Tribunale
di S. Maria C.V., sez. fallimentare - Rel. Dongiacomo,
Sentenza emessa nella causa civile 775/95 tra BN Commercio
e Finanza s.p.a. e Fall. La Balena s.r.l. - Effetti del fallimento
sui contratti di leasing
(Omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La BN Commercio e Finanza s.p.a., con ricorso depositato in
data 14/11/1994, proponeva opposizione avverso lo stato passivo
del fallimento della La Balena s.r.l., dichiarato dall'intestato
Tribunale in data 20/1/1994.
L'opponente esponeva di aver richiesto, in data 23/3/1994,
l'ammissione al passivo fallimentare per l'importo di £.
302.251.621, in chirografo, sul fondamento di tre contratti
di locazione finanziaria stipulati con la società fallita
(nn. 24753, 24754, 24755) in data 17/9/1991, in ordine ai
quali quest'ultima si era resa morosa nel pagamento dei relativi
canoni; da qui la dichiarazione del 22/3/1993 di volersi avvalere
della clausola risolutiva espressa, contenuta nei predetti
contratti, e la richiesta la restituzione dei beni concessi
in leasing, nonché il pagamento del capitale, degli
interessi e della penale, come consacrato nel decreto ingiuntivo
n. 31/1994, concesso dal Presidente del Tribunale di Napoli
in data 11/1/1994, ma notificato alla società debitrice
dopo il suo fallimento, dichiarato con sentenza del 20/1/1994.
L'istante si doleva pertanto del provvedimento (comunicato
dal curatore con raccomandata pervenutale il 29/10/1994) con
il quale il G.D. aveva rigettato la domanda di ammissione
al passivo sul rilievo dell'applicazione al caso di specie
dell'art. 1526 c.c., osservando In contrario che, in considerazione
della loro natura imprenditoriale, della strumentalità
dei beni che ne sono stati l'oggetto nonché della loro
durata corrispondente alla vita tecnico-economica di questi
ultimi, i contratti stipulati con la società poi fallita
devono essere qualificati come leasing di godimento, e non
traslativi, con la conseguente applicazione, circa l'effetto
risolutivo, dell'art. 1458 c.c., e non, come ritenuto invece
dal G.D., dell'art. 1526 c.c..
Aggiungeva, poi, che non tutti i beni concessi in leasing
sono stati rinvenuti dalla curatela in sede di inventario.
Infine, chiariva che l'equo indennizzo deve essere determinato
in relazione ai beni come goduti dalla fallita società
fino alla loro effettiva restituzione e con riferimento al
presunto ricavo dalla rivendita degli stessi, se ancora utilizzabili.
Il Curatore del fallimento, senza costituirsi in giudizio,
all'udienza del 24/6/1997, esprimeva parere sfavorevole all'accoglimento
dell'opposizione, affermando l'applicabilità nella
specie dell'art. 1526 c.c..
Senza alcuna attività istruttoria, precisate le conclusioni
all'udienza del 4/5/1999, la causa veniva rimessa al collegio
che, all'udienza pubblica del 1/10/1999, si riservava la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare, va dichiarata la contumacia della curatela
fallimentare che, pur se regolarmente convenuta, non si è
ritualmente costituita in giudizio, neppure in ritardo.
Inoltre, va chiarito, pur se la questione relativa non è
stata sollevata in giudizio, che l'opposizione proposta è
senz'altro tempestiva.
Invero, a norma dell'art. 98 l. fall., l'opposizione allo
stato passivo fallimentare deve essere proposta entro quindici
giorni dal ricevimento della raccomandata con ricevuta di
ritorno con la quale il curatore comunica all'istante il deposito
dello stato passivo: nel caso di specie, come emerge dagli
atti di causa, l'opponente ha ricevuto la predetta comunicazione
in data 29/10/1994, mentre il ricorso introduttivo risulta
depositato in cancelleria in data 14/11/1994, essendo stato
il 13/11/1994 un giorno festivo (domenica), con conseguente
applicazione dell'art. 155, ult. comma, c.p.c..
