Disegno
di legge recante:
"Modifiche urgenti al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267,
recante disciplina del fallimento."
(approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 1°
marzo 2002)
RELAZIONE
ILLUSTRATIVA
La
vigente legge fallimentare, emanata quasi cinquant'anni fa,
è stata oggetto di ripetuti interventi della Corte
Costituzionale, la quale, nel corso degli anni, ha dichiarato
costituzionalmente illegittime numerose disposizioni in essa
contenute. Le sentenze della Consulta talvolta hanno creato
lacune, che sono state colmate dalla giurisprudenza in via
interpretativa, non senza oscillazioni e contrasti; talaltra,
hanno modificato il contenuto precettivo di diversi articoli.
In altri casi, la Corte Costituzionale, pur senza pronunciare
l'illegittimità delle disposizioni normative, ha fornito
soluzioni interpretative (spesso suggerite dal c. d. diritto
vivente) che hanno evidenziato la necessità di interventi
del legislatore per renderle più conformi ai dettami
costituzionali ed altresì più adeguate alle
mutate esigenze operative del settore, nell'ambito del quale
continua ad applicarsi una legge che, sorta nel lontano 1942,
risente sempre più della difficoltà, da parte
degli interpreti, di renderla compatibile con il sistema costituzionale
e, al tempo stesso, con il ben diverso contesto economico-sociale.
Non sono poi mancate le segnalazioni di carenze e insufficienze
del vigente sistema concorsuale, da parte della dottrina e
della giurisprudenza che in questi anni hanno sottoposto i
più svariati aspetti del sistema medesimo ad approfondite
e costruttive riflessioni.
Anche questo dibattito ha fatto emergere i limiti di una disciplina
complessiva ormai inefficiente e fuori dal tempo, a causa
delle profonde trasformazioni del Paese nell'ultimo cinquantennio,
e di singole sue disposizioni, ormai obsolete, anacronistiche
e di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale.
L'enorme numero delle procedure fallimentari e la scarsa funzionalità
di alcune previsioni normative, in assenza di un pronto intervento
legislativo di riforma hanno, poi, imposto prassi applicative
praeter legem, non di rado difformi da tribunale a tribunale.
In questo quadro di riferimento, è forte il disagio
degli operatori e degli utenti, i quali si trovano di fronte
ad una normativa che, da un lato, "vive" nell'esperienza
pratica degli uffici giudiziari secondo modalità diverse
da quelle prefigurate nel testo legislativo del 1942 e, dall'altro,
non soddisfa, il più delle volte, le attese, né
in termini di efficienza, né in termini di garanzie.
Una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali
appare, dunque, indilazionabile.
Tuttavia, nell'attesa che ad essa si pervenga, appare urgente
un intervento legislativo anticipatorio, teso ad adeguare
la normativa vigente, senza sconvolgerne l'impianto, in modo
da consentire che le procedure pendenti e quelle sopravvenienti
possano, da subito, svolgersi secondo regole più chiare
e certe e concludersi, per quanto possibile, in tempi più
brevi.
L'urgenza di tale intervento è vieppiù rafforzata
dall'entrata in vigore del nuovo articolo 111 della Costituzione,
che impone l'adeguamento, nel più breve tempo possibile,
di tutti i procedimenti giurisdizionali e, quindi, anche delle
procedure concorsuali, ai principi da esso introdotti.
Si é, quindi, delineata la necessità di emettere
un provvedimento normativo che valga a colmare le descritte
esigenze, in attesa dell'auspicato varo della riforma dell'intero
sistema concorsuale.
Con
l'articolo 1 si propone l'abrogazione del secondo comma dell'art.
1; l'intervento scaturisce dal necessario adeguamento alle
pronunce della Corte costituzionale che hanno toccato tale
norma, nonché dell'esigenza di evitare le sperequazioni
scaturenti dalla disposizione per la quale le società
commerciali non possono essere in nessun caso considerate
piccoli imprenditori. Il riferimento all'imposta di ricchezza
mobile, quale parametro per la identificazione dei "piccoli
imprenditori", è venuto meno a seguito dell'abolizione
di tale imposta, disposta dall'art. 82 del d.P.R. 29 settembre
1973, n. 597.
La Corte costituzionale, con sentenza 22 dicembre 1989, n.
570, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di
detto secondo comma, come modificato dalla legge 20 ottobre
1952, n. 1357, nella parte in cui prevede il tetto di lire
novecentomila, quale limite del capitale investito nell'azienda,
non oltre il quale gli imprenditori esercenti un'attività
commerciale "sono considerati piccoli imprenditori".
A fronte di un diritto vivente attestato sull'esclusione dal
novero dei piccoli imprenditori delle società commerciali
anche di modeste dimensioni, senza preoccupazione di un loro
disparitario trattamento rispetto alle società artigiane
(la questione di legittimità costituzionale è
stata ritenuta infondata dalle sentenze della Corte costituzionale
266/1994 e 490/1994), soltanto il legislatore può porre
riparo ad un'evidente situazione di irragionevole diverso
trattamento di realtà economiche sostanzialmente identiche,
raccogliendo il segnale eloquente contenuto nella pronuncia
della Corte costituzionale 54/1991, che ha dichiarato l'inammissibilità
della questione.
In attesa di una globale riforma delle procedure concorsuali
pare, perciò, opportuno limitare l'intervento modificativo
alla semplice abrogazione del comma in questione, lasciando
alla giurisprudenza il compito di individuare i parametri
di qualificazione dei "piccoli imprenditori", anche
quanto alle società commerciali.
Con
l'art. 2. si prevede l'abrogazione dell'art. 4 della legge
fallimentare.
L'abrogazione del primo comma è conseguenza della abolizione
della professione dell'agente di cambio. Per gli agenti di
cambio ancora operanti, in base alla disciplina dell'art.
201 del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, occorre dettare una
disposizione transitoria, per la quale a loro continua ad
applicarsi l'art. 4, comma primo, sino all'esaurimento del
ruolo.
L'abrogazione del comma secondo, che prevede il cd. fallimento
fiscale", è conseguenza della abrogazione dell'art.
97, comma terzo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in
virtù dell'art. 16 del decreto legislativo 18 dicembre
1997, n. 471. Detto art. 97, comma terzo, che disciplinava
il fallimento del contribuente per debito di imposta, era
già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo
con sentenza 9 marzo 1992, n. 89.
Con
l'art. 3 si prevede l'introduzione, dopo l'articolo 9 della
legge fallimentare, di un articolo 9 bis intitolato: Fallimento
dichiarato da tribunale incompetente. In base alla normativa
vigente, la sentenza di fallimento pronunciata da un tribunale
incompetente è nulla: tale nullità può
essere dichiarata sia all'esito del giudizio di opposizione
ex art. 18 l. fall. sia a seguito di regolamento di competenza
dinanzi alla Corte di cassazione.
La dichiarazione di nullità comporta che vengano poste
nel nulla tutte le attività processuali compiute nell'ambito
della procedura fallimentare aperta dalla sentenza dichiarata
nulla.
Vengono altresì, meno le iniziative giudiziali prese
dal curatore di detta procedura.
Le conseguenze di tale disciplina sono particolarmente gravi,
in quanto: a) se non è già stata emessa sentenza
di fallimento dal tribunale dichiarato competente, questo
tribunale deve iniziare ex novo il procedimento per dichiarazione
di fallimento; b) nel frattempo, potrebbero essere decorsi
i termini di cui agli artt. 10, Il e 147 1. fall., il cui
decorso non è interrotto dalla sentenza nulla (proprio
perché nulla); c) i termini a ritroso stabiliti dagli
artt. 64 e seguenti 1. fall. per la inefficacia o la revoca
di atti pregiudizievoli ai creditori (compiuti nell'anno o
nel biennio anteriore alla dichiarazione di fallimento) si
computano a far data non dalla sentenza di fallimento dichiarata
nulla, ma solo da quella, eventualmente successiva, emessa
dal tribunale riconosciuto competente, sicché potrebbero
essere già decorsi al momento in cui questo tribunale
provvede; d) le attività processuali compiute nell'ambito
della procedura dinanzi al tribunale incompetente non hanno
valore e sono inutilizzabili nella procedura aperta dal tribunale
competente, nella quale occorre, dunque, rifare tutto ex novo
(così, per es., i creditori debbono presentare nuovamente
le loro domande di ammissione al passivo e si deve procedere
ad una nuova verifica del passivo); e) le azioni promosse
dal curatore del fallimento "nullo" (per revocatorie,
recupero di crediti, ecc.) non possono proseguire.
Per ovviare a tali gravi inconvenienti si propone di introdurre
sotto un nuovo art. 9-bis le disposizioni sopra formulate.
La competenza nel vigente ordinamento processuale non è
considerata come un presupposto processuale, la cui mancanza
sia causa di nullità del processo. Tale principio è
sancito già nell'art. 50 del vigente codice di rito.
La recente "novella" del 1990 ha ulteriormente ridotto
la rilevanza della competenza, anche inderogabile, nel processo
civile (art. 38 c.p.c.).
