersi
dalla posizione di terzo che il curatore assumeva nel procedimento
di verifica dei crediti, con la conseguenza che allo stesso,
in presenza della sua contestazione, non erano opponibili
scritture mancanti di data certa, né quelle contabili
della banca ex art. 2710 c.c.;
f) non aveva alcun valore di riconoscimento di debito l'atto
14.02.1992 con il quale l'Ignesti, la Lazzarini e la Scoffoni
aveva concesso l'ipoteca volontaria perché tale atto
non conteneva un vero e proprio riconoscimento di debito
e cioè una dichiarazione di volontà ma una
semplice dichiarazione di scienza non idonea a produrre,
nei confronti della banca, un effetto confessorio o anche
solo ricognitivo circa l'esistenza del debito, per di più
provenendo da soggetti diversi dal debitore (la Snc. Ignesti);
g) quanto alle prove, non riproponendole all'atto delle
conclusioni definitive, l'appellante aveva rinunciato alle
prove orali; la richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c.
risultava inammissibile dopo l'esplicita ammissione della
banca relativa alla propria deliberata scelta di non produrre
in giudizio gli estratti periodici del conto attraverso
i quali dare adeguata prova del preteso credito.
Restava così, per espressa enunciazione della sentenza
(pag. 12), superata ed assorbita ogni altra doglianza di
merito.
Avverso tale sentenza la Banca Intesa S.p.a., succeduta
al Banco Ambrosiano Veneto, ha proposto ricorso per cassazione.
Resiste la curatela del fallimento, costituitasi con controricorso.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
La
ricorrente ha svolto quattro motivi di ricorso, rubricati
e argomentati come segue.
Con il primo motivo ha denunciato la "violazione e
falsa applicazione degli artt. 1832, 1857, 2704 c.c. nonché
l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per
avere la sentenza impugnata affermato che i crediti di essa
ricorrente, derivanti da saldi di conto corrente, dovevano
essere provati mediante la produzione integrale degli estratti
conto, muniti di data certa, fornendosi altresì la
dimostrazione della spedizione degli stessi al cliente".
Anche richiamandosi alla sentenza n. 2765 del 1992 di questa
Corte, oltre che al disposto dell'art. 1832 c.c., la ricorrente
deduce a) di aver prodotto in giudizio, quanto alla Snc
Ignesti e al Cattelan, gli estratti conto relativi all'intero
anno precedente la data del fallimento e quanto al Menegotto,
gli estratti relativi all'intera durata del rapporto; b)
a fronte di tale produzione la curatela non aveva formulato,
come invece era suo onere, nessuna contestazione specifica
in ordine alle singole operazioni annotate negli estratti
conto; b) che la produzione in giudizio degli estratti conto
tiene luogo della spedizione degli stessi (è richiamata
Cass. 11084 del 1993); c) la norma dell'art. 2704 c.c. è
da ritenersi inapplicabile agli estratti conto.
La specifica censura sub a) che precede non è proponibile
come motivo di ricorso per cassazione atteso che essa si
compendia nella pura e semplice contrapposizione, relativamente
agli estratti conto prodotti in giudizio dal Banco Ambrosiano,
di un assunto contrario all'affermazione della Corte di
merito (pag. 10 della sentenza) circa l'incompletezza (nel
senso che non coprivano l'intero rapporto) di quei documenti
contabili attinenti tanto alla società Ignesti quanto
al socio Menegotto, estratti-conto che la Corte, peraltro,
e senza riceverne censura, ha definito "informi".
Per il resto, il motivo è infondato, essendo conforme
al diritto, in relazione ai rapporti tra la Banca e la curatela
del fallimento del correntista, la riportata affermazione
della Corte di merito.
Nei rapporti inter partes - il correntista e la banca -
può porsi come punto fermo, all'esito di una costante
ed univoca elaborazione giurisprudenziale (è sufficiente
richiamare le sentenze di questa Corte n. 2765 del 1992,
n. 10185 del 1994, n. 4758 del 1998, e argomenti si ricavano
anche dalla sentenza n. 6707 del 1994) che, in relazione
appunto al valore probatorio, ha posto la distinzione tra
i due diversi documenti contabili denominati rispettivamente
"estratto di saldaconto", già previsto
dall'art. 102 della previgente legge bancaria n. 141 del
1938, e il vero e proprio "estratto conto" di
cui alla norma codicistica e del quale è menzione
nell'art. 50 della vigente legge bancaria, il D.Lgs. n.