Quanto al merito, va innanzitutto osservato che l'opponente,
in sede di comparsa conclusionale, ha formulato domande non
del tutto coincidenti con quelle proposte nell'atto introduttivo
e nel corso del giudizio: in particolare, mentre in sede di
ricorso e di precisazione delle conclusioni, l'istante (come
del resto già in sede di insinuazione tempestiva) ha
chiesto l'ammissione al passivo per la somma di £. 302.251.621,
pari ai canoni scaduti e non pagati ed agli interessi convenzionali
fino alla data del fallimento (£. 61.873.243) ed all'indennità
di risoluzione, come da prospetto agli atti (£. 240.378.378),
ovvero, in via subordinata, e per la sola ipotesi in cui si
ritenesse applicabile l'art. 1526 c.c., l'ammissione al passivo
del diritto all'equo indennizzo, da determinarsi a mezzo di
C.T.U., previa compensazione con il proprio obbligo restitutorio,
in sede di comparsa conclusionale, il ricorrente, nel confermare
la richiesta di ammissione per la somma di £. 302.251.621,
secondo i titoli prima indicati (canoni scaduti e non pagati
ed interessi fino al fallimento al tasso pattizio), ha domandato,
in via subordinata, l'ammissione per £. 61.873.243,
per i (soli) canoni scaduti e gli interessi convenzionali
fino al fallimento, senza fare alcun riferimento al diritto
all'equo indennizzo ex art. 1526 c.c..
Ciò significa che, pur confermando la domanda principale
di ammissione al passivo per £. 302.251.621, a titolo
di canoni scaduti, interessi convenzionali fino alla data
del fallimento (£. 61.873.243) ed indennità di
risoluzione (£. 240.378.378), l'opponente ha mutato
la domanda subordinata, consistita dapprima nella sola richiesta
di ammissione al passivo per il diritto all'equo indennizzo,
previa compensazione con gli obblighi di restituzione dei
canoni ricevuti, sul presupposto della qualificazione dei
contratti allegati come leasing traslativi e la conseguente
applicazione, in caso di risoluzione, dell'art. 1526 c.c.,
e poi nella sola istanza di insinuazione per i soli canoni
scaduti e gli interessi convenzionali (e quindi senza l'indennità
di risoluzione), sul diverso presupposto della qualificazione
dei contratti predetti come leasing di godimento e la connessa
applicazione, in ipotesi di risoluzione, dell'art. 1458, comma
2°, seconda ipotesi, c.c..
Ne deriva che, in difetto di espressa riproposizione, in sede
di comparsa conclusionale, della domanda di ammissione al
passivo per il diritto all'equo indennizzo, neppure in via
subordinata, la relativa istanza deve considerarsi abbandonata,
potendosi infatti ragionevolmente presumere (e senza con ciò
violarne la funzione tipica ex art. 190 c.p.c.) che se il
richiedente, in sede di comparsa conclusionale, non ha riformulato
una determinata domanda, ciò vuol dire che egli ha
insistito solo sulle deduzioni espressamente ribadite (cfr.
Cass. n. 108/1997); del resto, la domanda di ammissione per
il diritto all'equo indennizzo risulta formulata, sia pur
in via subordinata, solo in sede di opposizione allo stato
passivo, laddove il ricorso ex art. 98 l. fall. è utilizzabile
solo per far valere, in sede di impugnazione, richieste già
proposte in sede di insinuazione tempestiva: sono inammissibili,
pertanto, domande nuove o più ampie (cfr. Trib. Torino
15/3/1996).
Inoltre, nessun rilievo può attribuirsi alla domanda
formulata per la prima volta in sede di comparsa conclusionale
(pur se quella proposta nel caso di specie è già
contenuta nella stessa domanda principale), trattandosi di
domanda inammissibile anche nel vigore del c.d. vecchio rito
civile, applicabile alla presente causa in quanto introdotta
prima del 30/4/1995, ai sensi dell'art. 90 l. n. 353/1990
(cfr. Cass. n. 982/1989).
Ciò significa che, essendo inammissibili tutte le domande
proposte come subordinate, l'unica richiesta che il collegio
deve prendere in considerazione è la domanda principale
di ammissione al passivo per i canoni scaduti, interessi convenzionali
fino al fallimento e indennità di risoluzione per £.
302.251.621.
Così delimitato l'ambito oggettivo della controversia,
può esaminarsi il merito della (unica) domanda proposta.
Ciò richiede l'identificazione della natura giuridica
dei contratti di leasing dedotti in giudizio e, quindi, della
disciplina che li regola: in particolare, occorre stabilire
se, in caso di risoluzione, trova applicazione l'art. 1458
c.c. ovvero l'art. 1526 c.c..
