Corte
App. Bari 13.12.2001, n.1309 (Fondo di Garanzia dellINPS
richiesta di pagamento di una parte di retribuzione
ammessa al passivo fallimentare e rientrante nella garanzia
di cui al D. L.vo n.80/1992 acconti sulle ultime
mensilità di retribuzione percepiti dal lavoratore
sia dal datore di lavoro che dal curatore fallimentare
onere della prova incombe sullINPS - richiesta
del lavoratore di una parte solo delle ultime tre mensilità
- non sottintende necessariamente che abbia ricevuto dal
datore di lavoro le altre due, né, in ogni caso,
che le abbia percepite per intero)
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI BARI SEZIONE
LAVORO composta dai signori Magistrati: 1) dott. Donato
Berloco Presidente 2) dott. Michele Cristino Giudice 3)
dott. Vito Francesco Nettis Giudice rel. ha pronunciato
la seguente SENTENZA n.1309 nella causa iscritta sul ruolo
generale lavoro sotto il numero d'ordine 1199/01 dell'anno
2001 TRA INPS assistito e difeso dagli avv. Chiara Contursi
e Cosimo Nicola Punzi -appellante- E Lavecchia Ruggiero
assistito e difeso dall'avv. Domenico Carpagnano -appellato–
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO Con ricorso al Tribunale del Lavoro di Trani
depositato in data 22 novembre 2000, l'appellato in epigrafe
esponeva: di aver lavorato alle dipendenze della s.p.a.
Winner's Sporting Footwear sino al 17 novembre 1993, data
del fallimento della detta società; di essere stato ammesso
al passivo fallimentare per la retribuzione relativa al
mese di agosto 1993; di aver richiesto all'INPS, ai sensi
del decreto legislativo n. 80/92 il pagamento di quanto
dovutogli nei limiti fissati all'art. 2, 2° comma, allegando
la documentazione comprovante il suo credito; che, essendo
stato dichiarato il fallimento della società datrice di
lavoro in data 17 novembre 1993, l'importo spettantegli
era soltanto quello maturato nel periodo 18 - 31 agosto
1993, pari a £. 832.448; che, avendo già riscosso la somma
di £. 282.225 dalla curatela fallimentare, in sede di riparto
parziale, la somma che l'INPS avrebbe dovuto erogargli ammontava
a £. 550.233; che l'Istituto gli aveva, invece, corrisposto
l'inferiore somma di £. 248.492, rimanendo così ancora debitore
della relativa differenza; tanto esposto, chiedeva all'adito
Tribunale la condanna dell'INPS al pagamento, in proprio
favore, della detta differenza, oltre agli accessori. Radicatosi
il contraddittorio, l'INPS, nel contrastare l'avversa domanda,
deduceva: che aveva corrisposto la somma effettivamente
dovuta, detraendo dall'importo determinabile ex art. 2 decreto
legislativo n. 80/92 quanto ricevuto dal lavoratore nell'arco
degli ultimi mesi del rapporto di lavoro con la società
fallita; che, relativamente al criterio di calcolo, il ragguaglio,
con riferimento al massimale, era stato operato a mese e
non a trimestre, “dovendosi leggere la dizione nell'arco
dei tre mesi come il periodo massimo indennizzabile”. Con
sentenza del 9 marzo 2001 il Giudice del Lavoro del Tribunale
di Trani accoglieva la domanda. Osservava il primo giudice:
1) che, essendo limitato l'intervento del Fondo di garanzia
di cui alla legge n. 297/82 agli ultimi tre mesi precedenti
la data del fallimento, l'INPS era tenuto a corrispondere
all'istante, con riferimento al mese di agosto 1993, la
retribuzione relativa al solo periodo 18 - 31 agosto 1993;
2) che il conteggio predisposto dal ricorrente era corretto,
avendo il medesimo detratto dalla retribuzione relativa
al periodo suddetto l'acconto percepito dalla curatela fallimentare;
3) che l'eccezione dell'INPS circa il criterio del ragguaglio
del massimale indennizzabile (a parere dell'Istituto mensile
e non trimestrale) era, per un verso, non condivisibile,
giusta statuizione della S.C. n. 5979/99, e, per l'altro
verso, in concreto inconferente, atteso che l'importo della
retribuzione mensile relativa al periodo 18 - 31 agosto
1993, ammessa al passivo fallimentare, era, in ogni caso,
inferiore anche al massimale indennizzabile mensile, pari
a £.1.175.137; che l'INPS non aveva documentato l'eventuale
percezione, da parte del ricorrente, di altre e superiori
somme. Con ricorso del 4 maggio 2001 interponeva appello,
avverso detta sentenza, per il motivo di cui si dirà più
oltre, l'INPS e chiedeva all'adita Corte d'Appello di: 1)
"ritenere corretta la misura del pagamento effettuato dall'Istituto
in favore dell'appellato - con detrazione degli acconti
dal massimale spettante -, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs.
n. 80/1992"; 2) "per l'effetto, revocare il decreto ingiuntivo
e, quindi, riformare integralmente la sentenza impugnata".