A tale stregua la disciplina della competenza alla dichiarazione
di fallimento può essere opportunamente modificata.
Fermo restando il carattere inderogabile di detta competenza,
non pare giustificabile che tale carattere debba inesorabilmente
comportare la assoluta nullità della sentenza pronunciata
dal tribunale incompetente e di tutti gli atti dipendenti.
Si ritiene, perciò, che la sentenza di fallimento,
emessa da tribunale incompetente, non deve essere dichiarata
nulla, ma al contrario deve essere riconosciuta comunque valida
e, dunque, idonea a fondare una procedura altrettanto valida.
A tal fine si prevede che il tribunale, che si dichiara (all'esito
del giudizio di opposizione ex art. 18 l. fall.) o è
dichiarato (dalla Corte di appello o dalla Corte di cassazione)
incompetente, deve subito trasmettere gli atti al tribunale
dichiarato competente, perché la procedura di fallimento
possa proseguire dinanzi a quest'ultima tribunale. E' così
escluso: a) che alla dichiarazione. di incompetenza debba
conseguire la dichiarazione di nullità della sentenza
di fallimento; b) che si debba iniziare un nuovo procedimento
per dichiarazione di fallimento; c) che la procedura svoltasi
dinanzi al tribunale incompetente sia travolta e posta nel
nulla. Si prevede, invece, espressamente che tutti gli atti
compiuti, fino alla data della dichiarazione di incompetenza,
"restano salvi". Ciò corrisponde all'esigenza
di conservazione degli atti prodotti e contemporaneamente
cerca di scoraggiare l'utilizzo strumentale della questione
di competenza al solo fine di travolgere gli atti della procedura.
E' peraltro evidente che il giudice dichiarato competente
disporrà di tutti i poteri di valutazione sugli atti
che la legge gli attribuisce nella fase in cui avviene la
translatio iudicii.
Per la "prosecuzione" della procedura (non dunque
per la sua "rinnovazione "), il tribunale, cui sono
trasmessi gli atti, se non ha già a sua volta emesso
in precedenza sentenza di fallimento, provvede, di ufficio,
a dare le disposizioni del caso, con decreto in camera di
consiglio; esso, in particolare, provvede alla nomina del
giudice delegato e del curatore.
Qualora l'incompetenza del tribunale che ha dichiarato il
fallimento sia dedotta nel giudizio di opposizione ex art.
18 1. fall. insieme con questioni attinenti al merito (in
particolare, sussistenza o meno dei presupposti sostanziali
del fallimento), sembra opportuno che su tali questioni pronunci
il tribunale dichiarato competente, salvaguardando così
il carattere inderogabile della sua competenza. Si prevede,
perciò, che, ove si accerti l'incompetenza del tribunale
che ha dichiarato il fallimento e dinanzi al quale è
stata proposta (come si doveva necessariamente fare) l'opposizione,
il giudice che decide (lo stesso tribunale, la Corte di appello
o la Corte di cassazione) deve limitarsi a dichiarare l'incompetenza
di quel tribunale e a designare il tribunale ritenuto competente,
senza dichiarare la nullità della sentenza di fallimento,
né pronunciare sulle questioni di merito; per la decisione
di tali questioni, la causa deve essere riassunta dinanzi
al tribunale dichiarato competente, in applicazione dell'art.
50 c.p.c., sicché il giudizio di opposizione, una volta
riassunto, a cura di parte, continuerà davanti a tale
tribunale.
Le altre disposizioni proposte mirano a regolare ulteriori
evenienze processuali, in conseguenza della prosecuzione della
procedura dinanzi al tribunale dichiarato competente.
La disposizione che attribuisce al tribunale dichiarato competente
la competenza a conoscere tutte le azioni che derivano dal
fallimento, eccettuate le azioni reali immobiliari, vale a
raccordare la nuova disciplina a quella dell'art. 24 1. fall.
La disposizione che prevede la interruzione automatica, da
dichiararsi di ufficio, dei giudizi in corso, in cui è
parte il curatore del fallimento aperto dal tribunale incompetente,
e la possibilità che tali giudizi siano proseguiti
o riassunti vuole evitare che essi cadano nel nulla e consentire,
invece, che possano essere recuperati con il subingresso del
nuovo curatore, facendo applicazione degli artt. 302 e 303
c.p.c. Per l'ipotesi che taluni di questi giudizi pendano
dinanzi a un tribunale non competente secondo la regola di
raccordo con l'art. 24 1. fall., si prevede che l'incompetenza,
una volta proseguito o riassunto il giudizio, sia rilevata,
anche d'ufficio, anche oltre la prima udienza di trattazione,
in deroga l'art 38, comma 1, c.p.c., non essendo possibile
rispettare detto limite nella vicenda processuale in esame;
pare opportuno, tuttavia, stabilire che la rilevabilità
della incompetenza sia limitata al primo grado del processo.
Con
l'art. 4 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti
della sentenza della Corte Costituzionale del 21 luglio 2000,
n. 319, con cui l'art. 10 della legge è stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede
che le società non possano più essere dichiarate
fallite decorso un anno dalla cancellazione di esse dal registro
delle imprese. L'aggiunta proposta non fa che adeguare il
testo normativo alla pronuncia. Si precisa che il termine
annuale riguarda solo le società iscritte, giacché,
ovviamente, solo queste possono essere cancellate. Quanto
alle società non iscritte (società di persone
di fatto o semplicemente irregolari), appare preferibile non
dettare una specifica disposizione, sicché esse continuano
ad essere soggette a fallimento senza alcun limite temporale;
ipotizzare per esse un termine decorrente dalla cessazione
di fatto dell'attività (come è previsto per
l'imprenditore individuale) finirebbe per avvantaggiare tali
società rispetto alle società iscritte: per
queste ultime, infatti, il termine comincia a decorrere solo
dalla cancellazione, che è adempimento conclusivo della
liquidazione e che, dunque, è successivo alla cessazione
dell'attività imprenditoriale. D'altro canto, la mancata
iscrizione nel registro delle imprese è una scelta
dei soci, per cui il non poter usufruire del termine annuale
è conseguenza che dipende dalla loro volontà.
La legge, infine, non può non sanzionare la violazione
delle norme che impongono l'iscrizione nel registro.
Con
l'art. 5 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti
della sentenza della Corte costituzionale 16 luglio 1970,
n. 141, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art.
15 "nella parte in cui non prevede l'obbligo del tribunale
di disporre la comparizione dell'imprenditore in camera di
consiglio per l'esercizio del diritto di difesa nei limiti
compatibili con la natura di tale procedimento ". Esso
deve perciò essere riscritto per disciplinare le forme
essenziali del procedimento camerale per dichiarazione di
fallimento, secondo i principi costituzionali degli articoli
24 e 111 Cost. Va, in particolare, evidenziato che l'esigenza
di una nuova disciplina discende, altresì, dal principio,
affermato nel nuovo art. 111 Cost., per cui "ogni processo
deve essere regolato dalla legge".
La norma, nella formulazione proposta, è ricalcata
sulla corrispondente norma del decreto legislativo 8 luglio
1999, n. 270, sull'amministrazione straordinaria (art. 7:
"1. Prima di provvedere, il tribunale convoca l'imprenditore,
il ricorrente e il Ministro dell'industria, del commercio
e dell'artigianato, il quale può designare un delegato
per la comparizione o far pervenire un parere scritto. L'audizione
può essere delegata dal tribunale ad tino dei componenti
del collegio. 2. Tra la data della comunicazione dell'avviso
di convocazione e quella dell'udienza deve intercorrere un
termine non inferiore a quindici giorni liberi. Il termine
può essere abbreviato dal tribunale, con decreto motivato,
se ricorrono particolari ragioni di urgenza "), anche
allo scopo di assicurare una uniformità di disciplina.
Il concetto di attività istruttoria va
inteso in senso compatibile con la necessaria sommarietà
della fase. Il sistema, peraltro, rispecchia, razionalizzandola,
la prassi corrente presso quasi tutti i tribunali italiani.
Con
l'art. 6 si propone la modifica del n. 4 del secondo comma
dell'art. 16 che mira ad introdurre un termine congruo, ma
effettivo, entro il quale i creditori e i terzi interessati
sono tenuti a presentare le loro domande in cancelleria, in
modo da consentire al giudice delegato ed al curatore di esaminarle
preventivamente, evitando che la presentazione di domande
all'ultimo minuto, perfino nel corso dell'adunanza per l'esame
dello stato passivo (com'è oggi permesso dall'art.
96), possa costringere ad uno o più rinvii dell'adunanza
medesima, allungando i tempi della procedura.
La proposta modifica del n. 5 vuole eliminare la previsione
di un termine, per l'adunanza di cui innanzi, troppo breve
e di fatto non osservato nella prassi.
Il quarto comma (che prevede l'emanazione dell'ordine di cattura
del fallito da parte del tribunale con la stessa sentenza
di fallimento o con decreto successivo) deve ritenersi già
venuto meno in virtù dell'art. 214 delle disposizioni
di attuazione del codice di procedura penale, ai sensi del
quale sono abrogate le disposizioni di leggi o decreti che
prevedono l'arresto o la cattura da parte di organi giudiziari
che non esercitano funzioni penali. L'espressa abrogazione,
perciò, non è altro che un mero adeguamento
del testo normativo.