Il problema, come è noto, secondo un primo orientamento
dei giudici di legittimità, è stato risolto
nel ritenere applicabile al contratto di leasing, unitariamente
considerato, le norme sul contratto in generale, con conseguente
operatività, in caso di risoluzione, della norma dell'art.
1458, 1° comma, c.c., definitiva acquisizione al concedente
dei canoni percetti ed inapplicabilità della disposizione
dell'art. 1526 c.c., sia in via indiretta, che in via analogica
(cfr. Cass. n. 5623/1988; 3023/1986; 6390/1983).
Siffatto orientamento non era stato, però, recepito
da un consistente contrario indirizzo della giurisprudenza
di merito e da una parte della dottrina.
I giudici di legittimità, attenti alle argomentazioni
critiche svolte dall'indirizzo contrario a quello da essi
manifestato, nonché alla evoluzione subìta dal
nuovo modello contrattuale, con alcune sentenze pronunziate
alla fine del 1989, hanno, da un canto, ribadito la validità
dell'orientamento espresso in precedenza, ma, dall'altro,
identificato nell'ambito del più ampio "genus"
del leasing un tipo di contratto che si sottrae ai principi
dianzi enunciati (Cass. n. 5570/89; n. 5572/89; n. 5573/89).
Successivamente sono intervenute ulteriori pronunce della
Suprema Corte che hanno confermato e consolidato il nuovo
orientamento, esaminando approfonditamente e sotto diverse
angolazioni tutta la questione riproposta nel presente giudizio,
delineando in modo risolutivo i caratteri e la disciplina
della fattispecie in esame (Cass. n. 11614/1998, in Foro it.
1999, I, 2608; n. 12790/1997; n. 7169/1995; 8464/1995; n.
2743/1994; n. 1731/1994; sez. un. n. 65/1993; n. 7556/1992;
n. 2083/1992; n. 6357/1991).
Il Collegio ritiene di dover aderire a tale orientamento,
condividendo le argomentazioni che lo fondano e senza sia
necessaria una loro rimeditazione, perché la società
opponente non ha dedotto alcuna ragione nuova o non esaminata
dai giudici di legittimità nelle pronunzie dianzi richiamate
che possa indurre pur solo a dubitare della loro correttezza.
Pertanto, è sufficiente ricordare che la Corte regolatrice,
all'esito delle ampie ed esaustive motivazioni svolte nelle
succitate pronunzie, che qui devono intendersi integralmente
richiamate e condivise, ha chiarito come "il leasing
finanziario, partendo dalla fattispecie originaria e, per
così dire, storica, ha finito per avere espansione
in settori diversi, assumendo funzioni economiche distinte
da quella iniziale", sostanziantesi in quella di finanziamento
a scopo di godimento del bene (Cass. n. 5573/1989).
Accanto a questa figura di leasing c.d. "tradizionale"
si è, infatti, sviluppata una seconda figura, definita
anche "leasing traslativo", che "costituisce
una deviazione o meglio un superamento dell'originaria locazione
finanziaria" (Cass. n. 6357/1991), connotata dal costituire
la vendita "un elemento caratteristico causale coessenziale
con la funzione finanziaria" (Cass. sez. un. n. 65/1993,
richiamando Cass. n. 5573/1989).
Le caratteristiche strutturali del leasing tradizionale o
"di godimento" sono state, quindi, così identificate:
a) sotto il profilo causale, dalla funzione di finanziamento;
b) sotto il profilo dell'assetto degli interessi, nell'identificazione
di quello del concedente nell'intento di realizzare un impiego
remunerativo del capitale e di quello dell'utilizzatore "nell'ottenere
non già la proprietà immediata del bene, bensì
la disponibilità del bene stesso, senza esborso di
capitali rilevanti, con la conseguente acquisizione del valore
di consumazione economica e del potere di sfruttamento del
bene, da lui stesso prescelto per le esigenze della sua impresa,
fino alla pressoché totale obsolescenza di esso".
Pertanto, in tale figura il trasferimento di proprietà
del bene è nella volontà delle parti meramente
eventuale, se non addirittura irrilevante: le quote di canone
sono determinate non in vista del trasferimento del bene,
non incorporano, quindi, ratei di prezzo, ma "soltanto
ratei del valore d'uso del bene dalle parti ragguagliato,
nell'entità, all'impiego del capitale della società
di leasing, oltre all'utile ed all'obsolescenza del bene".