385 del 1993; che gli estratti conto indicati nell'art.
1832 c.c., e ora anche dall'art. 119 del suddetto D.Lgs.
proprio con l'espressa menzione dell'approvazione tacita,
(la cui produzione nel giudizio di cognizione costituisce
una forma di comunicazione equivalente alla trasmissione
e, ancora ai sensi dell'art. 1832 cit. - applicabile ex
art. 1857 alle anticipazioni bancarie regolate in conto
corrente - determina da un lato l'onere per il correntista
della specifica contestazione e dall'altro, allorché
sia mancata tale contestazione, la presunzione della sua
approvazione: in tal senso, specificamente le sentenze n.
9427 del 1990 e n. 11084 del 1993) quando non siano stati
tempestivamente contestati o impugnati, sono assistiti da
una presunzione di veridicità circa le risultanze
del conto, con effetti vincolanti anche per il fideiussore
(v. le sentenze n. 694 del 1966, n. 1861 del 1967, 1101
del 1995 e n. 10808 del 1998).
Con la precisazione, tuttavia, che l'approvazione anche
tacita degli estratti conto non preclude (v. le sentenze
n. 4788 del 1984, n. 1112 del 1984, n. 4735 del 1986, n.
6736 del 1995) né le contestazioni indicate nel comma
secondo dell'art. 1832 c.c., né quelle altre che
attengano alla validità (iscrizione a debito fondate
su negozi nulli, annullabili, o comunque su situazioni illecite)
o all'efficacia dei rapporti obbligatori dai quali derivano
i rispettivi accrediti o addebiti.
Eguale valore probatorio non può, invece, riconoscersi
agli estratti conto non contestati, ai sensi dell'art. 1832
c.c. e 119 della legge bancaria, nei rapporti tra la banca
e la curatela fallimentare del correntista. E ciò
in conseguenza della estraneità della curatela al
rapporto tra la banca e il correntista medesimo e, ancora,
dell'estraneità della stessa proprio a quel particolare
regime (forma scritta della trasmissione dell'estratto conto,
specificità e tempestività delle contestazioni,
approvazione tacita, decadenza dall'impugnazione) che la
norma dell'art. 1832, applicabile ex art. 1857 alle altre
operazioni regolate in conto corrente, ha configurato allo
scopo di rendere il conto periodicamente certo e definito
tra le parti. In definitiva, non è giuridicamente
possibile opporre alla curatela, nel fallimento del correntista,
gli effetti che dall'approvazione anche tacita del conto
e dalla decadenza dalle impugnazioni derivano ex art. 1832
c.c. tra le parti del contratto.
Estraneità, quella dinanzi considerata, che pone
la curatela, rispetto alla pretesa della banca creditrice
di essere ammessa al passivo del fallimento per crediti
verso il correntista, in una posizione giuridicamente definibile
come di "terzo" in considerazione del fatto che
il procedimento fallimentare di verifica dei crediti determina
una situazione di potenziale conflitto tra i vari creditori
del fallito in relazione alla partecipazione al concorso,
come agevolmente si desume dalle norme degli artt. 100 e
102 della legge fallimentare, rispetto al quale conflitto
il curatore, che opera e assume posizioni per la tutela
indifferenziata della massa dei creditori, è portatore
di un interesse diversificato da quello dei singoli creditori
(v., specificamente sul punto, le sentenze n. 2707 e n.
6863 del 1995).
Non è dunque giuridicamente possibile - atteso che
nell'ordinamento si rinvengono, se mai, discipline di segno
contrario alla tutela di un soggetto che sia terzo rispetto
al rapporto giuridico intercorso tra altri soggetti - riversare
sul curatore gli effetti preclusivi della mancata contestazione,
ad opera del debitore fallito, degli estratti conto di cui
all'art. 1832 c.c., richiamato dal successivo art. 1857
per le anticipazioni bancarie regolate in conto corrente,
né assegnare a detti estratti conto il valore probatorio
circa la veridicità e l'esistenza del credito che
dalla mancata contestazione o impugnazione deriva allorché
il rapporto si svolge inter partes. In definitiva, non è
giuridicamente possibile opporre alla curatela gli effetti
che dall'approvazione anche tacita del conto e dalla decadenza
del correntista dalle impugnazioni derivano ex art. 1832
c.c. tra le parti del contratto.