Con
l'art. 7 si propone la modifica del primo comma dell'art.
17 che mira a consentire al debitore la conoscenza integrale
della sentenza di fallimento, affinché egli possa esercitare
adeguatamente e tempestivamente il suo diritto di difesa (art.
24 Cost.), mediante l'opposizione disciplinata dall'art. 18.
La notificazione, infatti, a differenza della comunicazione
(che, a norma dell'art. 136 c.p.c., è "una forma
abbreviata" di partecipazione, con cui si dà notizia
di un provvedimento), avviene, a nonna dell'art. 137, comma
2, c.p.c., "mediante consegna al destinatario di una
copia conforme dell'atto da notificarsi". Soltanto la
notificazione, dunque, permette al fallito di conoscere la
motivazione della sentenza. Essa, come espressamente prevede
l'art. 137, comma 1, c.p.c., può essere eseguita anche
su richiesta del cancelliere.
La proposta modifica del secondo comma dello stesso art. 17
non è altro che un inevitabile adeguamento della norma
alla prassi corrente, che vede la sentenza di fallimento affissa
all'albo del tribunale, anziché alla porta esterna:
l'attuale disposizione, oltreché anacronistica, è
praticamente inattuabile.
L'abrogazione del terzo comma ( "l'estratto della sentenza
è inoltre pubblicato nel foglio degli annunzi legali
della provincia a cura del cancelliere ") è conseguente
all'abolizione del foglio degli annunzi legali.
Con
l'art. 8 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti
della sentenza della Corte costituzionale del 27 novembre
1980, n.151, con cui l'art. 18 comma 1 l.f. è stato
dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui
prevede che il termine di quindici giorni per fare opposizione
decorra per il debitore dalla affissone della sentenza di
fallimento. La Corte costituzionale non ha, però, precisato
da quale diversa evento il termine debba decorrere. La giurisprudenza
prevalente ritiene che esso decorra dalla comunicazione fatta
dalla cancelleria per estratto a norma dell'art. 17, comma
1; non mancano, però, pronunce nel senso della decorrenza
dalla notificazione fatta da una delle parti e/o dal curatore.
Per eliminare dubbi e incertezze, il vuoto creato dalla sentenza
di incostituzionalità va colmato con una precisa indicazione
normativa. Ciò anche in ossequio al principio costituzionale
della regolamentazione per legge di "ogni processo".
Va tenuta, d'altro canto, presente l'esigenza di un coordinamento
con la nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria,
contenuta nel decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270.
Si propone, perciò, di modificare il primo comma dell'art.
18 nel senso di stabilire che il termine per proporre opposizione
sia di trenta (e non più di quindici) giorni, uniformandolo
a quello previsto dall'art. 9 d. lgs. 270/1999 (nonché
dall'attuale art. 195, quarto comma, 1. fall.) e che esso
decorra per il debitore dalla notificazione fatta su richiesta
del cancelliere (non della controparte o del curatore), mentre
per gli altri interessati dall'affissione.
Si propone, altresì, che sia espressamente stabilito
che, in ogni caso, ossia indipendentemente dalla notificazione,
dalla comunicazione e dalla affissione, l'opposizione non
può più proporsi, una volta che sia decorso
un anno dalla pubblicazione, vale a dire dal deposito in cancelleria,
della sentenza.
Si vuole, con ciò, rendere applicabile anche alla sentenza
di fallimento il disposto dell'art. 327, comma 1, c.p.c.,
eliminando dubbie perplessità sorti in dottrina e giurisprudenza
al riguardo.
L'aggiunta risponde ad evidenti esigenze di certezza e stabilità.
L'abrogazione del comma terzo dell'art. 19 (secondo cui "il
termine per appellare è di quindici giorni dalla notificazione
della sentenza") è una conseguenza dell'allungamento
a trenta giorni del termine per proporre l'opposizione a norma
dell'art. 18: portato quel termine a trenta giorni, non avrebbe
senso mantenere per l'appello un termine più breve
di quello ordinario, che, a norma dell'art. 325 c.p.c., è
pure di trenta giorni. Abrogato il comma in esame, l'appello
rimane disciplinato dalle norme del codice di rito.
Con
l'art. 9 si propone l'adeguamento della normativa agli effetti
delle varie pronunce di incostituzionalità della norma,
emesse nel corso degli anni dalla Corte costituzionale. La
Corte di cassazione lo ha "costituzionalizzato"
per via interpretativa, per cui esso oggi ha, nel "diritto
vivente", un contenuto precettivo di gran lunga difforme
dalla sua formulazione letterale. Si impone, dunque, una ristruttura
ex novo della norma, che tenga conto delle indicazioni già
date dalla Corte costituzionale, della giurisprudenza consolidata
della Corte di cassazione e dei principi affermati dal nuovo
art. 111 Cost., in particolare quanto al rispetto del contraddittorio,
alla terzietà del giudice ed alla necessità
di una disciplina legislativa del procedimento.
Nel testo che si propone di adottare:
a) si parla di "provvedimenti" e non più
di "decreti ", poiché è comune convinzione
che il reclamo sia esperibile anche contro i provvedimenti
dati in forma di ordinanza, in particolare quelli in tema
di liquidazione dell'attivo (stanti il richiamo delle disposizioni
del codice di procedura civile sulle vendite, contenuto nell'art.
105 e l'esplicito riferimento all'ordinanza contenuto nell'art.
108, comma 2), per i quali il rimedio ex art. 26 surroga l'opposizione
agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.;
b) si richiama espressamente l'art. 739 c.p.c., recependo
l'orientamento della giurisprudenza di legittimità,
per inquadrare il rimedio in un ben preciso paradigma normativo;
c) si prevede il termine di dieci giorni (mutuato dall'art.
739 c.p.c.) per tutti i provvedimenti del giudice delegato,
e non soltanto per quelli a contenuto decisorio (come, invece,
è attualmente, nella versione "costituzionalizzata"
data dalla giurisprudenza), per evidenti ragioni di uniformità
di disciplina di un mezzo di impugnazione, che è unico
per tutti i provvedimenti, in modo da evitare incertezze e
dubbi sulla qualificazione del provvedimento da impugnare;
d) si prevede che detto termine decorra dalla notificazione
o dalla comunicazione, quando il reclamo sia proposto dal
curatore, dal fallito o da un determinato soggetto destinatario
del provvedimento (colui che ha chiesto o nei cui confronti
è stato chiesto il provvedimento), mutuando l'analoga
previsione dell'art. 739, comma 2, c.p.c., per l'esigenza
che, in tali casi, il termine decorra dalla notizia "ufficiale"
del provvedimento, in qualunque forma sia data, ma in maniera
da non lasciar dubbi sul dies a quo;
e) si prevede che la comunicazione integrale del provvedimento
fatta dal curatore con lettera raccomandata con avviso di
ricevimento equivalga a notificazione in modo da far decorrere
comunque il termine in presenza di un formale atto di partecipazione
che dà adeguate garanzie di certezza, ancorché
non sia posta in essere la forma solenne della notificazione
a mezzo di ufficiale giudiziario (recependo anche l'indicazione
delle sentenze di illegittimità costituzionale degli
articoli 98 e 100, che individuano il dies a quo del termine
per la opposizione allo stato passivo e la impugnazione dei
crediti ammessi nella data di ricezione della lettera raccomandata
con avviso di ricevimento spedita dal curatore);
f) si prevede che il termine decorra dal deposito in cancelleria
o dall'affissione (quest'ultima per i provvedimenti che devono
essere assi, come quelli con cui si dispongono le vendite
all'incanto o senza incanto) per ogni altro interessato (creditore
o terzo), al quale non si debba fare comunicazione o notificazione,
non essendo destinatario del provvedimento, allo scopo di
evitare che il provvedimento rimanga a lungo esposto all'impugnativa
da parte di un soggetto nei confronti del quale il termine
di dieci giorni non potrebbe mai iniziare a decorrere, se
non imponendo alla cancelleria o al curatore il gravosissimo
onere di comunicare o notificare ogni provvedimento a qualunque
interessato;
g) si prevede che in ogni caso, ossia indipendentemente dalla
comunicazione, notificazione o affissione, il reclamo non
è più proponibile, una volta che sia decorso
un anno dal deposito del provvedimento in cancelleria, rendendo
applicabile anche al reclamo la disposizione dell'art. 327,
comma 1, c.p.c., per evidenti esigenze di certezza e stabilità;
h) si prevede che il tribunale, prima di pronunciare, deve
sentire il reclamante, il curatore e gli eventuali controinteressati,
per assicurare il rispetto del diritto di difesa (art. 24
Cost.) e del contraddittorio (art. 111 Cost.);
i) si stabilisce (come analogamente dispone l'art. 669-terdecies,
comma 2, c.p.c., per il reclamo contro i provvedimenti cautelari)
che del collegio non può far parte il giudice delegato,
suo essendo il provvedimento impugnato, in ossequio al principio
del "giudice terzo e imparziale" (art. 111 Cost.);
j) si mantiene, infine, la regola (enunciata nell'attuale
comma 3 dell'art. 26), per cui il reclamo non ha effetto sospensivo,
allo scopo di evitare reclami meramente strumentali.