Ciò significa che, alla scadenza del contratto il bene,
a causa dell'obsolescenza tecnica, ha un valore pressoché
nullo.
Il contratto è atipico, non ragguagliabile alla vendita
ed alla locazione, è regolato dalle norme generali
sui contratti, e quindi, dall'art. 1458,1° comma, 2^ ipotesi,
c.c., e, sussistendo una perfetta corrispettività e
sinallagmaticità tra le prestazioni delle parti durante
lo svolgimento del rapporto, neppure si pone alcun problema
di squilibrio in conseguenza del trattenimento di tutti i
canoni percetti da parte del concedente.
Diversi sono, invece, gli elementi strutturali del c.d. "leasing
traslativo" che presenta le seguenti caratteristiche:
a) la vendita del bene assume rilevanza causale essenziale,
essendo il godimento concesso in vista della alienazione,
pur se è comunque identificabile la funzione di finanziamento,
perché il contratto consente all'imprenditore di acquisire
il bene, nonostante egli non abbia capitali adeguati;
b) nell'assetto degli interessi delle parti, l'intento del
concedente non differisce di molto da quello del leasing finanziario,
ma si accentua la funzione garantistica del bene, mentre,
invece, l'interesse dell'utilizzatore è quello di acquisire
la proprietà del bene, e ciò perché,
alla scadenza del contratto, il valore economico residuo del
bene è di gran lunga superiore al prezzo di opzione:
i ratei pagati scontano, infatti, non solo il valore di godimento,
ma anche il valore del bene e ciascun canone sconta una quota
di prezzo ed al termine del rapporto l'acquisto costituisce
una "situazione di fatto necessitata per l'utilizzatore",
proprio "avuto riguardo alla sproporzione tra (l'ancor
notevole) valore residuo del bene ed il modesto prezzo di
opzione", sempre che non voglia affrontare una perdita
economica secca (cfr. Cass. n. 2743/1994 cit.); non sussistendo
una corrispettività tra le prestazioni, si integra
un evidente squilibrio se la società trattiene i canoni
e la cosa resta anche in sua proprietà.
Delineata così la figura del leasing traslativo, nei
suoi aspetti funzionali e strutturali, appaiono evidenti le
analogie con la vendita con riserva di proprietà: "non
esiste, infatti, una sensibile differenza nella funzione socio
economica tra l'ipotesi in cui, nella previsione negoziale
del pagamento del prezzo di un bene, le parti esprimano attualmente
la volontà di acquisto e di vendita del bene, condizionando
il verificarsi dell'effetto reale al pagamento dell'intero
prezzo, e l'ipotesi in cui, sempre nella previsione negoziale
del pagamento rateale del prezzo, le parti consentano all'utilizzatore
di esprimere la volontà di acquisto del bene al termine
del rapporto, nella consapevolezza che, senza concrete alternative,
l'utilizzatore dovrà esprimere detta volontà
acquisitiva" (Cass. n. 2743/994 cit.).
Questi ed altri elementi di analogia con il contratto di vendita
con riserva di proprietà, concernenti la disciplina
del rischio di perimento della cosa e dell'esercizio delle
azioni che ordinariamente competono al proprietario della
cosa, hanno consentito ai giudici di legittimità di
affermare l'applicabilità al contratto di leasing traslativo
della identica disciplina, ricollegata al dettato dell'art.
1526 c.c.: detta norma è, infatti, finalizzata ad evitare
che, in seguito all'inadempimento del compratore, l'equilibrio
contrattuale risulti alterato in suo danno e con indebito
vantaggio del venditore.
La disposizione dell'art. 1526 c.c è, quindi, una norma
imperativa, che esprime un principio generale di tutela di
interessi omogenei a quelli disciplinati dal leasing traslativo,
nonché di strumento di controllo negoziale dell'autonomia
delle parti.
Naturalmente, l'individuazione dell'uno o dell'altro tipo
di leasing non deve avvenire seguendo un criterio di pura
e semplice valutazione del valore residuale del bene al momento
dell'interruzione del rapporto, accertando se lo stesso superi
oppure no l'entità dei canoni versati, assumendo invece
rilievo l'originaria previsione di tali valori al momento
della stipula dell'atto, non potendosi infatti escludere che
la valutazione del bene eseguita al momento dell'interruzione
del rapporto sia diversa rispetto a quella risalente al momento
della conclusione dell'accordo, e ciò per le cause
più disparate ed impreviste, inerenti, ad esempio,
alla conservazione ed alla manutenzione del bene stesso (cfr.