L'appellato, ritualmente costituitosi, eccepiva, preliminarmente,
la nullità e/o inammissibilità dell'atto di gravame per
mancanza, nel ricorso, di qualsiasi riferimento al numero
e alla data di pubblicazione della sentenza impugnata nonché
ai fatti posti a base della domanda; nel merito, concludeva
per il rigetto dell'appello, perché infondato. All'udienza
del 22 novembre 2001 la causa veniva discussa e decisa come
da separato dispositivo.
MOTIVI
DELLA DECISIONE Con un unico articolato motivo, l'INPS censura
l'impugnata sentenza perché non "in linea con il dettato
dell'art. 2 commi 2 e 4 del d.lgs. n. 80/92". Assume l'istituto
appellante che la ratio legis è quella di assicurare i lavoratori
che vengono a trovarsi privi di occupazione e di sostegni
economici nei casi di insolvenza del datore di lavoro e
che "nel caso di specie è evidente che, avendo il lavoratore
percepito acconti nei tre mesi coperti dalla garanzia, legittimo
è l'intervento del Fondo solo nella parte differenziale,
tra quanto percepito a titolo di acconto e il massimale
globale, poiché 1' art. 2 del d.lgs. n. 80/92 stabilisce
che la garanzia non è cumulabile con le retribuzioni corrisposte
al lavoratore e, quindi, con gli acconti eventualmente già
erogati dal datore di lavoro". Aggiunge l'appellante che
il credito del lavoratore va calcolato detraendo le retribuzioni
ovvero gli acconti percepiti direttamente dal massimale
di legge e non dalla retribuzione spettante relativa alle
ultime tre mensilità e procedendo poi alla riduzione così
ottenuta, se superiore, nei limiti del massimale di legge.
Né, osserva l'INPS, "viene spostato il problema se il lavoratore
chiede solo una delle tre mensilità, perché - è sottinteso
- che ha ricevuto dal datore di lavoro le altre due. Le
mensilità percepite, infatti, costituiscono quegli acconti
che andranno integralmente detratti dal massimale e all'appellato
andrà liquidata solo la somma che eventualmente residuerà
a suo credito, qualora dovesse residuare". Infine, in merito
al quantum dovuto al lavoratore, assume l'INPS di essere
esente da alcun onere probatorio circa la percezione di
acconti, "perché il fatto era pacificamente accolto da pare
appellante e non contestato". Prima di esaminare le doglianze
dell'INPS, occorre vagliare l'eccezione di nullità dell'atto
di appello sollevata dalla difesa di parte appellata. Rileva
la Corte che l'indicazione del numero e della data di pubblicazione
della sentenza impugnata non era indispensabile ai fini
della ritualità dell'appello, in quanto, per un verso, siffatta
indicazione non è espressamente richiesta dagli artt. 342
e 434 c.p.c., e, per l'altro verso, l'esposizione, da parte
dell’INPS, degli elementi di diritto su cui si fonda l'impugnazione,
la precisazione della data di lettura del dispositivo e
del nome dell'appellato e, infine, l'allegazione della sentenza
impugnata fanno sì che possa ritenersi sufficientemente
individuabile sia la pronuncia gravata sia i motivi del
richiesto riesame. Né ricorre la dedotta mancanza di "qualsiasi
riferimento ai fatti posti a fondamento della domanda",
se si considera che l'INPS, premesso che l'appellato si
era visto riconoscere dal primo giudice differenze ex art.