Con
l'art. 10 si propone la modifica dei primi due commi dell'art.
34, onde rendere più agile e snella la gestione delle
disponibilità liquide del fallimento. L'uso del termine
"banca" in luogo dell'originario "istituto
di credito" deriva dalla definizione contenuta nell'art.
1 del d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385 ("Testo unico
delle leggi in materia bancaria e creditizia"), secondo
cui "l'espressione «banca» indica l'impresa
autorizzata all'esercizio dell'attività bancaria".
L'art.
11 risponde ad un'evidente esigenza di snellimento nella gestione
della procedura e di alleggerimento del carico di lavoro del
tribunale in composizione collegiale, inutilmente oberato
del vaglio di questioni spesso di minima incidenza economica
e di marginale rilievo per la procedura, impone l'aggiornamento
del limite di decisione del giudice delegato, nell'integrazione
dei poteri del curatore per gli atti previsti dalla disposizione,
dall'ormai risibile soglia di lire 200.000, fissata dall'art.
1 della legge 20 ottobre 1952, n. 1375 (che aveva elevato
l'originario limite di lire 10.000), a quella di almeno euro
15.000, con la previsione, per un suo costante aggiornamento,
di un meccanismo di periodico adeguamento in base a decreto
del Ministro della giustizia.
L'art.
12 propone la modifica del n. 3 dell'art. 46 della legge,
onde coordinare la disposizione con il vigente regime patrimoniale
della famiglia, quale risulta dalla riforma di cui alla legge
19 maggio 1975, n. 1 Sl. Infatti, il "patrimonio familiare",
cui ancora si riferisce l'attuale disposizione della legge
fallimentare, è stato soppresso e sostituito dal "fondo
patrimoniale ". L'esclusione dal fallimento dei beni
del fondo e dei frutti di essi ed il richiamo all'art. 170
del codice civile, che disciplina l'esecuzione forzata sugli
stessi beni e frutti, valgono a rendere uniforme il regime
dell'esecuzione fallimentare e quello dell'esecuzione individuale.
L'abrogazione del n. 4 è conseguenza della soppressione
dell'istituto della dote (art. 166-bis c.c.).
Con
l'art. 13 si propone la modifica dell'art. 48 l.f., che intende
adeguare la norma alla garanzia costituzionale della libertà
e della segretezza della corrispondenza (art. IS Cost.). La
limitazione attualmente prevista non appare più giustificabile
per le persone fisiche, mentre può ancora risultare
funzionale agli scopi della procedura quanto alle società
o agli enti dichiarati falliti.
Con
l'art. 14 si propone la modifica dell'art. 49, onde adeguare
la norma alla garanzia costituzionale della libertà
di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.). Viene, quindi,
eliminato il divieto per il fallito di allontanarsi dalla
sua residenza senza il permesso del giudice delegato. Appare,
tuttavia, necessario, ai fini della procedura, che il fallito,
quanto meno, sia tenuto a comunicare al curatore l'eventuale
cambiamento della sua residenza.
Con
l'art. 15 si presente la proposta modifica dei commi secondo
e terzo dell'art. 50 della legge, onde eliminare il carattere
sanzionatorio-afflittivo della dichiarazione di fallimento,
ormai non più rispondente alla attuale sensibilità
sociale. Il dissesto non è più visto come una
"colpa" dell'imprenditore, da cui debba scaturire
una valutazione di inaffidabilità' sociale (decoctus
ergo fraudator), essendo, invece, soltanto una vicenda dell'impresa.
In questa prospettiva le incapacità personali conseguenti
al fallimento non possono essere altro che un riflesso degli
effetti di carattere patrimoniale e debbono, perciò,
essere limitate alla durata della procedura, non avendo più
ragion d'essere una volta che questa sia cessata. A tale stregua,
si prevede che l'iscrizione nel registro dei falliti sia cancellata
di ufficio in seguito alla chiusura del fallimento e che le
incapacità personali stabilite dalla legge a carico
del fallito vengano automaticamente meno non appena cessata
la procedura fallimentare. I due concetti (chiusura del fallimento
e cessazione della procedura fallimentare) debbono sostanzialmente
considerarsi equivalenti e fanno riferimento ai casi di emanazione
dei provvedimenti di cui agli articoli 118 e 136 della legge
fallimentare.
Con
l'art. 16 si avanza la proposta di recepire la recente pronuncia
di illegittimità costituzionale del terzo comma dell'art.
54, "nella parte in cui non richiama, ai fini dell'estensione
del diritto di prelazione agli interessi maturati sui crediti
privilegiati, l'art. 2749 c.c. " (sentenza 28 maggio
2001, n. 162).
Con
l'art. 17, abrogando l'art. 70 della legge, si recepisce la
giurisprudenza della Corte suprema' (Cass.-sez. un. 5291/1997),
la quale ritiene non più vigente nel nostro ordinamento,
a seguito della riforma del diritto di famiglia, l'istituto
della cd. "presunzione muciana".
Con
l'art. 18 si propone la modifica dell'art. 84, che vuole escludere
sia il giudice delegato che il giudice di pace da un'attività
obiettivamente dispendiosa e nella prassi spesso desueta,
qual è l'apposizione dei sigilli, per rimettere interamente
al curatore, in quanto pubblico ufficiale. Il ricorso diretto
alla forza pubblica ha lo scopo assicurare la piena effettività
delle ricognizioni dell'attivo, così da evitare comportamenti
ostruzionistici impedimenti di mero fatto. L'abrogazione dell'art.
85 e le proposte modifiche dell'art. 86 sono conseguenti alla
modifica dell'art. 84.
Con
l'art. 19 si avanzano proposte di modifica che mirano a snellire
e semplificare l'attività di inventariazione, rimettendola
al solo curatore ed eliminando l'intervento del cancelliere,
del tutto superfluo e spesso causa di ritardi.
Con
l'art. 20 si propone la modifica dell'attuale art. 90, comma
primo, che consente al tribunale di disporre la continuazione
temporanea dell'esercizio dell'impresa del fallito solo "quando
dall'interruzione improvvisa può derivare un danno
grave e irreparabile ". Tale previsione appare troppo
restrittiva, in quanto può essere opportuno, nell'interesse
dei creditori, continuare l'esercizio dell'impresa per conservare
la funzionalità del complesso produttivo, e quindi
il maggior valore dell'organizzazione aziendale, anche qualora
non ricorrano gli estremi del "danno grave e irreparabile.
Si propone, perciò, una modifica della disposizione
nel senso di rimettere al tribunale la valutazione della convenienza
dell'esercizio provvisorio subito dopo la dichiarazione di
fallimento.
Con
l'art. 21 si propone la modifica dell'art. 92, coerente con
la nuova formulazione delle disposizioni degli artt. 16, n.
e 96.
Con
l'art. 22 si propone la modifica del criterio di elezione
del domicilio; invero l'elezione di domicilio nel comune ove
ha sede il tribunale (imposta dall'attuale art. 93, comma
2) , anziché in uno dei comuni del circondario, è
un anacronismo, che penalizza fortemente i creditori senza
alcuna giustificazione. L'abrogazione del terzo comma ( "I
documenti non presentati con la domanda devono essere depositati
prima dell'adunanza di verifica") è coerente con
la disposizione dell'art. 96, la quale consente la produzione
di documenti anche nel corso dell'adunanza.
Con
l'art. 23 si propone l'abrogazione del quarto comma dell'art.
95, onde adeguare la norma alla prassi corrente, nella quale
raramente lo stato passivo è deposito in cancelleria
prima dell'adunanza.
Anche
il testo dell'art. 24, di modifica del primo comma dell'art.
96, è un mero adeguamento della norma alla prassi corrente.
Viene, altresì, esclusa la facoltà di presentare
nel corso della stessa adunanza nuove domande di ammissione
al passivo, per le finalità illustrate riguardo all'art.
16.
Con
l'art. 25 si propone la modifica dell'attuale art. 97 della
legge. Il nuovo primo comma vuole semplificare le previsioni
contenute negli attuali commi primo e secondo. Pare opportuno
che la decorrenza dell'esecutività sia collegata alla
data del deposito in cancelleria e non ad una data anteriore,
per rispettare la regola generale per la quale i provvedimenti
giudiziali acquistano efficacia dalla data di pubblicazione.
Il nuovo secondo comma riproduce la disposizione della seconda
parte dell'attuale comma secondo, aggiungendo ai creditori
il fallito, cui certo non si può negare il diritto
di prendere visione dello stato passivo.
Il nuovo terzo comma recepisce la pronuncia della Corte costituzionale
22 aprile 1986, n. 102, la quale ha statuito che il curatore
è tenuto a dare notizia, con lettera raccomandata con
avviso di ricevimento, dell'avveduto deposito dello stato
passivo a tutti i creditori che hanno presentato domanda di
ammissione al passivo.