Cass. n. 8454/1992): occorre, pertanto, riferirsi alla volontà
negoziale delle parti, e precisamente alla "previsione
delle parti circa il valore residuale del bene al momento
della naturale scadenza del contratto", nel senso che
"... per la distinzione tra i due tipi contrattuali e
la loro correlativa disciplina in caso di risoluzione, ciò
che acquista rilievo è il fatto che la previsione di
futura utilizzabilità del bene superi la durata del
contratto" (Cass. n. 12790/1997 cit.; in tal senso anche
Cass. n. 1731/1994 cit., che espressamente fa riferimento
alla "effettiva volontà delle parti contraenti...tradotta
nell'accordo negoziale con riguardo al prevedibile scarto
finale tra valore del bene e prezzo di opzione", nonchè
Cass. n. 11614/1998 cit., che si riferisce al "prevedibile
valore residuo del bene alla scadenza del contratto e prezzo
di opzione: perchè se il primo sopravanza in modo non
indifferente il secondo, ciò sta a significare che
i canoni hanno incluso per una parte il corrispettivo del
valore d'uso e per un'altra il corrispettivo del valore di
appartenenza").
Delineato in tal modo il quadro giuridico di riferimento,
il problema si incentra nella identificare a quale delle due
figure dianzi delineate siano riconducibili i contratti di
leasing stipulati tra l'opponente e la società poi
fallita.
Il problema va risolto alla luce delle peculiarità
della fattispecie in esame e costituisce una "quaestio
voluntatis".
A tal fine, peraltro, di sicuro e notevole ausilio è
il riferimento alla griglia di indici identificati dalla Suprema
Corte come elementi idonei a consentire la corretta qualificazione
del contratto.
Tra essi, come giustamente affermato dall'opponente, sono
di indubbia e particolare significatività quelli concernenti
la qualità dei contraenti e l'oggetto del contratto.
La funzione di finanziamento è, infatti, apprezzabile
in modo incontrovertibile nel caso l'utilizzatore sia un imprenditore,
interessato ad acquisire la disponibilità di un bene
strumentale, senza impiegare i capitali necessari per l'acquisto.
Del resto, a tale acquisto neppure è interessato, perché
l'obsolescenza tecnologica alla quale è soggetto il
bene lo rende inidoneo ad essere proficuamente utilizzato
nel processo produttivo alla scadenza del contratto.
La funzione traslativa emerge, invece, con chiara evidenza
nel caso l'utilizzatore non sia un imprenditore ed il contratto
ha ad oggetto beni standardizzati e di consumo.
Pertanto, la qualità delle parti e l'oggetto del contratto
(perché non consistente in un bene strumentale alla
conduzione imprenditoriale, ma in un bene standardizzato e
di consumo) costituiscono i preliminari, e forse più
inequivoci elementi in grado di consentire l'agevole qualificazione
del contratto.
Siffatti indici, se pur importanti, ancora non sono però
- a giudizio del Tribunale - esaustivi per una corretta esegesi
degli atti negoziali dedotti in giudizio: invero, i beni strumentali
non sono affatto sempre necessariamente caratterizzati da
una vita economica e tecnologica così effimera da far
ritenere che essi finiscano con il perdere ogni reale valore
di utilizzo nel più o meno breve arco di tempo coincidente
con la durata del contratto; inoltre, sovente, per la considerazione
da ultimo svolta, ma anche per la mancanza dei capitali necessari
a consentire l'immediato acquisto del bene, anche l'imprenditore
si determina alla stipulazione del contratto di leasing, ma
avendo di mira l'acquisizione definitiva del bene.
Dunque, è necessario, come già prima rilevato,
avere riguardo alla specifica peculiarità del bene
strumentale, accertando se esso si consumi (economicamente
e tecnologicamente) alla scadenza del contratto o se, invece,
abbia un residuo valore, significativamente eccedente il prezzo
di opzione: in tale ultima ipotesi, infatti, non può
non trasparire la volontà delle parti volta alla vendita
ed all'acquisto del bene, perché la divergenza tra
valore residuale e prezzo d'opzione non è altrimenti
giustificabile che con la considerazione che i canoni pagati
incorporano anche ratei di prezzo.
