Tribunale di Monza, 19 novembre 2001, Sentenza, Istituti di credito, revocatoria delle rimesse, garanzia reale pignoratizia, natura del pegno del certificato di deposito, andamento "irregolare" del rapporto di conto corrente.


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MONZA
I Sezione civile
Nella persona del Giudice Unico dott. Danilo Galletti,
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
Nella causa di revocatoria fallimentare iscritta al n. 6627 del Ruolo Generale del 2000, assunta in decisione dopo l'udienza di precisazione delle conclusionidel 12.7.01, con scadenza dei termini per le comparse conclusionali e le repliche ex art. 190 c.p.c., promossa da:
FALL.to TECNOSET di TRABATTONI Claudio
In persona del curatore fallimentare pro tempore,
Elettivamente domiciliato in Monza, via Carlo Prina 22, presso e nello studio dell'Avv. Carmelo Salamone, che lo rappresenta e difende, in forza di procura a margine dell'atto di citazione;
- attore
nei confronti di
BANCA di CREDITO COOPERATIVO di LISSONE
Elettivamente domiciliata in Monza, C.so Milano 30, presso e nello studio degli Avv. Monica e Cristina Casiraghi, che la rappresentano e difendono, in forza di procura in calce alla copia notificata dell'atto di citazione;
- convenuta
Conclusioni
esaminati gli atti ed i documenti di causa ha ritenuto:

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO.
- Con atto di citazione notificato il 11.7.00, il Fall.to Tecnoset di Trabattoni Claudio conveniva in giudizio la Banca di Credito Cooperativo di Lissone, per sentirla condannare, previa declaratoria di nullità e/o inefficacia di garanzia reale pignoratizia, alla restituzione della somma di £ 45.104.400, oltre ad interessi legali e rivalutazione, oggetto di pagamento di un debito liquido ed esigibile effettuato nei confronti della società fallita nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento.
Si costituiva all'udienza del 9.11.00 la convenuta, non contestando di aver
ricevuto il pagamento, ma negando e la inefficacia della garanzia, e la
revocabilità dell'atto solutorio, nonché di esser stata al corrente dello stato di decozione del fallito.
All'udienza del 1.2.01 il G.I. interrogava liberamente le parti presenti,
tentando vanamente la conciliazione.
Le parti precisavano le rispettive conclusioni il 12.7.01.

MOTIVI DELLA DECISIONE.
- Sul pegno del certificato di deposito. -
Preliminarmente occorre osservare che la garanzia di cui si contende ha
sicuramente natura di pegno regolare, siccome avente ad oggetto un bene
materiale, qual è il appunto il certificato di deposito, titolo di credito al
portatore veicolante un rapporto (non importa se di mutuo o di deposito
irregolare) che fonda il diritto del sottoscrittore a riscuotere una certa
somma alla scadenza .
Nel caso di specie la particolarità è data dal fatto che l'atto costitutivo
della garanzia è addirittura precedente rispetto all'emissione del titolo, pur
se esattamente individuato dai paciscenti nel numero.
Poiché le parti non hanno fatto alcun riferimento ad una concessione a titolo di pegno dell'eventuale diritto di credito al rilascio futuro del certificato, deve ritenersi, anche in assenza di contestazioni da parte della curatela, che il rapporto di garanzia si sia instaurato mediante una fattispecie a formazione progressiva, ove la convenzione iniziale, pur non facendo sorgere la prelazione (arg. ex art. 2787 c.c.), ha tuttavia prodotto effetti obbligatori e "preliminari" fra le parti, sino all'emissione del certificato, alla sua consegna, ed alla definitiva ed efficace costituzione in pegno (arg. ex artt 1997, 2786, 2787, 2823 c.c.)1.
Sempre in via preliminare occorre osservare come la scrittura costitutiva
manchi di data certa; tuttavia la curatela ha contestato in atti l'efficacia
della garanzia solo sotto gli altri aspetti di cui all'art. 2787 c.c.,
valorizzando il profilo inerente alla certezza della data (non è chiaro se ai
soli fini di cui all'art. 2704 c.c. o in specifico anche dell'art. 2787 c.c.)
soltanto negli scritti conclusionali.