Con
l'art. 26 si propone la modifica dell'attuale art. 98 della
legge. La modificazione del primo comma, in cui si prevede
la decorrenza del termine dalla ricezione della raccomandata,
anziché dal deposito dello stato passivo in cancelleria,
come invece prevede il testo attuale, è imposta dalla
sentenza di illegittimità costituzionale 22 aprile
1986, n. 102. Pare opportuno, però, richiamare espressamente
anche il termine massimo di un anno dal deposito in cancelleria,
previsto dall'art. 327, comma 1, c.p.c.
Nel secondo comma si precisa che il termine per la notificazione
del ricorso e del decreto al curatore è perentorio,
onde eliminare ogni dubbio al riguardo; d'altro canto, la
qualificazione del termine come perentorio è contenuta
negli attuali comma secondo dell'art. 100 e comma secondo
dell'art. 101 e non si vede la ragione di una differente formulazione.
L'introduzione nello stesso secondo comma di un termine per
la comunicazione al creditore opponente da parte della cancelleria
del decreto di fissazione dell'udienza, con la precisazione
che da tale comunicazione decorre il termine per la notificazione
al curatore, è resa necessaria dalla sentenza di illegittimità
costituzionale 30 aprile 1986, n. 120. Il termine di quaranta
giorni (anziché di quindici, come previsto da tale
pronuncia) scaturisce dall'esigenza di coordinamento con le
disposizioni del comma seguente.
Le modifiche del terzo comma mirano ad omologare la fase introduttiva
del giudizio di opposizione alla fase introduttiva del processo
ordinario di cognizione, com'è oggi disciplinata a
seguito della riforma del codice di rito, rispettando, tuttavia,
le peculiarità della prima.
Si prevede un termine perentorio per la costituzione del curatore,
anteriore all'udienza, allo scopo di rendere operanti le decadenze
di cui all'art. 167 c.p.c., nel nuovo testo risultante dalla
"novella" del 1990. Le esigenze di celerità
e speditezza della procedura fallimentare, dal cui tronco
originano i giudizi di opposizione allo stato passivo, consigliano
di ridurre alla metà il termine stabilito da detto
articolo, il quale, del resto già prevede un minor
termine di dieci giorni in caso di abbreviazione dei termini
a norma dell'art. 163-bis c.p.c. L'udienza di cui all'art.
180 c.p.c. è sicuramente da identificarsi in tali giudizi
nell'udienza fissata dal giudice delegato a norma del comma
2 dell'art. 98 in esame. Stabilito per il curatore convenuto
un termine di dieci giorni prima di detta udienza, il termine
per la costituzione dell'opponente non può che essere
anteriore; sembra possa essere congruamente fissato in almeno
venti giorni prima della medesima udienza, tenendo conto anche
dei termini di cui al comma precedente (termine per la notifica
da parte dell'opponente e termine per la comunicazione del
decreto di fissazione dell'udienza da parte della cancelleria).
Termini più lunghi imporrebbero un troppo ampio intervallo
di tempo tra la data del decreto di fissazione dell'udienza
e la data dell'udienza stessa. Sembra, poi, opportuno, mantenere
la sanzione della decadenza per la mancata costituzione dell'opponente
nel termine stabilito, allo scopo di conseguire al più
presto l'intangibilità del provvedimento del giudice
delegato; ed è, altresì, opportuno che: a) sia
precisato che la costituzione dell'opponente consiste nell'iscrizione
della causa a ruolo, richiamando implicitamente, per quanto
applicabile, l'art. 165 c.p.c.; b) sia precisato che il contenuto
della sanzione consiste nell'estinzione del processo, da dichiararsi
di ufficio; onde evitare che la sanzione possa essere vanificata
dal regime attuale dell'art. 307, comma 4, c.p.c.
Il quarto comma riproduce l'attuale, prevedendo, senza variazioni,
la possibilità dell'intervento in causa degli altri
creditori.
Con
l'art. 27 si propone una riformulazione dell'art. 99, per
adeguarne la disciplina al nuovo rito del processo civile
ed alle esigenze manifestate dalla prassi.
Nel primo comma si prevede che il giudice delegato provvede
all'istruzione delle varie cause di opposizione a norma degli
articoli 175 e seguenti c.p.c., richiamando così tutte
le disposizioni del codice che disciplinano l'istruzione della
causa. Non si fa più riferimento (come invece nel testo
attuale) all'udienza per la discussione davanti al collegio,
essendo tale udienza stata abolita dalla riforma del 1990.
Si prevede, altresì, che il giudice disponga la riunione
delle cause di opposizione solo quando ne ravvisi l'opportunità.
Ciò risponde alla prassi corrente, nella quale di rado
si procede alla trattazione di tutte le opposizioni in un
unico processo, preferendosi la trattazione separata di ognuna,
che è sicuramente più semplice e spedita. Può
risultare, tuttavia, in concreto opportuna una trattazione
congiunta di più opposizioni, ma tale valutazione non
può che essere rimessa al giudice.
Il secondo comma riproduce l'attuale, coordinandolo col primo,
che prevede solo come eventuale la riunione delle cause. Il
riferimento alla rimessione al collegio, contenuto nel testo
attuale, è del tutto superfluo, dovendo trovare applicazione
le corrispondenti disposizioni del codice di rito; se ne propone,
perciò, l'eliminazione.
Nel comma terzo è eliminata la disposizione della prima
parte del testo attuale, non essendo congruente con la mera
eventualità della riunione delle cause. La disposizione
della seconda parte è, invece, integralmente riprodotta,
non sussistendo ragioni per eliminarla o variarla.
Nel quarto comma si propone di conservare saltato la disposizione
per la quale la sentenza è provvisoriamente esecutiva.
La previsione dell'affissione della sentenza alla porta esterna
del tribunale, oltre ad essere un inattuato e inattuabile
anacronismo, è del tutto inutile, poiché a tale
adempimento formale non è più collegabile la
decorrenza del termine per l'appello, in forza della sentenza
della Corte costituzionale 27 novembre 1980, n. 152. Viene
conseguentemente a cadere anche la previsione dell'immediato
avviso dell'avveduta pubblicazione ad opera del cancelliere;
eliminata tale disposizione, rimane applicabile la comune
disciplina della comunicazione della sentenza dettata dal
codice di rito, alla quale non occorre fare alcun richiamo.
Il quinto comma lascia inalterati i termini attualmente previsti
per l'appello (quindici giorni, anziché trenta, come
previsto in generale dall'art. 325, comma 1, c.p.c.) e per
il ricorso per cassazione ("ridotto alla metà",
rispetto alla previsione dell'art. 325, comma 2, c.p.c., quindi
a trenta giorni), giustificati da esigenze di celerità
della procedura; stabilisce, invece, innovando al testo attuale,
che tali termini decorrono dalla notificazione della sentenza,
ripristinando così la regola generale dell'art. 326,
comma 1, c.p.c. e adeguando la norma alla citata sentenza
della Corte costituzionale 27 novembre 1980, n. 152, che ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'attuale comma
quinto, nella parte in cui fa decorrere i termini per l'appello
e per il ricorso per cassazione dall'affissione della sentenza.
L'art. 160 d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, ha già
abrogato il comma sesto ( "non è ammesso l'appello
per le controversie non eccedenti la competenza del pretore
"), in conseguenza della soppressione dell'ufficio del
pretore.
Con
l'art. 28 si propone una nuova formulazione dell'art. 100,
anch'esso oggetto di pronunce di illegittimità costituzionale;
queste, i nuovi principi dell'art. 111 Cost. e la riforma
del processo civile di cui alla novella del 1990 ne impongono
una pressoché totale rivisitazione.
Si prevede, innanzitutto, che l'impugnazione de qua possa
essere proposta non solo dai creditori, ma anche dal curatore,
cui, invece, la legittimazione è oggi negata. L'innovazione
scaturisce dai principi costituzionali del diritto di difesa
(art. 24 Cost.) e della "parità delle armi"
(art. 111 Cost.): il curatore, che è parte nei giudizi
di accertamento dei crediti, deve avere strumenti processuali
eguali a quelli di ogni singolo creditore, per poter tutelare
l'interesse della massa e l'interesse del fallito, al quale
ultimo si nega ogni legittimazione a contrastare le pretese
creditorie. Quanto ai provvedimenti di ammissione al passivo
dati in sede di adunanza ex art. 96, il termine per proporre
l'impugnazione, che rimane quello di quindici giorni attualmente
previsto, decorre per il curatore dal deposito dello stato
passivo in cancelleria, dovendo egli essere presente all'adunanza,
all'esito della quale viene pronunciato il decreto di esecutività
dello stato passivo. Per l'ipotesi che il giudice delegato,
chiusa l'adunanza, si riservi la definitiva formazione dello
stato passivo, si prevede che il termine per il curatore decorra
dalla comunicazione della cancelleria dell'avvenuto deposito,
occorrendo una formale notizia dello scioglimento della riserva.