Tale accertamento è agevolato poi da ulteriori indici,
che sono espressivi della originaria volontà di privilegiare
il trasferimento del bene e puntualmente identificati in:
a) previsione della facoltà dell'utilizzatore di chiedere,
anche tacitamente, la proroga del rapporto;
b) obbligo dell'utilizzatore di consegnare il bene in buono
stato di manutenzione e di funzionamento.
Trattasi, infatti, di circostanze espressive della consapevolezza
delle parti in ordine alla mancata consumazione del bene e
dell'avere essi alla scadenza del contratto un significativo
valore residuo.
L'equilibrio tra le prestazioni è, quindi, assicurato
solo dall'acquisto del bene da parte dell'utilizzatore.
L'applicazione degli indici così delineati consente
agevolmente di affermare che i contratti in esame sono riconducibili
alla figura del c.d. leasing traslativo (con conseguente applicabilità
dell'art. 1526 c.c., trattandosi di contratti risolti dalla
società concedente con la dichiarazione di volersi
avvalere della clausola risolutiva espressa in essi contenuta,
comunicata alla società poi fallita in data 22/9/1992),
a nulla rilevando la qualità dell'utilizzatore (un
imprenditore) e dei beni oggetto dei contratti (beni strumentali
all'impresa), perché, come si è detto, sono
indici sì rilevanti, ma non esaustivi al fine della
corretta esegesi degli atti in questione.
In tal senso depone, innanzitutto, la considerazione della
natura dei beni che ne sono stati l'oggetto, e cioè,
tra l'altro, diversi banchi frigorifero e bilance, un impianto
frigorifero centralizzato (contratto n. 24753), un p.c. con
monitor, stampante e software, due misuratori fiscali e due
scanner metrologici (contratto n. 24754), un ducato FIAT (contratto
n. 24755): trattasi di beni per i quali nozioni di comune
esperienza (art. 115, comma 2°, c.p.c.) portano ad escludere
che rientrino tra quelli destinati a consumarsi economicamente
e tecnologicamente nell'arco della durata naturale del contratto,
e cioè, nella specie, cinque anni per i primi due,
e tre anni per il terzo, e ciò specie se si tien conto
dell'irrisorio prezzo di opzione, contrattualmente previsto,
rispettivamente, in £. 1.900.000, £. 220.000 e
£. 205.882.
A fronte di tali circostanze, è difficile negare che
le parti avessero previsto, al momento della stipula dei contratti
in esame, che, alla loro naturale scadenza, l'acquisto dei
beni concessi in leasing da parte dell'utilizzatore sarebbe
stata per lo stesso una scelta formalmente libera, ma sostanzialmente
necessitata, a meno di non voler subire una perdita economica
secca.
Inoltre, siffatta conclusione è confortata dalla ricorrenza
di ulteriori indici quali la previsione della facoltà
di proroga, anche tacita, del contratto e l'obbligo dell'utilizzatore
di restituzione delle cose locate "nello stato medesimo
in cui le ha ricevute salva la normale usura derivante dall'uso
delle cose in conformità del contratto" (art.
14): dette clausole sono, infatti, chiaramente espressive
della consapevolezza del perdurante valore dei beni alla scadenza
del contratto, della sua palese eccedenza rispetto al prezzo
d'opzione e della coessenzialità al contratto della
causa di trasferimento.
Dalla ritenuta configurabilità dei contratti dedotti
in giudizio come di leasing traslativo consegue l'applicabilità
al caso di specie della norma dell'art. 1526 c.c..
Infatti, i contratti in esame, come dedotto incontestatamente
dall'opponente, si sono risolti di diritto prima della dichiarazione
di fallimento della società utilizzatrice in conseguenza
della dichiarazione con la quale, in data 22/9/1993, la concedente
ha comunicato di volersi avvalere della clausola risolutiva
espressa in essa contenuti, a causa della morosità
nel pagamento dei canoni pattuiti.
Ne deriva che, a norma dell'art. 1526, comma 1°, c.c.,
essendo derivata la risoluzione del contratto dall'inadempimento
del compratore, "il venditore deve restituire le rate
riscosse...": ora, nella specie, se da un lato tale norma
non può comportare la condanna della società
concedente alla restituzione dei canoni percepiti, difettando
una domanda riconvenzionale in tal senso della curatela convenuta,
pur se proponibile anche nel giudizio ex art. 98 l. fall.
