I
profili penali del progetto Mirone
di
Giovanni Flora
Avvocato, Ordinario di Diritto penale Universita di Firenze
La riorganizzazione dei reati societari
3.
A) Per quanto riguarda la progettazione delle ipotesi dei
reati societari, che - come già accennato - aspira
ad una vera e propria riorganizzazione sistematica della stessa,
essa prevede sia la riformulazione di fattispecie già
esistenti (ad es. falso in bilancio), sia la creazione di
fattispecie di nuovo conio (es. "infedeltà patrimoniale").
Tra
le fattispecie oggetto di un intervento di ristrutturazione
meritano, a mio avviso, particolare attenzione quella sul
falso in bilancio ed in altre comunicazione sociali (lett.
a), punto 1) e quella sulla c.d. bancarotta societaria (lett.
g).
Inutile
dire che le maggiori curiosità sono suscitate proprio
dalle modifiche che il progetto apporta alla norma ora contenuta
nell'art. 2621 c.c.
Essa,
infatti, ha recentemente conosciuto una vera e propria esplosione
di popolarità nella prassi giudiziaria ed è
stata - com'è noto - oggetto di numerose ipotesi (anche
sotto forma di veri e propri progetti) di riforma e finanche
di abrogazione (come reazione ad una invero eccessiva dilatazione
interpretativa da parte della magistratura).
La
commissione governativa, scartata l'idea di una insensata
abrogazione, ha percorso la strada di una più precisa
delimitazione del falso penalmente rilevante, giocando su
una pluralità di elementi.
Innanzi
tutto, ha ristretto la cerchia dei soggetti attivi, con espunzione
dei soci fondatori e dei promotori.
In
secondo luogo, ha chiaramente individuato la condotta incriminata,
alternativamente, nella propalazione di informazioni false
o nell'occultamento di informazioni (vere). Ciò significa,
in primis, che essa si sostanzia nella violazione di un (preesistente)
dovere di corretta informazione e, poi, che la "comunicazione"
rilevante è quella che è destinata a fungere
da base (appunto, "informativa") per le determinazioni
dei destinatari. Inoltre, lo stesso progetto si preoccupa
di sottolineare che la condotta elusiva del dovere di informazione
deve essere idonea a trarre in inganno i destinatari. Esplicitando
come requisito costitutivo un elemento che, in base a consolidati
canoni ermeneutici, dovrebbe comunque ritenersi una costante
delle fattispecie penali (cfr. anche l'art. 3 del Progetto
di legge delega per la riforma del codice penale elaborato
dalla Commissione Pagliaro). Di tal ché l'inciso che
Banca d'Italia e Ministero del Tesoro propongono di inserire
nel testo (cfr. punto 5: "le informazioni debbono essere
significative e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione
della situazione stessa") potrebbe rivelarsi da un lato
superfluo, da un altro lato attributivo di un eccessivo potere
discrezionale al giudice; ai limiti dell'indeterminatezza
costituzionalmente censurabile.
Non
solo, ma l'informazione (o sua omissione), oltre a possedere
idoneità ingannatoria, deve concernere fatti (anche
se oggetto di valutazione) e, quindi, non mere valutazioni
(cfr. punto 4); pur se tale circostanza, secondo la commissione,
dovrebbe costituire oggetto del contenuto della relazione
e non del testo della norma. A mio avviso, però, anche
in considerazione dell'annoso e mai sopito dibattito sul punto,
sarebbe auspicabile che tale scelta di campo fosse esplicitata
nel modello descrittivo della fattispecie e non affidata unicamente
al "buon cuore" della relazione (ché sembra
costituzionalmente improbabile istituire per delega un vincolo...
all'estensore della relazione).
E
ancora: viene attribuita rilevanza alle sole comunicazioni
(rectius, informazioni) sociali dirette ai soci o "al
pubblico", con esclusione quindi di quelle tra organi
sociali (o rivolte ad organi sociali di altre società,
ancorché collegate o del medesimo gruppo) e di quelle
indirizzate ad un unico soggetto o a più soggetti determinati,
nonché, ovviamente, di quelle rese all'amministrazione
finanziaria dello Stato. L'indicazione, tra i destinatari,
anche del "pubblico" potrà certo comportare
qualche problema interpretativo (es.: le informazioni rese
nel corso di un'intervista televisiva sono "dirette al
pubblico"? e quelle propalate nel corso di un ricevimento
agli invitati?); ma è significativa del fascio di interessi
che la norma tutelerebbe: non solo quelli "interni"
alle società, ma anche quelli "esterni",
secondo indirizzi peraltro ormai consolidati.
Sempre
con riguardo alle specificazioni dell'oggetto materiale della
condotta, occorre però segnalarne anche un ampliamento
rispetto all'attuale testo.