Per i creditori si prevede, invece, che il termine decorra
dalla data di ricezione della lettera raccomandata con avviso
di ricevimento, con cui il curatore deve comunicare l'avvenuto
deposito dello stato passivo in cancelleria, così conformando
il testo del primo comma alla sentenza di illegittimità
costituzionale 22 aprile 1986, n. 102. Pare, tuttavia, opportuno
anche qui richiamare espressamente il termine massimo di un
anno dal deposito in cancelleria, previsto dall'art. 327,
comma 1, c.p.c.
Quanto ai crediti ammessi con decreto a norma dell'art. 101,
comma terzo, la sentenza di illegittimità costituzionale
14 dicembre 1990, n. 538, impone un'ulteriore variazione del
primo comma dell'articolo in esame. Tale sentenza, infatti,
ha espressamente riconosciuto l'esperibilità del rimedio
di cui all'art. 100 contro i provvedimenti di ammissione al
passivo dati con decreto su domande tardive, a norma dell'art.
101, comma terzo, e ha statuito circa la decorrenza del termine
per i creditori. Alla stregua di detta sentenza, si prevede,
nei riguardi del curatore, che per i menzionati crediti il
termine decorre dalla pronuncia del provvedimento di ammissione,
se dato in udienza, essendo il curatore tenuto ad esservi
presente; ovvero dalla comunicazione del provvedimento da
parte della cancelleria, se esso è dato fuori udienza,
a scioglimento della riserva, di cui il giudice delegato si
sia avvalso, come è sua facoltà. Nei riguardi
dei creditori ammessi, si prevede, invece, recependo la statuizione
della Corte costituzionale, che il termine decorre dalla data
di ricezione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento,
con la quale il curatore deve dare notizia a ciascuno di loro
del provvedimento di ammissione in via tardiva.
La modifica del secondo comma corrisponde all'analoga modifica
del secondo comma dell'art. 98 e scaturisce anch'essa dalla
sentenza di illegittimità costituzionale 30 aprile
1986, n. 120, nonché dall'esigenza di coordinamento
con le disposizioni del comma seguente.
Le modifiche del terzo comma mantengono il parallelismo con
le disposizioni del terzo comma dell'art. 98 e mirano anch'esse
ad omologare la fase introduttiva del giudizio di impugnazione
alla fase introduttiva del processo ordinario di cognizione,
com'è oggi disciplinata a seguito della riforma del
codice di rito, rispettando, tuttavia, le peculiarità
della prima.
L'introduzione nel quarto comma del richiamo agli articoli
180 e seguenti c.p.c. serve a raccordare la disciplina della
successiva fase dell'istruzione a quella dettata dal codice
di rito per il processo ordinario di cognizione, cui non v'è
motivo di derogare.
Il nuovo quinto comma non fa che riprodurre la regola stabilita
dall'art. 282, comma 1, c.p.c., chiarendo così che
anche la sentenza di primo grado, pronunciata all'esito del
giudizio di impugnazione ex art. 100, è provvisoriamente
esecutiva, sicché ad essa occorre dare immediata attuazione
nei riparti (escludendo il credito dalla distribuzione, se
di accoglimento; includendo il credito nella distribuzione,
ma accantonando la quota assegnata, in attesa del passaggio
in giudicato, se di rigetto).
Il nuovo comma sesto, in parallelo con le modifiche che si
propone di apportare all'art. 99, mira a semplificare la disciplina
dell'appello e del ricorso per cassazione, adeguandola nel
contempo alle statuizioni delle sentenze di illegittimità
costituzionale 27 novembre 1980, n. 152, e 3 aprile 1982,
n. 69 (che hanno colpito le disposizioni degli attuali commi
quinto e sesto dell'art. 99, applicabili al giudizio ex art.
100 in virtù dell'implicito richiamo contenuto nell'attuale
comma quarto dell'articolo in esame). Si propone di non riprodurre
l'attuale previsione di obbligatoria riunione dei giudizi
di impugnazione ex art. 100 a quelli di opposizione ex art.
98, giacché tale riunione, nella prassi corrente quasi
mai attuata, può essere causa di appesantimento processuale,
che non giova alla rapidità di decisione.
Con
l'art. 29 si propone la riformulazione dell'art. 101, resa
necessaria dall'esigenza di coordinamento con gli articoli
precedenti e con la nuova disciplina del processo ordinario
di cognizione.
Il primo comma e la prima parte del secondo comma sono invariati
rispetto al testo attualmente vigente. Nella seconda parte
del comma secondo sono introdotte due disposizioni del tutto
analoghe alle corrispondenti disposizioni del comma secondo
dell'art. 98 e del comma secondo dell'art. 100, intese a recepire
le statuizioni della sentenza di illegittimità costituzionale
30 aprile 1986, n. 120: tale sentenza ha colpito gli articoli
98 e 100, non anche l'art. 101, ma sussiste anche riguardo
a questo la medesima esigenza, di fornire al creditore tempestiva
conoscenza, in via ufficiale, del decreto di fissazione dell'udienza,
onde consentirgli di eseguire tempestivamente la notificazione
del ricorso.
Il terzo comma riproduce, per coerente uniformità di
disciplina, le medesime disposizioni del comma terzo, prima
parte, degli articoli 98 e 100. Non si prevede, tuttavia,
che il curatore debba costituirsi prima dell'udienza fissata
dal giudice delegato, poiché questa udienza (a differenza
di quella fissata dal giudice delegato a norma degli articoli
98, comma 2, e 100, comma 2) non può identificarsi
con l'udienza di prima comparizione di cui all'art. 180 c.p.c.:
infatti, nell'udienza, di cui ci si sta occupando, può
pervenirsi all'immediata conclusione del procedimento con
un provvedimento sommario, informa di decreto, del giudice
delegato, senza farsi luogo alla formale istruzione della
causa, il cui inizio è segnato proprio dall'udienza
ex art. 180 c.p.c. Del resto, una formale costituzione in
giudizio del curatore sarebbe inutile, ove si pervenga alla
pronuncia del decreto; al contrario, l'esigenza della formale
costituzione potrebbe nascere proprio dalla mancata ammissione
al passivo con decreto all'esito dell'udienza.
Il nuovo quarto comma riproduce nella prima parte l'attuale
terzo comma, prevedendo appunto la possibilità di ammissione
del credito con decreto, concorrendo la duplice condizione
che il curatore non lo contesti e che il giudice delegato
lo ritenga fondato. Per l'ipotesi che non si emetta il decreto,
la seconda parte dello stesso comma prevede, come già
l'attuale seconda parte del comma terzo, che il giudice delegato
proceda all'istruzione della causa, fissando l'udienza di
cui all'art. 180 c.p.c., e si stabilisce che il curatore deve
costituirsi almeno dieci giorni prima di detta udienza: si
raccorda, così, la disciplina del procedimento in esame
al nuovo rito del processo civile e la si coordina con quella
dei procedimenti ex artt. 98 e 100.
Il comma quinto (che prevede la possibilità dell'intervento
degli altri creditori) è la mera riproduzione cela'
attuale, che non sembra necessario ritoccare. Il nuovo comma
sesto richiama espressamente, per evidenti ragioni di uniformità
di disciplina, le disposizioni dei commi quarto e quinto dell'art.
99, così da non lasciare dubbi sulla loro applicabilità
nel giudizio in esame.
Il nuovo comma settimo riproduce per intero l'attuale comma
sesto, che pare opportuno lasciare inalterato.
Con
l'art. 30 si avanzano proposte di modifica dell'art. 102,
che mirano anch'esse a coordinare la disciplina del procedimento
al nuovo rito civile e ad uniformarla a quella degli altri
giudizi di accertamento del passivo.
Con
l'art. 31 si propone l'introduzione di un nuovo comma nel
testo dell'art. 106, idoneo a colmare una lacuna di disciplina
quanto alla cancellazione di trascrizioni e iscrizioni gravanti
su autoveicoli venduti in sede fallimentare.
L'art.
32 propone una modifica che si ritiene possa avere notevole
efficacia, sia sotto il profilo della riduzione dei tempi
della procedura fallimentare, sia sotto quello del miglioramento
dei risultati satisfattori di essa, è quella che concerne
la possibilità di procedere alla vendita degli immobili
fallimentari ad offerte private, oggi preclusa dal vigente
art. 108. L'innovazione trova i suoi precedenti nelle disposizioni
della legge 3 aprile 1979, n. 95 (art. 6-bis, comma 1) e del
d. lgs. 270/1999 (art. 62), sull'amministrazione straordinaria.
Si propone, perciò, una riformulazione dell'art. 108.
Nel primo comma si prevede che la vendita degli immobili possa
farsi, come nel regime attuale, con incanto o senza incanto
secondo le disposizioni degli articoli 567 e seguenti del
c.p.c., cui si fa espresso rinvio. Si ritiene non più
giustificata la preferenza accordata dalla legge vigente alla
vendita con incanto, giacché recenti esperienze giudiziarie
hanno dimostrato che il meccanismo della vendita senza incanto
può essere, e spesso è, più garantisco
e più proficuo di quello dell'asta pubblica, almeno
per come essa è attualmente regolata. Sembra, dunque,
opportuno mettere l'una e l'altra forma di vendita sullo stesso
piano, lasciando alla valutazione discrezionale del giudice
delegato la scelta di quella che in concreto appaia la più
conveniente.