E' da ritenersi che la certezza della data non sia oggetto di un'eccezione,
bensì costituisca uno dei fatti costitutivi dell'eccezione fondata sulla
garanzia (c.d. fatto impeditivo) invocata da parte convenuta, per cui l'onere di provarlo incombe su chi intende avvalersene; ne discenderebbe, già per questo solo motivo, ed a prescindere da quanto segue, l'inefficacia della prelazione verso la curatela.
Diverso sarebbe stato il caso se la convenuta avesse allegato espressamente la certezza della data, e la curatela fosse rimasta silente sul punto, posto che allora il meccanismo processuale della non contestazione avrebbe consentito di considerare come provato il fatto.
La garanzia in questione del resto presenta profili di inefficacia multipli e
diversificati.
In primo luogo la scrittura costitutiva non contiene alcuna indicazione, né
generica né specifica, del credito garantito; in particolare, non sussiste
alcun valido collegamento documentale fra l'atto ed il c/c intrattenuto dal
fallito con l'istituto bancario convenuto; significativamente, il modulo
sottoscritto dalle parti reca in nota, a pié di pagina, l'invito ad indicare il
tipo di operazione garantita, ma lo spazio è stato lasciato in bianco.
L'unica indicazione è quella del "debito verso la banca", per capitale ed
accessori.
Si tratta pertanto di un caso di scuola di pegno "omnibus", ove addirittura
non è presente una clausola di "estensione" della garanzia a tutti i rapporti
futuri posti in essere dal cliente con la banca successivi all'instaurazione del rapporto "quadro" di c/c, ma sin dall'inizio i rapporti non sono indicati né determinati.
Tale tipo di modello convenzionale della garanzia non è ammissibile: infatti
nel nostro ordinamento (come del resto in altri più evoluti) le garanzie
"reali" (rispetto a quelle "personali"[arg. ex art. 1938 c.c.], ove il margine
concesso all'autonomia privata è più ampio, in relazione al fatto che i terzi
non sono chiamati a valutare la portata del vincolo imposto su di un bene
particolare, ma sull'intero patrimonio del garante) è previsto, per l'efficacia della prelazione, almeno nei confronti dei terzi, che sia indicato il rapporto dal quale possa scaturire il debito per cui l'oggetto è vincolato (argg. ex artt. 2787, 2809, 2852 c.c.).
Un'altra ragione di inefficacia poi risiede in maniera solare nel fatto che
l'atto comunque è stato stipulato entro l'anno precedente il fallimento del
debitore, ed allora a prescindere dalla qualificazione del debito garantito
come "preesistente" (2), "scaduto" o meno (3), l'applicazione dell'art. 671, nn. 3 o 4, condurrebbe alla revocatoria della prelazione, salvo che la banca provasse di non essere stata a conoscenza dello stato di insolvenza.
Inutile soggiungere che non solo la banca non ha fornito elementi oggettivi a sostegno della inscientia decotionis, ma anzi sussistono, come si vedrà nel prosieguo, indizi gravi, precisi e concordanti nel senso che la stessa fosse al corrente delle difficoltà finanziarie del debitore sicuramente all'atto di "incamerare" la garanzia (29.4.99), e con tutta probabilità già al momento di concedere un affidamento (20.2.99), e quindi prima della costituzione della garanzia in questione.
La declaratoria di inefficacia della prelazione, ai sensi dell'art. 2787 c.c. o
dell'art. 67 l.f., determina come conseguenza che l'"accredito" sul c/c della
somma derivante dall'estinzione del certificato di deposito (sembrerebbe
estinto unilateralmente dall'istituto emittente, coincidente con il creditore,
prima della sua scadenza naturale), lungi dal costituire una mera operazione "contabile", oppure la realizzazione di una garanzia reale legittimamente ottenuta, si manifesta come atto solutorio di un debito liquido ed esigibile, e pertanto revocabile ex art. 67 c.2 l.f.
Non risulta infatti che il conto fosse affidato: la banca ha allegato una serie
di concessioni di "credito", effettivamente stipulate per iscritto (pur in
assenza di data certa, d'altro canto non eccepita tempestivamente dalla
curatela); ma a prescindere dal fatto che solo l'apertura di credito instaura
il rapporto fra utilizzazione della provvista e sua ricostituzione, non
revocabile, e adempimento di quanto prelevato in eccesso rispetto alla
concessione (c.d. "scoperto" revocabile), l'apertura stipulata per £
20.000.000 in data 1.7.98 non presenta alcuna correlazione testuale con il c/c per cui è causa; l'aspetto è essenziale, posto che un cliente potrebbe
intrattenere più rapporti di c/c con la banca, e l'accertamento della
disponibilità concessa per ciascuno è essenziale, al fine di decidere sulla
revocatoria delle rimesse; in caso contrario la banca potrebbe avvalersi
della stessa anticipazione per sottrarre a revocatoria le rimesse effettuate
ora su di un conto, ora sull'altro.