Mentre
la vigente disposizione sul falso in comunicazioni sociali
fa riferimento a quelle concernenti la costituzione e le condizioni
economiche della società, quelle del progetto, espunto
il richiamo alla "costituzione" (per coerenza con
la esclusione dei promotori e fondatori dal novero dei soggetti
attivi), menziona anche le informazioni relative alle condizioni
patrimoniali e finanziarie, includendovi altresì quelle
concernenti il gruppo cui la società appartiene, nonché
quelle riguardanti beni posseduti o amministrati dalla società
per conto terzi. Quest'ultima previsione, in particolare,
potrebbe ingenerare delicati problemi di contemperamento degli
obblighi penalmente sanzionati di informazione, e quelli di
riservatezza nelle gestioni o amministrazioni fiduciarie.
Una
doppia qualificazione del dolo
Ma
l'intervento delimitatore più incisivo è compiuto
facendo leva sulla nuova struttura dell'elemento soggettivo
del reato. Eliminato (era ora!) il famigerato avverbio "fraudolentemente"
(sulla cui interpretazione tante menti si sono, spesso vanamente,
fiaccate), il progetto punta decisamente su una doppia qualificazione
del dolo in funzione restrittiva del campo della punibilità:
dolo intenzionale ("intenzionalmente espongono")
e dolo specifico ("al fine di conseguire per se o per
altri un ingiusto profitto"). Occorrerà dunque
non solo che l'autore sia mosso dalla precisa e consapevole
volontà di fornire false informazioni (o di occultare
doverose informazioni vere); ma anche dall'altrettanto preciso
e consapevole intento di conseguire un profitto (da intendersi
- a mio avviso - in senso patrimoniale) per sé o anche
per altri (e quindi anche per la stessa società interessata).
Proprio
da questa modifica, che tocca l'elemento soggettivo, ci si
possono attendere i più significativi risultati sul
piano della restrizione, ai casi più gravi, della portata
applicativa della norma. L'esperienza giurisprudenziale del
"nuovo" art. 323 c.p. (abuso d'ufficio) il cui fulcro
è rappresentato proprio dal dolo intenzionale (anche
qui occorre che l'agente pubblico abbia di mira proprio il
risultato offensivo indicato nella norma), lascia ben sperare.
La
seconda (o, meglio, le seconde) fattispecie oggetto di un
energico intervento di ristrutturazione e su cui vale la pena
soffermarci è quella (sono quelle) della cosiddetta
bancarotta societaria (art. 233, secondo co. n. 1 L.F.).
Il
progetto in esame, infatti, contempla che le vigenti norme
in materia vengano riformulate conferendo rilevanza alle sole
condotte (già costituenti reati societari) che possiedano
efficacia (con-) causale rispetto al dissesto della società.
In
tal modo, si fanno rientrare le suddette ipotesi criminose
nell'alveo del principio di personalità della responsabilità
penale (art. 27 Cost.), impresa che la dottrina e la più
sensibile giurisprudenza tentano di realizzare già
in via interpretativa, ma con alterne fortune.
Infatti,
poiché il dissesto (concetto della cui identità
o diversità con quello di "insolvenza" certo
si discuterà) è palesemente costruito come evento
del reato, in primo luogo, dovrà in concreto esserne
accertata la dipendenza (con-) causale dalla condotta; in
secondo luogo, tale evento dovrà costituire oggetto
del dolo e cioè dovrà essere previsto e voluto
dall'autore come conseguenza della sua condotta illecita.
Soluzione perfettamente plausibile, poiché il "dissesto",
al contrario della dichiarazione di fallimento, è requisito
che, sotto il profilo "ontologico", ben può
costituire sia effetto causalmente riconducibile ad una precisa
condotta, sia oggetto di previsione e di volontà da
parte dell'autore.
Ma,
una tale modifica strutturale delle fattispecie di bancarotta
societaria incentrate su condotte costituenti reati societari,
non potrebbe non riflettersi, per ragioni di coerenza sistematica,
anche sull'assetto di tutte le altre fattispecie di bancarotta
societaria: quella di cui all'art. 223, comma primo L.F. (che
richiama i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale) e
quella di cui all'art. 223, comma secondo n. 2) L.F. (cagionamento
doloso del fallimento della società ad opera dell'amministratore,
direttore generale o liquidatore). Nel senso che anche in
esse il riferimento al "fallimento" dovrebbe essere
sostituito da quello al dissesto della società da intendersi
come evento del reato.
Ferma
restando, a mio avviso, la necessità di mantenere comunque
il requisito della dichiarazione di fallimento, non certo
quale evento tipico, ma quale mera condizione obiettiva estrinseca
di punibilità.
Corruzione
e infedeltà patrimoniale
Tra
le fattispecie di nuovo conio spiccano quelle di corruzione
e di "infedeltà patrimoniale".