(T. Genova 22.12.1983; T. Milano 21.3.83), dall'altro lato
determina quanto meno che l'opponente non può essere
ammesso al passivo per i canoni scaduti e non pagati e per
gli interessi contrattuali calcolati fino alla data del fallimento,
non trovando applicazione, come si è detto, l'art.
1458, comma 1°, c.c., nella parte in cui sancisce l'irretroattività
della risoluzione dei contratti a prestazione continuata (cfr.
Cass. n. 5573/1989: nel caso di risoluzione di un leasing
di godimento, alla società concedente spetta il diritto
di credito ai canoni maturati fino alla dichiarazione di fallimento,
oltre alla restituzione dei beni, mentre nel caso di risoluzione
di un leasing traslativo, alla società concedente compete,
oltre alla restituzione dei beni, soltanto il diritto all'equo
indennizzo, compensabile con l'obbligo alla restituzione dei
canoni eventualmente percepiti).
La norma dell'art. 1526 c.c. fa, peraltro, espressamente salvo
il diritto all'equo compenso per l'uso della cosa, oltre al
risarcimento dei danni, ed, al secondo comma, stabilisce che
"qualora si sia convenuto che le rate pagate restino
acquisite al venditore a titolo di indennità, il giudice,
secondo le circostanze, può ridurre l'indennità
convenuta".
Nella specie, l'opponente ha di fatto abbandonato la domanda
di ammissione al passivo per il diritto all'equo indennizzo,
e non ha proposto, almeno in questo giudizio, la domanda di
restituzione dei beni rinvenuti ovvero di ammissione del credito
al controvalore pecuniario di quelli non rinvenuti in sede
di inventario, proponendo, invece, la domanda di insinuazione
al passivo (anche) per l'indennità di risoluzione dei
contratti, per l'ammontare complessivo di £. 240.378.378,
come da clausola negoziale in tal senso (art 13).
Il problema è allora quello del diritto della concedente
all'ammissione al passivo per il risarcimento dei danni, nella
misura contrattualmente prevista, a fronte della risoluzione
di diritto dei contratti stipulati, quale conseguenza della
clausola risolutiva espressa in essi contenuta, e della dichiarazione
di volersene avvalere resa dalla concedente prima del fallimento
dell'utilizzatrice.
La risposta deve essere positiva: il contraente adempiente
ha senz'altro acquisito il diritto alla risoluzione prima
del fallimento, ed il connesso diritto ai danni subìti.
Infatti, in caso di previsione della clausola risolutiva espressa,
quando il contraente "in bonis" se ne sia avvalso
prima del fallimento, il contratto deve ritenersi già
risolto alla data di apertura della procedura concorsuale
(Cass. n. 6713/1982), tant'è che la relativa pronunzia
non ha natura costitutiva, ma meramente dichiarativa dell'avvenuta
risoluzione.
Ne consegue che il diritto al risarcimento dei danni maturati
prima del fallimento deve ritenersi acquisito (Cass. n. 2826/1979),
con esclusione della sua natura postfallimentare.
L'intervenuto fallimento e l'inderogabilità del rito
della verifica per l'accertamento dei crediti nei confronti
della massa, esteso anche alle azioni di accertamento indefettibilmente
preordinate alla determinazione del danno, comportano l'obbligo
della domanda ex art. 93 l. fall. ovvero, in sede di opposizione,
del ricorso ex art. 98 l. fall..
In caso di sua proposizione anteriormente al fallimento, il
meccanismo identificato per conservarne l'effetto introduttivo
è stato identificato dai giudici di legittimità
nella riassunzione della medesima in sede fallimentare (cfr.
Cass. n. 12396/1998; n. 828/1983; n. 558/1962).
Nella specie, è agevole riscontrare che la ricorrente
si era avvalsa della clausola risolutiva espressa (e fondatamente,
in conseguenza dell'incontestata morosità nel pagamento
dei canoni da parte della società poi fallita), prima
del fallimento: ed infatti, prima del 20/1/1994, data del
fallimento della La Balena s.r.l., la BN Commercio e Finanza
s.p.a. ha iniziato contro la società utilizzatrice
il giudizio monitorio (proprio sul presupposto dell'intervenuta
risoluzione di diritto dei contratti stipulati), ottenendone
la condanna al pagamento (tra l'altro, dei danni convenzionalmente
determinati) con un decreto ingiuntivo notificato alla debitrice
dopo la sentenza di fallimento e quindi alla massa dei creditori
inopponibile, ed ha, quindi, riassunto il giudizio in sede
fallimentare, proponendo prima la domanda ex art. 93 l. fall.
e poi il ricorso ex art. 98 l. fall..