Né la banca potrebbe invocare la norma dell'art.
2710 c.c. in relazione alle risultanze interne dei suoi
libri contabili, e ciò per la considerazione che
le contestazioni eventualmente insorte in sede di formazione
dello stato passivo (domande di ammissione, opposizioni,
etc.) tra il curatore e il creditore istante non danno luogo
né si configurano come una controversia tra imprenditori.
Può concludersi, dunque, che l'istituto di credito,
il quale prospetti una sua ragione di credito verso il fallito
e ne chieda l'ammissione allo stato passivo, ha l'onere
di dare la prova piena del suo credito, assolvendo al relativo
onere secondo il disposto della norma generale dell'art.
2697 c.c., attraverso la documentazione relativa allo svolgimento
del conto, se di rapporti obbligatori regolati in conto
corrente si sia trattato, senza poter pretendere di far
valere nei confronti del curatore, con valore di per sé
esaustivamente probatorio, gli estratti conto anche non
contestati dal fallito e la conseguente approvazione tacita
degli stessi. Valore probatorio che, per le ragioni dinanzi
indicate, nemmeno può essere attribuito, nel senso
di cui all'art. 2710 c.c., alle scritture contabili - né
a quelle del fallito contro la massa dei suoi creditori
(e per essi al curatore) né a quelle della banca
contro il curatore e gli altri creditori.
Tutto ciò ancora di più allorché, negativamente
superata la fase preliminare di esame della domanda di ammissione
al passivo (art. 95 l.f.) - che è affidata al potere
inquisitorio del giudice delegato, al convincimento che
lo stesso si formi sulla base degli atti e dei documenti,
anche sentiti il curatore e il fallito, e al suo potere
decisorio - si apra la fase successiva di opposizione (o,
per le domande tardive, quella dell'istruzione ex art. 101
comma 3° l.f.) allo stato passivo. Questa si configura,
infatti, come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione
nel quale non può non valere e non può non
dispiegarsi in tutta la sua centralità e decisività
(in funzione della regola processuale dell'art. 115 comma
1° c.p.c.) la norma dell'art. 2697 c.c., secondo la
quale, com'è noto, la parte che intenda far valere
nel giudizio un proprio diritto deve dar prova dei fatti
che ne costituiscono il fondamento, ossia di tutte le condizioni
positive della pretesa giuridica, in relazione agli elementi
o ai requisiti o ai fatti costitutivi del diritto fatto
valere.
Né può riconoscersi fondamento alle obiezioni
della Banca ora ricorrente circa l'estrema gravosità
- quasi in termini di indimostrabilità del credito
- che assumerebbe l'onere della prova quando lo si riconducesse
a tale disciplina generale e ad esso si assegnasse un così
ampio contenuto.
E' vero, infatti, che già nei rapporti inter partes
il disposto del comma 4° del già richiamato art.
119 della vigente legge bancaria - norma inserita nel titolo
VI della legge, ispirato alle esigenze di "trasparenza
delle condizioni contrattuali" - fa obbligo alla banca
di conservare, al fine di renderla disponibile per il cliente
che ne faccia richiesta, "la documentazione inerente
a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci
anni". Ed è altrettanto vero (nel senso della
riconosciuta sussistenza di un precetto giuridico in tal
senso: v. la sentenza n. 4598 del 1997 di questa Corte)
che, richiestane dal curatore, interessato per il suo ufficio
alla conoscenza e alla ricostruzione dei rapporti intrattenuti
dal fallito con la banca o, attraverso di essa, con altri
soggetti suoi partners nell'attività d'impresa, la
banca non può sottrarsi all'obbligo di consegnare
(il che implica o richiama, direttamente ex art. 119 cit.
o anche attraverso gli obblighi derivanti dal mandato, l'obbligo
di conservare) allo stesso curatore "qualsiasi documento
che abbia attinenza con i rapporti di conto corrente o con
la tenuta dei medesimi".
Correttamente dunque la Corte di merito, anche, e proprio,
richiamando la posizione di terzo del curatore, ha negato
valore di prova agli estratti di saldaconto (per i quali
già sarebbe stato applicabile il principio fissato
dalla sentenza n. 6707 del 1994), agli estratti (seppur
autenticati per notaio) del libro giornale delle sofferenze,
agli estratti conto parziali, documentazione che, a giudizio
della Corte stessa - adeguatamente motivato attraverso il
rilievo che "anche per il Menegotto essa partiva da
una certa epoca scelta dallo stesso creditore" - non
consentiva di ritenere raggiunta la prova piena e certa
della sussistenza del credito che la Banca vantava.