La carenza di determinazione anzidetta rende pertanto non provata
l'esistenza del "fido", con il risultato che la rimessa attiva di £ 45.104.400,
su conto "passivo", sarebbe interamente revocabile.
Sulla revocatoria del pagamento di debito assistito da garanzia reale
consolidata. - Questo Giudice ritiene tuttavia utile precisare che, anche
ammesso e non concesso che la prelazione di cui sopra fosse valida ed
operante, non per questo sussisterebbero validi elementi ostativi
all'accoglimento della domanda attorea, di inefficacia dell'atto di
"realizzazione" della garanzia reale.
Sul punto è certo possibile registrare il contrasto giurisprudenziale, fra un
orientamento più risalente (4), che predicava la non revocabilità dell'atto
solutorio in carenza dei presupposti per dichiarare l'inefficacia della
garanzia (5), e quello indubbiamente più recente, volto ad accogliere la tesi della revocabilità, a condizione che sia provato un pregiudizio concreto per la massa (ossia, presenza di creditori con ragioni prevalenti non soddisfatti)(6).
E' da ritenersi tuttavia che entrambe le ricostruzioni, scaturenti dalla
funzione tradizionale attribuita alla revocatoria fallimentare, siano
inappaganti.
Il presupposto esplicito di tale sistemazione teorica è infatti costituito
dalla funzione indennitaria della revocatoria, per cui non si potrebbe
revocare ciò che rimane indifferente per la massa dei creditori, non
riducendo l'attivo fallimentare.
Al contrario andrebbe rimarcato come nessuna norma, negli artt. 64 ss. l.f. (7), menzioni esplicitamente od implicitamente il requisito del danno come elemento della fattispecie.
Bene si è osservato in dottrina come allora la questione sia in realtà
suscettibile di influire, sul piano del diritto positivo, sull'interesse ad agire
del curatore, nel senso che un fallimento in grado di soddisfare tutti i
creditori ammessi non potrà agire in revocatoria di atti ex artt. 64 ss. l.f. in
forza dell'art. 100 c.p.c., e non già dell'art. 67 l.f. (8).
La ricostruzione teorica dalla quale si alimenta tale secondo orientamento
(noto per l'etichetta di teoria "antindennitaria") farebbe allora leva su una
funzione dell'istituto differente, tesa al riequilibrio delle posizioni
dell'intera massa creditoria, ed alla distribuzione delle perdite
dell'insolvenza su di una sfera di posizioni soggettive più ampia rispetto a
quanto direttamente provocato dalla sanzione formale dell'insolvenza.
Questo Giudice reputa che tale ricostruzione colga un aspetto essenziale
dell'istituto, pur mancando di mettere in luce la funzione complessiva dello
stesso, ove è presente ed invero preminente, al pari di quanto opinato da
un'autorevole dottrina, una finalità preventiva, da valutarsi per la capacità
di incidere sui comportamenti dei soggetti che entrano in contatto con
l'insolvente prima che il suo stato di decozione divenga conclamato e sia
sanzionato dalla declaratoria giurisdizionale.
Il legislatore infatti, sanzionando la condotta del creditore che riceva il
pagamento nella consapevolezza dell'insolvenza, e rendendo tale situazione per implicito un "motivo legittimo" per opporsi all'adempimento senza incorrere nella propria mora (art. 1206 c.c.), ha inteso incentivare il
comportamento responsabile ed accorto dei soggetti economici, i quali
rifiutando di protrarre le proprie relazioni economiche col decotto, spingano lo stesso verso gli strumenti ordinamentali di "trattamento" dell'insolvenza (amministrazione controllata, concordato preventivo, fallimento ed altre procedure concorsuali)(9).
E per lo stesso motivo l'ordinamento reprime con lo strumento della
responsabilità civile il comportamento del fornitore di credito istituzionale,
qualora questo continui a somministrare denaro al soggetto decotto, così
incentivando l'esercizio di un efficiente monitoring da parte del soggetto più organizzato per farlo, e che purtuttavia potrebbe trovare disincentivi nella diffusa e comunque lecita collateralizzazione del credito.