Ciò premesso, va osservato che le parti hanno quantificato
l'indennità di risoluzione facendo riferimento al valore
residuo dei beni locati al momento della risoluzione ed al
50 % dei canoni a scadere (v. prospetto depositato agli atti).
Il problema è allora quello della sua eccessiva onerosità
o meno.
Infatti, come si è detto, la norma dell'art. 1526,
comma 2°, c.c. dispone che, se le parti prevedono, in
caso di risoluzione del contratto, il diritto del concedente
a trattenere le rate ricevute a titolo di indennità,
il giudice può ridurre l'indennità convenuta.
Nella specie, tale norma non appare applicabile, posto che
l'indennità di risoluzione fissata dalle parti non
fa riferimento alle rate pagate dall'utilizzatrice ed al relativo
trattenimento, ma bensì, come si è detto, al
valore residuo dei beni al momento della risoluzione ed al
50 % dei canoni a scadere.
Si applica, pertanto, la norma generale dell'art. 1384 c.c.,
che pure, in materia di clausola penale, dispone che il giudice
può ridurla equitativamente (e si ritiene anche di
ufficio), quando la prestazione è stata parzialmente
eseguita ovvero quando la penale è manifestamente eccessiva,
avendo sempre riguardo all'interesse del creditore all'adempimento.
Nella specie, l'indennità di risoluzione prevista a
titolo di penale dalle parti contraenti risulta composta,
come si è detto, dal valore residuo dei beni locati
al momento della risoluzione e dal 50 % dei canoni a scadere.
A giudizio del collegio, la penale così pattuita va
ridotta, non solo perché la società poi fallita
ha parzialmente adempiuto alla propria obbligazione, pagando
una parte dei canoni dovuti, ma anche perché la stessa
appare manifestamente eccessiva, se solo si considera che
la società concedente, in conseguente della risoluzione,
ha sia diritto alla restituzione dei beni (ovvero, in mancanza,
al loro controvalore in denaro), che quello all'equo indennizzo
per l'uso della cosa da parte dell'utilizzatore, con la conseguenza
che (indipendentemente dal fatto che tali diritti siano stati
esercitati o meno, in questo ovvero in altro processo), ove
mai l'indennità così come quantificata dalle
parti fosse riconosciuta nella misura pattuita e richiesta,
l'odierna ricorrente finirebbe per ricevere due volte, e senza
alcuna giustificazione, la stessa attribuzione patrimoniale,
prima quale diritto alla restituzione in natura dei beni locati
(e/o al loro controvalore pecuniario), oltre all'equo compenso
per l'uso effettuatone medio tempore, e poi quale componente
del diritto all'indennità di risoluzione.
Del resto, l'interesse della società concedente leso
dall'inadempimento dell'utilizzatore non giustifica la reintegrazione
per equivalente nella misura convenuta, atteso che la stessa,
in conseguenza della risoluzione, riceve (ovvero ha il diritto
di ricevere) un'integrale reintegrazione patrimoniale, mediante
il diritto alla restituzione dei beni (od al loro controvalore
pecuniario) ed il diritto all'equo indennizzo per l'uso ed
il deterioramento subito: in pratica, la concedente, mediante
i diritti riconosciutigli dalla legge in caso di risoluzione
del contratto ex art. 1526, comma 1°, c.c. (diritto alla
restituzione dei beni e diritto all'equo indennizzo), consegue,
in natura ed in denaro, un'attribuzione patrimoniale almeno
pecuniariamente corrispondente al valore dei beni locati al
momento della stipula del contratto.
In definitiva, l'indennità (e cioè la penale)
prevista dalle parti va ridotta, e tale riduzione va rapportata
alla parte rappresentata dal controvalore dei beni locati.
Pertanto, l'indennità va equitativamente riconosciuta
solo per il residuo, e cioè per la somma corrispondente
al 50 % dei canoni a scadere, e cioè, come è
dato desumere dal prospetto allegato, per £. 93.221.000,
che è, pertanto, la somma per cui l'opponente va ammessa
allo stato passivo del fallimento resistente, in chirografo.
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