Resta, da tutto quanto dinanzi considerato, travolto in
parte - relativamente alla censura (di violazione di legge
e di omessa e insufficiente motivazione) secondo la quale
la Corte di merito aveva "omesso di prendere in considerazione
gli estratti autentici del libro giornale delle sofferenze"
(la cui infondatezza deriva dalle medesime considerazioni)
- il terzo motivo di ricorso.
Per altra parte - ossia relativamente alla specifica censura
che addebita alla Corte di merito di aver "omesso di
provvedere sull'istanza di acquisizione del fascicolo inerente
la fase di verifica" - lo stesso terzo motivo di ricorso
è infondato sulla base del rilievo che l'acquisizione
degli atti esistenti nel fascicolo fallimentare costituisce
una semplice facoltà del giudice della cognizione
piena (v. in tal senso Cass. n. 1522 del 1983 e n. 2823
del 1995), il cui mancato esercizio non è censurabile
in sede di legittimità. Tale facoltà assegnata
dalla legge al giudice, in via generale dall'art. 210 c.p.c.,
non può porsi, infatti, in funzione sostitutiva dell'onere
della prova che incombe alla parte.
Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato la "violazione
e falsa applicazione degli artt. 1988, 1309, 2727 c.c.,
nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione; la nullità della sentenza per omessa
pronuncia per avere la sentenza impugnata negato qualsiasi
efficacia probatoria all'atto costitutivo di ipoteca volontaria
e per non essersi pronunciata sulla richiesta di accertamento
del credito del Banco per presunzioni".
Deduce a) che l'atto in questione conteneva un riconoscimento
di debito da parte dei concedenti proprio perché
un debito della società Ignesti essi intendevano
garantire; b) che, come si desumeva argomentando a contrario
dall'art. 1309 c.c., il riconoscimento del debito ha effetto
nei confronti dell'autore del riconoscimento stesso; c)
che tale riconoscimento comportava un'inversione dell'onere
della prova; d) che il ricorso alle presunzioni ex art.
2729 c.c., sulla base degli elementi acquisiti, avrebbe
potuto far ritenere provato il credito.
Il motivo è meritevole di accoglimento nel senso
e nei limiti, qui di seguito indicati.
La sentenza ora impugnata ha dato atto che la dichiarazione
costitutiva dell'ipoteca volontaria proveniva dall'Ignesti,
dalla Lazzerini e dalla Scoffoni, la cui posizione e qualità
di fideiussori la stessa sentenza menziona (pag. 5).
In considerazione di ciò non è certamente
erroneo in diritto il rilievo della Corte di merito (pag.
11) che esclude un valore ricognitivo (relativamente al
debito della società) di tale atto in conseguenza
della "provenienza del preteso riconoscimento da soggetti
diversi dal debitore S.n.c. Ignesti", accompagnato
dall'ulteriore rilievo che, se pur Sergio Ignesti rivestiva
la qualità di legale rappresentante della società
collettiva, egli aveva, tuttavia, "agito, nell'atto
costitutivo della garanzia ipotecaria, a titolo personale".
Né rileva che, come la stessa sentenza ricorda nella
premessa (pag. 5), il Banco Ambrosiano Veneto aveva chiesto
di essere ammesso al passivo anche nel fallimento personale
dei suddetti, quali soci illimitatamente responsabili della
società fallita, e che il riconoscimento del debito
contenuto in un atto rogato in forma pubblica, e dunque
certo nella data, avrebbe potuto vincolarli ai sensi dell'art.
1309 c.c. come ammissione dell'esistenza del debito a loro
carico (in tal senso ha dedotto ora la banca ricorrente).