2 decreto legislativo n. 80/92, ha chiesto la riforma della
decisione del Tribunale, opponendo (se fondatamente o meno,
non rileva, trattandosi di questione relativa al merito)
una diversa interpretazione, rispetto a quella asseritamente
accolta dal Tribunale di Trani, del suddetto articolo. Il
fatto, poi, che, per mero errore materiale, l'INPS abbia
concluso non per il rigetto della domanda avanzata dall'appellato
ma per la revoca di un decreto ingiuntivo mai emesso (sull'inesatto
presupposto che l'istanza del lavoratore fosse stata inizialmente
proposta per via monitoria) non è motivo di incertezza alcuna,
essendo chiaro che il petitum dell'atto di appello è costituito
dalla richiesta di reiezione dell'avversa pretesa. Nessuna
preclusione processuale, dunque, impedisce l'esame, nel
merito, del gravame. Osserva la Corte che il primo giudice,
rilevato che la somma ammessa al passivo fallimentare per
il periodo 18 - 31 agosto 1993 era di entità inferiore al
massimale indennizzabile, sia se ragguagliato a mese (come
preteso all'INPS) sia se ragguagliato a trimestre, ha condannato
l'Istituto al pagamento della relativa somma, previa detrazione
dell'acconto, pacificamente, percepito dal lavoratore dal
curatore fallimentare in sede di riparto. Lo stesso Giudice,
poi, pur non ritenendo in astratto condivisibile l'altra
eccezione sollevata in prime cure dall'INPS circa il criterio
da seguire nelle detrazioni degli acconti già percepiti
dal lavoratore (che, secondo la tesi dell'appellante, dovrebbe
essere quello della detrazione degli acconti dal massimale
indennizzabile e non dalla retribuzione complessivamente
spettante nell’ultimo trimestre), ha affermato la non rilevanza
in concreto della detta eccezione, perché, da un lato, il
ricorrente, all'atto della redazione del conteggio, aveva
già provveduto a detrarre quanto ricevuto dal curatore fallimentare,
e, dall'altro lato, l'INPS non aveva provato la percezione
di somme maggiori da parte del lavoratore. Orbene, rileva
la Corte che l'INPS non ha contestato le statuizioni del
Tribunale di Trani in ordine alla non influenza, nel caso
esaminato, dei diversi criteri di calcolo dell'indennità
suggeriti dall'Istituto - perché non idonei, in ogni caso,
a condurre ad una minor quantificazione delle somme spettanti
al lavoratore - ma si è limitato a proporre le proprie tesi
interpretative dell'art. 2 decreto legislativo n. 80/92
senza preoccuparsi di dimostrare che quelle tesi, se condivise,
avrebbero comportato una effettiva decurtazione del credito
del lavoratore, con conseguente infondatezza della domanda
dal medesimo avanzata. Posto che 1'appellato è stato ammesso
al passivo fallimentare per l'importo sopra specificato
e che, per il periodo 18 - 31 agosto 1993, la somma al medesimo
spettante a titolo retributivo (non contestata dall'INPS
nella quantificazione operata da parte avversa) era sicuramente
inferiore, come giustamente affermato dal Tribunale, sia
al massimale mensile che a quello trimestrale, l'appellante
aveva il preciso onere di dedurre e dimostrare che gli importi
già percepiti dal ricorrente sia dal datore di lavoro che
dal curatore fallimentare consentivano soltanto la erogazione
dell'indennità nella misura calcolata dall'Istituto, alla
stregua del criterio ermeneutico dallo stesso Istituto prospettato.
Il fatto che l'appellato abbia chiesto solo (parte di) una
delle tre mensilità non sottintende necessariamente come
opinato dall'INPS che il lavoratore abbia ricevuto dal datore
di lavoro le altre due né, in ogni caso, che le abbia percepite
per intero. Dunque, a fronte di circostanze certe, perché
non contestate (e cioè che sia la retribuzione dovuta al
lavoratore nel periodo 18 - 31 agosto 1993 sia gli acconti
versati dal curatore fallimentare sono esattamente quelli
riportati nel ricorso introduttivo), l'INPS non ha addotto,
in punto di fatto, elementi (concernenti il "perceptum")
atti ad evidenziare che, in realtà, ai sensi dell'art. 2
decreto legislativo n. 80/92, secondo l'interpretazione
datane da esso appellante, al lavoratore non spettava altra
indennità oltre quella già riscossa. L'intero atto di gravame,
quindi, poggia su tesi difensive che non sono idonee a scalfire
la giustezza della pronuncia impugnata perché non ancorate
a circostanze di fatto in concreto idonee, sulla scorta
di quelle tesi, a incidere sulla determinazione dell'importo
che in prime cure è stato riconosciuto dovuto al lavoratore.
L'appello è, dunque, infondato e va, conseguentemente, rigettato.
Ricorrono equi motivi (rappresentati, in particolare, dalla
serialità della controversia) per disporre la compensazione,
per metà, delle spese del presente grado del giudizio. L'altra
metà, liquidata come da dispositivo e distratta in favore
del procuratore dell'appellato, va posta a carico dell'INPS,
secondo la regola della soccombenza. P.Q.M. La Corte d'Appello
di Bari - sezione lavoro definitivamente pronunciando sull'appello
proposto dall'INPS, con ricorso depositato il 4 maggio 2001,
avverso la sentenza resa in data 9 marzo 2001 dal Tribunale
di Trani, giudice del lavoro, fra Lavecchia Ruggiero e la
parte predetta, così provvede: rigetta l'appello; conferma
l'impugnata sentenza; condanna l'INPS al pagamento della
metà delle spese di questo grado del giudizio, che liquida,
in tale misura, in £.300.000, di cui £.160.000 di onorari
e £.20.000 di esborsi, e distrae in favore dell'avv. D.
Carpagnano; compensa, tra le parti, la restante metà di
dette spese.
Così
deciso in Bari, addì 22 novembre 2001
Il
Presidente (F.to: Dott. Donato Berloco)
Il
Giudice estensore (F.to: dott. Vito Francesco Nettis)
Depositato
in Cancelleria Il 13 dicembre 2001