Nello stesso primo comma si riproduce la prima parte dell'attuale
comma secondo, precisando che le vendite sono disposte con
ordinanza del giudice delegato, su istanza del curatore, sentito
il comitato dei creditori. Non si prevede più che esse
abbiano luogo dinanzi al giudice delegato, sì da eliminare
ogni dubbio circa la delegabilità al notaio, introdotta
da una recente modifica del codice di rito, che pare opportuno
rendere estensibile alle vendite fallimentari.
Nel nuovo testo non si fa più cenno nemmeno alla facoltà
del giudice delegato di sospendere la vendita (prevista dall'attuale,
comma terzo), giacché tale facoltà è
stata estesa ad ogni vendita forzata immobiliare, all'incanto
o senza incanto, introducendo un'apposita disposizione nell'art.
586 c.p.c.
Il nuovo comma secondo consente che il giudice delegato autorizzi
la vendita ad offerte private, ove la ritenga più vantaggiosa.
Si stabiliscono per tale vendita le medesime formalità
già richieste per la vendita senza incanto dall'attuale
art. 108 (proposta del curatore, parere del comitato dei creditori,
assenso dei creditori ammessi al passivo con diritto di prelazione
sugli immobili); in aggiunta, si prescrive che il giudice
disponga idonee misure di pubblicità, mutuando la disposizione
dell'art. 62, comma 2, d. lgs. 270/1999. La seconda parte
dello stesso comma secondo prevede, poi, che la cancellazione
delle iscrizioni e trascrizioni gravanti sull'immobile venduto
sia disposta dal giudice delegato con apposito decreto, così
come analogamente prevede l'art. 64 d. lgs. citato: tale provvedimento
è reso necessario dal vigente regime di pubblicità
immobiliare ed occorre una specifica previsione normativa,
poiché non può procedersi alla cancellazione
di una formalità se non in base ad una sentenza passata
in giudicato o ad "altro provvedimento definitivo emesso
dalle autorità competenti" (art. 2884 c.c.). A
garanzia dei creditori in generale e degli ipotecari in particolare,
si prescrive che la cancellazione non possa ordinarsi prima
che sia stato pagato interamente il prezzo di vendita.
Il nuovo comma terzo riproduce la disposizione dell'attuale
comma quarto, semplificandola e coordinandola con quelle dei
commi precedenti.
Con
l'art. 33 si propone l'introduzione di un nuovo articolo 108
bis che regoli la vendita fallimentare di "navi, galleggianti
ed aeromobili iscritti nei registri indicati dal codice della
navigazione" (così definiti nell'art. 2683 c.c.)
in maniera del tutto analoga alla vendita degli immobili,
raccordando la disciplina fallimentare a quella del codice
della navigazione, nel quale l'espropriazione singolare di
quei beni è compiutamente regolata con disposizioni
derogatorie di quelle contenute nel libro terzo del codice
di rito. Si vengono, così, a superare incertezze interpretative
e difformi prassi applicative, dovute alla mancanza nell'attuale
legge fallimentare di specifiche disposizioni al riguardo.
Con
l'art. 34 viene proposta la modifica dell'art. 117, che vale
ad adeguare la norma alla vigente disciplina dei depositi
bancari. Viene, altresì, sostanzialmente recepita,
con gli adattamenti del caso, la disposizione contenuta nell'art.
8 della legge 17 luglio 1975, n. 400 (recante "Norme
intese ad uniformare ed accelerare la procedura di liquidazione
coatta amministrativa degli enti cooperativi"), quanto
alla devoluzione delle somme depositate e non riscosse nel
quinquennio, onde evitare che di tali somme finiscano per
beneficiare le banche depositarie.
Con
l'art. 35 si propone la modifica del numero 1 dell'art 118,
consistente nella semplice sostituzione dell'espressione "nel
termine stabilito" all'attuale "nei termini stabiliti",
è conseguente a quella dell'art. 16, n. 4, ed a quella
dell'art. 96, essendo da tali norme (nel nuovo testo che si
propone di adottare) previsto un unico termine per le domande
di ammissione.
Con
l'art. 36 si propone l'introduzione di un ulteriore comma
all'art. 119. La disposizione aggiunta mira a consentire ai
creditori la tempestiva conoscenza dell'avvenuta chiusura
del fallimento, evitando a loro i tempi e i costi di richieste
di informazioni.
Con
l'art. 37 viene proposta la modifica del numero 2 del secondo
comma dell'art. 121, che mira a rendere congruente la disposizione
dell'art. 121, che disciplina il contenuto della sentenza
di riapertura del fallimento, con quelle dell'art. 16, n.
4 e 5, come sopra modificate.
Con
l'art. 38 è proposta la modifica dell'art. 129, che
mira a coordinare la disciplina del giudizio di omologazione
del concordato col nuovo rito del processo ordinario di cognizione.
I commi primo e terzo dell'art. 131 sono già stati
dichiarati costituzionalmente illegittimi con la sentenza
12 dicembre 1974, n. 255, "nella parte in cui fanno decorrere
dall'affissione i termini, rispettivamente, per ricorrere
in cassazione contro la sentenza di appello che decide in
merito alla omologazione o reiezione del concordato preventivo,
per proporre appello contro la sentenza che omologa o respinge
il concordato successivo, nonché per ricorrere in cassazione
contro quest'ultima sentenza". Le proposte modifiche
del quarto comma dell'art. 130 e dell'art. 131 mirano ad adeguare
la disciplina alle statuizioni della Corte costituzionale,
coordinandola con quella dettata dall'art. 19, anche al fine
di consentire la rapida formazione del giudicato sulla sentenza
che omologa o respinge il concordato.
La proposta modifica del quinto comma è un mero adeguamento
terminologico alla normativa del vigente testo unico delle
leggi in materia bancaria e creditizia.
Con
l'art. 39 è prevista l'abrogazione degli articoli da
142 a 145, che disciplinano l'istituto della riabilitazione
civile. La abrogazione è conseguenza della modifica
dell'art. 50: cessando le incapacità personali del
fallito, automaticamente, alla chiusura della procedura fallimentare,
la riabilitazione (che, a norma dell'attuale comma 1 dell'art.
142, "fa cessare le incapacità personali che colpiscono
il fallito per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento
") non ha più ragion d'essere.
Con
l'art. 40 si propone l'abrogazione del terzo comma dell'art.
146. La ragione dell'abrogazione della disposizione, che consente
al giudice delegato, nell'autorizzare il curatore a proporre
l'azione di responsabilità contro gli amministratori,
i sindaci, i direttori generali e i liquidatori della società
fallita, di disporre le opportune misure cautelari, risiede
nel più pieno rispetto del principio di terzietà
del giudice, espressamente sancito dal nuovo art. 111 Cost.
Tale abrogazione non erode, d'altro canto, alcuna tutela per
la procedura, ben potendo il giudice delegato tempestivamente
autorizzare, insieme con l'esercizio dell'azione di merito,
il ricorso alla misura cautelare davanti al giudice ordinariamente
competente. In tal modo si intende dare attuazione al principio
di necessaria tutela cautelare enunciato dal regolamento 1346/2000/CE
del 29 maggio 2000 relativo alle procedure di insolvenza.
Con
l'art. 41 si propone la riformulazione dell'art. 147, resa
necessaria dai numerosi interventi della Corte costituzionale,
che hanno inciso sulla disciplina in essa contenuta, nonché
da esigenze di coordinamento con le disposizioni degli artt.
15 e 22.
Nel primo comma appare necessario chiarire che la disciplina
dell'estensione del fallimento della società con soci
a responsabilità illimitata è applicabile soltanto
ai soci illimitatamente responsabili delle società
regolate nei capi III e IV del titolo V del libro quinto del
codice civile, ossia delle società in nome collettivo
e in accomandita semplice, ovvero dei soci di società
irregolari comunque ricondotte ad uno dei tipi ivi indicati;
non anche, quindi, ai soci di società di capitali,
che pur siano illimitatamente responsabili per le obbligazioni
sociali, così recependo il consolidato orientamento
della giurisprudenza di legittimità, contraddetto,
in tempi recenti, da sporadiche divergenti pronunce di giudici
di merito (che hanno ritenuto assoggettabile a fallimento
anche il socio unico di società di capitali), con grave
compromissione della certezza del diritto.
Nel secondo comma si recepisce il disposto della sentenza
della Corte costituzionale 21 luglio 2000, n. 319, la quale
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
147, nella parte in cui prevede che il fallimento della società
produce il fallimento dei soci illimitatamente responsabili,
pur dopo che sia decorso un anno dal momento in cui costoro
abbiano perso per qualsiasi causa la responsabilità
illimitata. A garanzia dei terzi pare opportuno stabilire
che il dies a quo del termine annuale coincida con la data
dell'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto che 'produce
la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile,
data dalla quale l'atto diviene opponibile ai terzi (artt.