Si potrà certo discutere della idoneità del requisito soggettivo, ove la
richiesta della prova della conoscenza, invece della mera conoscibilità, od
addirittura di un regime "oggettivo" (così come avviene in altri ordinamenti, ad es. nel Bankruptcy Code statunitense), non incentiva in modo sufficiente la ricerca delle informazioni che possono rivelare l'insolvenza, od addirittura l'investimento nella ricerca tecnologica tesa a migliorare gli strumenti di previsione della crisi finanziaria.
E' chiaro tuttavia il contemperamento degli interessi effettuato dal
legislatore, il quale ha scelto di non istituire regimi differenziati in
relazione alla qualità soggettiva del creditore (ad es. sanzionando in modo
più rigoroso con la revocatoria il creditore "professionale" o comunque
"imprenditoriale"), così bilanciando preventivamente il costo del monitoring per il creditore con l'interesse del debitore commerciale all'ottenimento del credito secondo condizioni economiche più favorevoli.
Ciò non toglie tuttavia che la revocatoria, mentre incentiva l'erogazione del credito mediante un meccanismo che rassicura in parte il creditore circa il rischio di vedersi in condizioni peggiori degli altri "colleghi" per circostanze estrinseche e dallo stesso non controllabili (se non in modo costoso: ottenimento di garanzie specifiche, pattuizioni "negative" con il debitore che vincolino il comportamento di quest'ultimo nella politica finanziaria), persegue altresì l'obiettivi primario di prevenire l'insolvenza, incentivando il funzionamento di un meccanismo privato di prevenzione e di controllo della crisi finanziaria dei soggetti economici.
In realtà, e conclusivamente, la funzione della revocatoria è quella di
indurre il soggetto in relazione col debitore a rifiutare qualunque vantaggio
relativo al suo rapporto con lo stesso; ove ciò avvenga, l'ordinamento
sanziona la condotta, attraverso la declaratoria di inefficacia dell'atto, la
conseguente restituzione dell'utilità patrimoniale conseguita alla curatela, e
l'insinuazione al passivo del credito relativo (art. 71 l.f.).
Punto di emersione di questa ricostruzione è poi l'art. 64 l.f., così come
interpretato in altre occasioni da questo Tribunale (10).
Alla luce di questa funzione debbono essere ricostruite le fattispecie- limite in tema di revocatoria, e non altrimenti, ricorrendo ad elementi dogmatici spuri.
Non a caso, d'altro canto, un'autorevole dottrina favorevole alla
ricostruzione "indennitaria" dell'istituto ha di recente confermato le proprie
opinioni ricorrendo, come prova finale e pretesamente "risolutiva", proprio alla suggestione per cui non sarebbe mai possibile predicare la revocabilità del pagamento di debito assistito da garanzia reale, siccome non "dannoso".
In dottrina si evidenziano in effetti le conseguenze "ingiuste" che
scaturirebbero dall'ammissione della revoca, posto che l'adempimento
estinguerebbe il debito definitivamente (11), e la garanzia che ad esso
accede; la revoca dell'atto poi non potrebbe far rivivere la garanzia,
nonostante si sia talvolta opinato il contrario, posto che il pagamento
revocato non è nullo né invalido (12), ma soltanto inefficace rispetto alla
massa.
L'ordinamento sembra esplicito nel senso che tutte queste situazioni non
possano far scaturire effetti dannosi riguardo i terzi, i quali non vengono
perciò incisi dagli effetti della declaratoria di inefficacia, fuori dei casi
previsti espressamente (arg. ex art. 29014 c.c., qualora fosse ritenuto
applicabile alla revocatoria fallimentare).
Anche con riferimento alle garanzie reali prestate dal debitore, non pare
che la prelazione possa sopravvivere alla revoca del pagamento, e qualora il fallito abbia alienato il bene oggetto della garanzia (ciò che appare ovvio), e quando abbia provveduto alla cancellazione dell'iscrizione o abbia ricevuto in restituzione il bene dato in pegno; in tali casi, infatti, i terzi che contrattano con il fallito successivamente sono indotti a fare affidamento sulla libertà dei beni in questione da vincoli alieni.