Il
nuovo reato di corruzione, che tra i soggetti attivi, oltre
ad amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori,
annovera anche non meglio precisati "responsabili"
della revisione, appare modellato sulla falsariga della corrispondente
fattispecie di delitto contro la pubblica amministrazione
di corruzione propria antecedente, ritenuta la forma più
grave di "compravendita" di atti doverosi (art.
319 c.p.).
Con
questa presenta infatti vistose analogie, ma anche significative
differenze.
La
prima analogia è costituita dall'ossatura della condotta
consistente nel tenere un comportamento attivo od omissivo
costituente violazione di obblighi inerenti la carica o l'ufficio
(privati) ricoperti dall'autore, a seguito di dazione o promessa
di "utilità". Ove l'espressione testuale,
meglio che nell'omologo art. 319 c.p., staglia un rapporto
sinallagmatico-proporzionale tra la condotta del corrotto
e quella del corruttore. Ne consegue che l'utilità
data o promessa dovrà essere di entità tale
da risultare determinante rispetto al compimento dell'atto
antidoveroso.
La
seconda analogia consiste nella previsione della punibilità
anche del corruttore (ugualmente a quanto stabilito nell'art.
321 c.p.).
Una
significativa differenza va invece còlta nell'inserimento
del requisito del pericolo di nocumento quale elemento costitutivo
(evento di pericolo) della nuova fattispecie penale societaria;
estremo che dovrà dunque essere oggetto di previsione
e volontà da parte dell'autore.
Il
suddetto elemento, poi, dovrebbe essere a mio avviso inteso
in senso patrimoniale. Diversamente la norma risulterebbe
eccessivamente indeterminata e lascerebbe dunque al giudice
un eccessivo margine di "discrezionalità"
in sede applicativa.
Quanto
alla fattispecie di "infedeltà" si deve innanzi
tutto precisare che essa, pur trovando il proprio immediato
antecedente storico nella famigerata norma sul conflitto di
interessi (art. 2631 c.c.), va considerata del tutto nuova.
Di
quest'ultima, infatti, mantiene solo il riferimento all'estremo
del conflitto di interessi, presentando per il resto una serie
di requisiti che ne disegnano una figura del tutto diversa,
dove il modello di partenza è del tutto irriconoscibile.
Innanzi
tutto, è nuovo il drappello dei soggetti attivi: non
solo gli amministratori (come nell'attuale art. 2623 c.c.),
ma anche direttori generali e liquidatori.
In
secondo luogo, cambia la condotta: rileva non tanto la violazione
del dovere di astenersi dal deliberare, quanto il ben più
significativo compimento di atti di disposizione di beni sociali
(anche di quelli posseduti o amministrati dalla società
per conto di terzi), anche mediante assunzione o concorso
nell'assunzione di vere e proprie delibere.
In
terzo luogo, si richiede che detta condotta cagioni un danno
patrimoniale alla società (o ai terzi per conto dei
quali la società possiede o amministra i beni).
In
quarto luogo, si inserisce il requisito soggettivo del dolo
specifico consistente nel fine di procurare ingiusto profitto
per sé o per altri, requisito che deve leggersi alla
luce di un'ulteriore clausola definitoria costruita negativamente
in funzione delimitativa dell'ingiustizia del profitto: non
deve considerarsi ingiusto il profitto che dall'atto dispositivo
deriva alla società collegata o al gruppo, se tale
profitto è compensato da un vantaggio "anche ragionevolmente
prevedibile" derivante (alla società che subisce
"in prima battuta" il danno) dal collegamento o
dall'appartenenza al gruppo.
Previsione
sconvolgente almeno sotto due diversi profili.
Sotto
un primo profilo, perché, per la prima volta, le relazioni
di "collegamento" o di "appartenenza al gruppo"
di società acquistano una così dirompente rilevanza
in ambito penalistico.
Sotto
un secondo profilo, perché la disposizione, se divenisse
legge, impegnerebbe il giudice in delicatissimi giudizi di
alta alchimia societaria che francamente non riusciamo a comprendere
come potrebbe effettuare se non rimanendo acriticamente asservito
alle valutazioni di periti super specializzati.
Le
regole generali sulla responsabilità
B)
Le regole generali sulla responsabilità ipotizzate
dalla presente bozza di delega sono due, entrambe meritevoli
della massima attenzione.
La
prima (lett. e) sancisce che quando il soggetto attivo è
identificato attraverso una qualifica o la titolarità
di una funzione "prevista" dalla legge civile, al
soggetto che formalmente la possiede è equiparato:
a.
chi è tenuto a svolgere la stessa funzione (ancorché
diversamente qualificato);
b.
chi, anche senza formale investitura, esercita in modo continuativo
e significativo (?) i poteri tipici di quella qualifica o
di quella funzione.