Nessun risultato utile al creditore tale riconoscimento
avrebbe portato, infatti, mancando la prova del credito
della società obbligata principale, se è vero
che una corretta interpretazione dell'art. 148 l.f., nel
senso di cui alla sentenza n. 3730 del 1993 di questa Corte
avrebbe imposto di ritenere che "la domanda di credito
è illegittima quando tende a conseguire una duplice
ammissione al passivo dello stesso credito, che tale è
- ossia lo stesso ed unico - quando il creditore intenda
far valere l'obbligazione della società e quella
che trae origine dalla prestazione di una fideiussione da
parte dei soci illimitatamente responsabili". In altri
termini, nel fallimento dei soci illimitatamente responsabili
non avrebbe potuto trovare riconoscimento il debito di questi
per la garanzia fideiussoria e ipotecaria, accessoria all'obbligazione
principale della debitrice (nel caso di specie, la soc.
n.c. Ignesti), se questa, nel suo lato attivo di credito
del Banco, non fosse rimasta accertata attraverso le prove
e fosse, conseguentemente, rimasta invece esclusa dallo
stato passivo della società.
Ferme tali considerazioni, un aspetto di fondatezza può,
tuttavia, essere riconosciuto alla censura di "omessa,
insufficiente motivazione" riferita al suddetto atto
di concessione d'ipoteca per ciò che ad esso la Corte
di merito ha attribuito il valore di "una semplice
dichiarazione di scienza, nient'affatto idonea a produrre
un effetto confessorio o anche solo ricognitivo dell'esistenza
del debito nei confronti della banca" senza tuttavia
procedere ad un esame del reale contenuto dell'atto stesso,
che - secondo la ricorrente - conteneva una esplicita enunciazione
del credito derivante dal saldo passivo dei conti correnti
intestati alla S.n.c. Ignesti, al Menegotto e al Cattelan,
esistenti alla data del 14.02.1992, dei quali i concedenti
l'ipoteca erano già garanti in forza della fideiussione.
Se l'atto fosse stato o non ricognitivo del debito, da parte
dei fideiussori, allorché questi ne rafforzavano
ulteriormente la garanzia attraverso la concessione dell'ipoteca,
la Corte avrebbe potuto stabilire soltanto disaminandone
il reale contenuto dichiarativo.
Tale censura assume rilievo particolare e in qualche modo
decisivo giacché il motivo di ricorso in esame è
fondato in relazione alla denunciata violazione della norma
dell'art. 2727 c.c. per l'omessa valutazione della possibilità
che la documentazione prodotta in giudizio dalla Banca,
unitariamente (nelle eventuali reciproche integrazioni)
considerata, e il concreto tenore dell'atto costitutivo
dell'ipoteca, consentissero di superare l'inidoneità
e l'insufficienza di ciascuna componente di per sé
considerata e dessero fondamento ad una prova presuntiva
del credito verso la debitrice principale Soc. Ignesti e
rispetto al fallimento di questa, con gli effetti di cui
al già richiamato art. 148 comma terzo della legge
fallimentare.
In relazione a tali punti la sentenza va dunque cassata
con rinvio.
Il quarto motivo del ricorso denuncia la "violazione
e falsa applicazione di norme di legge, l'omessa e insufficiente
motivazione per avere la sentenza impugnata escluso il credito
richiesto in via ipotecaria nei confronti dei fallimenti
personali dei soci Lazzerini e Scoffoni".
Si deduce che la Corte "ha omesso ogni valutazione
del motivo di appello proposto dal Banco in ordine alla
sussistenza ed opponibilità della garanzia ipotecaria
concessa dalla Lazzerini e dalla Scoffoni, nei confronti
delle quali tanto più il credito doveva ritenersi
provato avendolo le stesse riconosciuto nell'atto costitutivo
di ipoteca".
Tale motivo - che pure ha un risvolto di inammissibilità,
atteso che la sentenza impugnata non contiene disamina o
decisione alcuna sulle specifiche domande inerenti alla
garanzia ipotecaria e che le eccezioni di inopponibilità
sollevate dalla curatela (v. le conclusioni precisate dalla
stessa, riportate nell'epigrafe della sentenza e a pag.
7 di questa) sono rimaste assorbite nella decisione del
giudice dell'appello - può ritenersi anche assorbito
dalle considerazioni svolte nella disamina del secondo motivo
in relazione alla posizione personale dei suddetti soci
falliti, che nel giudizio di rinvio dovrà essere
nuovamente esaminata già in relazione alla sussistenza
del credito del Banco verso la società.
Nei limiti dinanzi indicati il ricorso va dunque accolto.
Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine
alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il primo e il terzo motivo di ricorso. Accoglie
per quanto di ragione il secondo motivo e dichiara in parte
inammissibile e per altra parte assorbito il quarto motivo.
Cassa l'impugnata sentenza in relazione al motivo accolto
e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte
di Appello di Venezia.