Pertanto, qualunque sia l'interpretazione da darsi dell'art. 71 l.f., non pare
che il debito possa risorgere munito dello stesso grado di preferenza (anche se in dottrina si è introdotta una significativa eccezione per il privilegio non condizionato dalla ritenzione materiale).
In realtà l'argomento utilizzato è fallace, poiché anche l'adempimento del
debito assistito da garanzia deve essere revocabile, se si vuole che l'istituto persegua la sua funzione: il legislatore vuol indurre infatti il creditore, benché "garantito", a non ricevere la prestazione; la revocatoria allora provvede allo scopo, al contempo ponendo in essere un ulteriore ed utilissimo incentivo nei confronti del creditore garantito affinché effettui egualmente un monitoring del suo debitore (ciò che però contribuisce anche a ridurre l'incentivo a pattuire la garanzia in sé).
Di nessun peso sistematico poi appare la norma di cui all'art. 53 l.f., che
abilita il creditore privilegiato a realizzare il proprio credito anche in
pendenza della procedura concorsuale (purché ammesso al passivo): la norma infatti è dettata da ragioni eminentemente pratiche (ed infatti omette significativamente di considerare il caso dell'ipoteca), e non implica altresì che chi abbia realizzato la garanzia prima possa ritenere efficacemente quanto ricevuto, fra l'altro senza alcun controllo della procedura sulle modalità di soddisfazione.
In dottrina si è opinato diversamente, circa la non revocabilità, anche in
forza di un'argomentazione sistematica che si avvale della norma di cui
all'art. 68 l.f., e della ratio ad essa sottostante, riassunto icasticamente con
l'espressione di "stato di necessità cambiario".
In effetti questo Giudice reputa che un elemento tipico ma inespresso della revocatoria fallimentare sia costituito dalla "evitabilità" del pagamento. Per lo stesso motivo il diritto "vivente" esenta da revocatoria il pagamento effettuato al monopolista, sulla base del presupposto (giusto o sbagliato che esso sia) per cui questo non potrebbe rifiutare l'adempimento.
Tuttavia occorre precisare come non sembri corretto affermare che il
creditore munito di garanzia perda la garanzia qualora non accetti di
ricevere il pagamento; un'argomentazione sistematica si ricaverebbe, è vero, dall'art. 1957 c.c. Tale regola, che è volta a disincentivare la condotta opportunistica del creditore garantito che trascuri di attivarsi contro il debitore, sapendo di poter trovare capienza nel garante, è apparentemente in contrasto proprio con la ratio ispiratrice della revocatoria.
Questo Giudice reputa tuttavia possibile un'interpretazione correttiva, che
consenta al creditore consapevole dell'insolvenza fallimentare del suo
debitore principale (circostanza che lo esime altresì dall'onere di preventiva escussione qualora pattuito) di conservare le ragioni contro il garante, purché si attivi contro quest'ultimo in tempi ragionevoli (a somiglianza di quanto avviene ad es. nell'ordinamento tedesco); in ogni caso l'impossibilità di conservare la garanzia senza intraprendere iniziative volte ad escuterla, rende poi impossibile revocare l'attribuzione compiuta dal garante (creandosi altrimenti una situazione molto simile a quella dello "stato di necessità cambiario"), non già del debitore.
Pertanto il creditore assistito da garanzie, anche prestate da terzi, è
onerato di rifiutare l'adempimento del debitore; ciò invece non si verifica
per l'adempimento del garante (13), il quale non può essere rifiutato, a pena di estinzione della garanzia, e pertanto (arg. ex artt. 1957 c.c. e 68 l.f.) neppure assoggettato a revocatoria.
Il rifiuto del pagamento del debitore non concretizza invece alcun
pregiudizio: il creditore sarà indotto infatti od a provocare l'attivazione dei
meccanismi ordinamentali di controllo dell'insolvenza (fallimento, altre
procedure concorsuali, ove conserverà lo status di creditore "preferito"),
oppure ad escutere la garanzia prestata dal terzo (realizzabile altresì al di
fuori della procedura: artt. 61- 62 l.f.); in tal caso, si vede bene come la
ricorrenza normale di un diritto di regresso del garante verso il debitore
responsabilizzi altresì il primo nel monitoraggio di quest'ultimo, così
portando alla luce altri incentivi al "controllo" della situazione finanziaria
del debitore, non completamente "disattivati" dall'operare della garanzia.