Si
tratta di norma inutilmente complicatoria di una materia,
quella dell'amministratore di fatto e della delega di funzioni
e di adempimenti, che andava pian piano chiarendosi nella
prassi e che lo schema di legge delega della commissione Pagliaro
aveva in modo molto più chiaro e dogmaticamente corretto
proposto di disciplinare (cfr. art. 9 del suddetto progetto).
La
previsione in commento, invece, più che risolvere problemi,
li crea. Non si riesce infatti nemmeno a comprendere se l'"equiparazione"
comporta una responsabilità "concorrente"
o "sostitutiva".
Non
solo, ma nessuna delle due soluzioni sarebbe soddisfacente.
Non la prima, perché non avrebbe nessun senso una responsabilità
cumulativa (tutti sarebbero in prima persona soggetti attivi,
quindi coautori) incondizionata. Non la seconda, perché
non viene dato nessun "lume" in ordine ai criteri
di "liberazione" da responsabilità del possessore
della qualifica formale.
Che
dire poi della definizione del "titolare di fatto"
di cui la prassi non sentiva certo la necessità e che
lascia anch'essa più interrogativi di quanti ne risolva?
A
mio parere, insomma, si tratta di previsione da cancellare
tout court.
Maggiormente
condivisibile, invece, l'idea di configurare una responsabilità
"penale-amministrativa" diretta delle società
commerciali, secondo indicazioni ormai sempre più pressanti
di fonte comunitaria.
Com'è
noto, in diversi ordinamenti di Paesi dell'U.E. è ormai
superato il principio del societas delinquere non potest.
Principio che nel nostro ordinamento ancora resiste. Ma, per
contro, v'è unanimità di vedute nel ritenere
ammissibile una responsabilità delle persone giuridiche
che sfoci nell'applicazione di sanzioni esclusivamente amministrative
(o come si dice, "penali-amministrative"). Questione,
forse, solo di "etichetta".
I
presupposti perché scatti tale forma di responsabilità
sono delineati in previsioni ben strutturate e dal contenuto
condivisibile: commissione del reato societario, nell'interesse
della società (requisito non sempre facilmente accertabile
in concreto) da amministratori, direttori generali o liquidatori
od anche da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza
dei suddetti e a causa della omessa vigilanza cui gli stessi
erano tenuti.
Condivisibile
anche la commisurazione dell'entità della sanzione
amministrativa pecuniaria alle capacità economiche
della società. La previsione che essa possa essere
sospesa a condizione che "la società" dimostri
"di avere adottato adeguate misure aziendali organizzative
e gestionali" atte a neutralizzare il rischio di recidiva
specifica, è encomiabile, ma implica giudizi di merito
sulle scelte imprenditoriali probabilmente fuori dalla portata
culturale della maggioranza degli attuali magistrati; con
tutti i rischi di valutazioni del tutto arbitrarie che ne
possono conseguire.
La
disciplina generale delle sanzioni
C)
Merita, infine, un cenno il punto f) della bozza di delega
concernente la disciplina generale delle sanzioni applicabili
ai reati societari.
Più
precisamente, in esso si dettano innanzi tutto norme derogatorie
al regime della confisca che diverrebbe obbligatoria, anche
in caso di "patteggiamento", per il prodotto, il
profitto del reato e per i beni utilizzati per commetterlo
(previsione quest'ultima forse discutibile anche per la sua
evanescente ampiezza).
In
secondo luogo, si statuisce il principio della surroga dei
beni (non si capisce se solo quelli "strumentali"
o anche quelli costituenti il prezzo o il prodotto del reato)
non individuabili o non suscettibili di materiale apprensione,
con una somma di denaro di pari valore (ammesso che tale valore
sia esattamente individuabile).
In
terzo luogo, si estende la confiscabilità obbligatoria
anche ai beni appartenenti alla società, ente o soggetto
nell'interesse del quale è stato commesso il reato.
In sicura violazione del principio di personalità della
responsabilità penale, essendo il solo criterio dell'"interesse"
sicuramente insufficiente a istituire un collegamento penalmente
significativo con l'autore del reato.
Dunque,
conclusivamente, due notazioni.
La
prima: il progetto è migliore nella parte di "rifondazione"
delle fattispecie che in quello della tessitura della disciplina
generale della responsabilità e dei profili sanzionatori,
ma costituisce comunque un testo sul quale vale la pena di
lavorare e di lavorare in tempi rapidi, per una presentazione
"ufficiale" in Parlamento.
La
seconda: la "grande assente" in questa bozza è
la prospettiva di armonizzazione comunitaria. Non si può
varare nessuna riforma, penale e non, delle società
commerciali senza tener conto della necessità di armonizzare
le legislazioni europee in materia.
Giovanni
Flora
Avvocato, Professore ordinario di Diritto Penale,Università
di Firenze
|