Ininfluente è poi il fatto che la ricezione del vantaggio provenga dal fallito
o da terzi oppure, come nella presente vicenda, da un procedimento insito nel meccanismo di "realizzazione" della garanzia concessa, posto che lo scopo del legislatore non è quello di "punire" un comportamento collusivo del creditore e del debitore (come si continua a credere, anche in modo forse inconsapevole e preconcetto, sulla base della tradizione storica dell'archetipo).
Se quanto si è detto è vero, ne consegue allora che, una volta superato il
preconcetto per cui l'atto revocabile deve essere posto in essere dal
debitore o con il suo concorso fattivo, è comunque errato considerare, al
fine di dirimere la questione dell'adempimento del debito assistito da
garanzia reale, l'influenza dell'atto sulla sfera del patrimonio del debitore.
Una volta invece che si sia compreso come l'istituto revocatorio non miri ad impedire tanto l'impoverimento del fallendo (né quindi sia congruo parlare di "arricchimento ingiustificato della massa"), quanto la percezione di vantaggi da parte dei creditori, diverrà anche chiaro che nulla di stravagante vi sarebbe nel predicare la revocabilità dell'atto solutorio col quale il creditore garantito soddisfa la propria pretesa verso il fallito,
"incamerando" la garanzia.
La stabilizzazione dell'effetto solutorio al contrario concretizzerebbe un
potente vantaggio per l'accipiens, sottraendolo definitivamente all'alea della realizzazione della garanzia, e disincentivando fra l'altro la vendita
efficiente qualora il valore del bene sia superiore a quello del credito; al
contrario qualora il creditore sia assoggettato al concorso, o comunque
indotto a desistere dal provvedere in via di autotutela, lo stesso è prima di
tutto costretto a condividere con gli altri creditori le spese del concorso (in armonia con la funzione anche redistributiva della revocatoria), laddove l'organo gestorio fallimentare è naturalmente incentivato a realizzare il bene secondo il suo massimo valore possibile, nell'interesse della intera massa.
Il creditore poi insinuerà la propria pretesa delusa nel passivo fallimentare
(art 71 l.f.), ove sarà ammesso, anche come creditore ipotecario, qualora il bene oggetto della garanzia immobiliare sia ancora presente nel patrimonio fallimentare, e non vi siano iscrizioni successive pregiudizievoli (arg. ex art. 2881 c.c.).
Nulla di ingiusto vi è infatti nell'affermare un principio di diritto che possa
condurre il creditore un tempo garantito a perdere la garanzia (se il bene è stato disperso od è divenuto oggetto di iscrizioni di grado poziore), posto che è l'atto "libero" e consapevole del creditore di realizzazione della garanzia a determinare tale situazione (14), laddove l'ordinamento manifesta l'esigenza di tutelare i terzi che entrino in contatto con il debitore
successivamente, e non possano pertanto valutare consapevolmente
l'eventualità che l'atto estintivo del debito sia revocato, e la garanzia
ripristinata, in carenza di qualunque riscontro pubblicitario.
Quanto all'elemento soggettivo, questo Giudice deve osservare come la
conoscenza dello stato di insolvenza debba sì essere dimostrata in termini di completezza ed effettività; tuttavia il meccanismo probatorio del processo civile comporta altresì la possibilità che tale stato soggettivo venga provato attraverso l'operare del meccanismo delle presunzioni, ossia attraverso l'inferenza della circostanza da provare da fatti esterni che rivestano i caratteri della gravità, precisione e concordanza.
Nel caso di specie non possono esservi dubbi sulla conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza del debitore al momento dell'accreditamento della somma di cui si chiede la revoca (29.4.99); probabilmente anzi la banca era consapevole delle difficoltà finanziarie (ove la conoscenza di uno stato di temporanea difficoltà di adempiere, per le ragioni che si sono anteposte, è del tutto equivalente alla vera e propria insolvenza ex art. 5 l.f., per i fini di cui all'art. 67 l.f.) sin da qualche mese prima, ed in particolare dal 19.1.99, data alla quale la banca concesse un prefinanziamento in c/c; il retro del documento, prodotto dalla convenuta, ma utilizzabile anche contro la stessa in forza del principio di acquisizione della prova, reca infatti l'indicazione dei risultati di una rudimentale analisi "andamentale" del rapporto bancario, condotta sulla scorta della tecnica bancaria e delle Istruzioni di Vigilanza; si segnala l'andamento "irregolare" del rapporto, inficiato da una "sensibile" percentuale di insoluti (50%); la relazione prosegue dando conto dell'avvenuta subordinazione della protrazione del rapporto alla concessione di garanzie reali, indicando come ipotesi il mutuo ipotecario (ossia, deve supporsi, facendo riferimento alla nota prassi di novare il saldo passivo del c/c in un mutuo, il cui importo viene
accreditato per cassa, assistito da ipoteca).
Si tratta, com'è evidente, di segnali preoccupanti, tipici delle situazioni
prefallimentari, e universalmente note agli operatori bancari di qualunque
contesto e dimensioni; certamente tali segnali attivarono un monitoraggio più assiduo ed invasivo della banca, a cominciare proprio dalla richiesta di garanzie reali.
Al riguardo non può certo essere condivisa la valutazione operata dalla
convenuta, circa un'incompatibilità logica fra concessione di nuova "finanza" e consapevolezza dello stato di decozione: il creditore può infatti ben indursi a far credito al debitore, qualora valuti positivamente le garanzie del credito, e quindi effettui una prognosi di riscossione favorevole (c.d. rischio di secondo livello), a prescindere dalla stima dell'andamento del rapporto (c.d. rischio di primo livello).
A ciò si aggiunga il livello non tenue dell'esposizione verso il settore
bancario (300 milioni senza considerare il credito fornito dalla convenuta), come si apprende ancora dal documento di cui sopra, circostanza d'altro canto nota alla banca anche in forza della disponibilità delle informazioni periodiche forniti dalla Centrale dei Rischi.
I dubbi residui evaporano qualora si consideri che in data 16.4.99 la banca recedeva dal rapporto, invocando la restituzione del saldo passivo; il 21.4.99 si risolveva ad estinguere unilateralmente ed in anticipo un c.d. con scadenza 2002, accreditandone l'importo sul conto il 29.4.99; il 6.5.99 infine, con inconsueta rapidità, indice rivelatore di una conoscenza già da tempo pienamente maturata dello stato di decozione, l'istituto chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo con clausola di provvisoria esecuzione per pericolo nel ritardo.
Il tutto senza considerare i numerosi protesti subiti dal debitore, elevati e
pubblicati nei bollettini, anche della stessa regione e provincia, sin dai primi mesi del 1999.
Difficilmente una situazione di scientia decotionis può essere
indiziariamente affermata con tanta nitidezza.
Pertanto il pagamento dovrà essere revocato, e la convenuta condannata alla restituzione in favore della curatela della somma di £ 45.104.400.
In merito alla corresponsione degli interessi, va rilevato che la natura
costitutiva del giudizio e delle sentenza che pronunzia la revocatoria (per
tutti v. Cass., sez. un., n. 5443/1996) impone di far decorrere i medesimi,
nella misura legale in forza degli artt. 1282- 1284 c.c., dalla data della
domanda, cui retroagiscono gli effetti della sentenza (Cass., Sez. Un., n.
437/00; 2468/1994), sino al saldo effettivo.
La convenuta dev'essere altresì condannata in forza della soccombenza alla rifusione delle spese di lite, che si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale di Monza, definitivamente decidendo la causa promossa da FALL.to TECNOSET di TRABATTONI nei confronti di BANCA di CREDITO COOPERATIVO di LISSONE, con atto di citazione notificato il 11.7.00, RG 6627/00, ogni altra istanza rigettata,
1) dichiara inefficace nei confronti della curatela la prelazione costituita con la scrittura 10.2.99;
2) dichiara inefficace nei confronti della curatela il pagamento di £
45.104.400 effettuato da Trabattoni Claudio in favore della convenuta;
3) condanna la convenuta a restituire al fallimento attore la somma di £ 45.104.400, oltre agli interessi al tasso legale dalla domanda sino al saldo definitivo;
4) condanna la convenuta a rifondere integralmente le spese di lite, che liquida in £ 256.000 per spese, £ 2.860.000 per onorari, £ 1.456.000 per diritti, oltre a spese generali, IVA e CPA.
Monza il 19.11.2001.


Il Giudice Unico
dott. Danilo Galletti

 

 

 











 

 

 


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