2193 e 2300 c.c.). La formulazione proposta rispecchia quella
dell'art. 23, comma 2, del d. lgs. 270/1999, riguardo all'estensione
ai soci illimitatamente responsabili degli effetti della dichiarazione
dello stato di insolvenza di una società , assoggettabile
ad amministrazione straordinaria ( "Nei confronti del
socio receduto o escluso e del socio defunto l'estensione
ha luogo se la dichiarazione dello stato di insolvenza è
pronunciata entro l'anno successivo, rispettivamente, alla
data in cui il recesso o l'esclusione sono divenuti opponibili
ai terzi e a quella della morte, sempre che l'insolvenza della
società attenga, in tutto o in parte, a debiti contratti
anteriormente a tale data).
Nel terzo comma si recepisce il disposto della sentenza della
Corte costituzionale 27 giugno 1972, n. 110, la quale ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, "nella
parte in cui non prevede che il tribunale debba ordinare la
comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente
responsabili nei cui confronti produce effetto la sentenza
che dichiara il fallimento della società con soci a
responsabilità illimitata, perché detti soci
possano esercitare il diritto di difesa". Il richiamo
dell'art. 15 (nel nuovo testo che si propone di adottare)
vale a uniformare la disciplina del procedimento. La formulazione
proposta è analoga a quella dell'art. 23, comma 3,
del d. lgs. 270/1999 ("Il tribunale, prima di provvedere,
sente i soci illimitatamente responsabili nelle forme previste
dall'art. 7, commi 1 e 2 ").
Nel quarto comma si recepiscono le statuizioni delle sentenze
della Corte costituzionale 16 luglio 1970, n. 142, e 28 maggio
1975, n. 127, le quali hanno dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 147, rispettivamente, a) "nella
parte in cui nega al creditore interessato la legittimazione
a proporre istanza di dichiarazione di fallimento di altri
soci illimitatamente responsabili nelle forme dell'art. 6";
b) "nella parte in cui nega al fallito la legittimazione
a chiedere la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente
responsabili". Il richiamo dell'art. 15 vale anche in
tal caso a rendere uniforme la disciplina del procedimento.
La formulazione proposta è, ancora una volta, analoga
a quella della corrispondente disposizione del d. lgs. 270/1999,
art. 24, comma 2 ("Il tribunale provvede su ricorso dei
soggetti indicati nell'art. 3, comma 1, di un altro socio,
del commissario giudiziale, ovvero d'ufficio ").
Nel quinto comma si riproduce testualmente la disposizione
dell'attuale comma terzo ("Contro la sentenza del tribunale
è ammessa l'opposizione a norma dell'art. 18"),
che non vi è ragione di modificare.
Nel sesto comma si recepisce la statuizione della sentenza
della Corte costituzionale 28 maggio 1975, n. 127, la quale
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
22, "nella parte in cui nega al fallito la legittimazione
a proporre reclamo contro la pronuncia del tribunale che ha
respinto l'istanza per la dichiarazione di fallimento di socio
illimitatamente responsabile". A tale stregua, la legittimazione
a proporre il reclamo viene estesa a tutti i soggetti legittimati
a proporre la domanda di fallimento "in estensione".
IL richiamo dell'art. 22 (che disciplina il reclamo contro
il decreto del tribunale di reiezione dell'istanza di fallimento)
mira, anch'esso, ad uniformare la disciplina del procedimento.
La disposizione contenuta nell'attuale ultimo comma ("Le
disposizioni di questo articolo non si applicano alle società
cooperative") non ha più ragion d'essere, una
volta chiarito che l'estensibilità del fallimento sociale
riguarda soltanto i soci di società di persone (quelle,
appunto, "appartenenti ad uno dei tipi regolati nei capi
III e IV del titolo V del libro quinto del codice civile ").
Con
l'art. 42 viene proposta l'abrogazione degli articoli da 155
a 159, che disciplinano il procedimento sommario, istituto
da lungo tempo caduto in desuetudine.
Con
l'art. 43 viene proposta la sostituzione dell'art. 162, imposta
dalla sentenza della Corte costituzionale 27 giugno 1972,
n. 110, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 162, "nella parte in cui non prevede che il
tribunale, prima di pronunciarsi sulla domanda di ammissione
alla procedura di concordato preventivo, debba ordinare la
comparizione in camera di consiglio del debitore per l'esercizio
del diritto di difesa".
Con
l'art. 44 si propone una modifica del secondo comma dell'art
163, suggerita dall'esigenza di garantire al debitore il diritto
di difesa.
Con
l'art. 45 si propone la sostituzione del primo comma dell'art.
166, conseguente all'abolizione del foglio degli annunzi legali.
Con
l'art. 46 si propongono modifiche agli articoli 173 e 179,
suggerite dall'esigenza di garantire al debitore il diritto
di difesa.
Con
l'art. 47 si propone la sostituzione dell'art. 180, tendente
a coordinare la disciplina del giudizio di omologazione del
concordato preventivo col nuovo rito del processo ordinario
di cognizione, uniformandola a quella del giudizio di omologazione
del concordato fallimentare.
Con
l'art. 48 viene proposta l'eliminazione del requisito della
meritevolezza del debitore (prescritto dall'attuale art. 181,
comma 1, n. 4) in linea con la più moderna concezione
del concordato preventivo che risponde ad una valutazione
obiettiva della idoneità di esso come strumento per
la eliminazione del dissesto. La decisione del tribunale sulla
praticabilità della soluzione concordataria deve basarsi
sulla considerazione dell'interesse dei creditori ad un migliore
soddisfacimento, interesse che è comunque prevalente
rispetto all'interesse del debitore ad evitare il fallimento.
La Corte costituzionale, con sentenza 12 dicembre 1974, n.
255, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
183, "nella parte in cui, per le parti costituite, fa
decorrere il termine per proporre appello contro la sentenza
che omologa o respinge il concordato preventivo dall'affissione,
anziché dalla data di ricezione della comunicazione
della stessa". Con la medesima sentenza ha, altresì,
dichiarato l'illegittimità costituzionale dei commi
primo e terzo dell'art. 131 "nella parte in cui fanno
decorrere dall'affissione i termini, rispettivamente, per
ricorrere in cassazione contro la sentenza di appello che
decide in merito alla omologazione o reiezione del concordato
preventivo, per proporre appello contro la sentenza che omologa
o respinge il concordato successivo, nonché per ricorrere
in cassazione contro quest'ultima sentenza".
Le proposte modifiche del quarto comma dell'art. 181 e dell'art.
183 mirano ad adeguare la disciplina alle statuizioni della
Corte costituzionale, coordinandola con quella dettata dall'art.
19 e uniformandola a quella del giudizio di omologazione del
concordato fallimentare, anche al fine di consentire la rapida
formazione del giudicato sulla sentenza che omologa o respinge
il concordato.
Con
l'art. 49, che sostituisce il primo comma, primo periodo,
dell'art. 188, è prevista l'eliminazione del requisito
della meritevolezza del debitore, che risponde ad un'esigenza
analoga a quella evidenziata per il concordato preventivo,
dovendosi considerare prevalente l'interesse alla conservazione
dell'impresa, rispetto all'interesse del debitore ad evitare
il fallimento. Detto requisito del resto è già
stato sostanzialmente soppresso dalla giurisprudenza per le
società di capitali.
Con
l'art. 50 viene proposta la modifica dell'art. 190, costituente
adeguamento al disposto della sentenza della Corte costituzionale
26 luglio 1988, n. 881, la quale ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale della norma, "nella parte in cui fa decorrere
il termine di decadenza di dieci giorni per il reclamo avverso
il provvedimento del giudice delegato di cessazione degli
effetti dell'amministrazione controllata, dalla data del decreto,
anziché dalla sua rituale comunicazione all'interessato".
Per il debitore si recepisce testualmente l'indicazione di
detta pronuncia di incostituzionalità; per ogni altro
interessato pare opportuno prevedere la decorrenza del termine
dall'iscrizione del provvedimento nel registro delle imprese,
essendo questa idoneo mezzo di pubblicità.
Con
l'art. 51 si propone la modifica dell'art 195 il cui attuale
testo, con sentenza 27 giugno 1972, n. 110, è stato
dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in
cui non prevede l'obbligo per il tribunale di disporre la
comparizione del debitore in camera di consiglio per l'esercizio
del diritto di difesa nel corso dell'istruttoria diretta ad
accertare lo stato di insolvenza dell'impresa soggetta a liquidazione
coatta amministrativa con esclusione del fallimento".
La proposta modifica di detto comma mira ad adeguare la disposizione
anche alla statuizione della Corte costituzionale, coordinandola
con il nuovo art. 15.
L'art. 195, quarto comma, con sentenza 4 luglio 2001, n. 211,
è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo,
nella parte in cui prevede che il termine per proporre l'opposizione
contro la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza
decorra per il debitore dall'affissione della sentenza medesima.
La modifica di tale comma, che si propone di adottare, mira
anch'essa ad adeguare la norma alla pronuncia della Corte
costituzionale, nonché ad uniformare la disciplina
a quella dell'opposizione alla sentenza dichiarativa del fallimento,
non essendovi ragione di una differenziazione di trattamento.
L'abrogazione del comma quinto risponde alla medesima esigenza
di uniformità di regime e va in parallelo con l'abrogazione
del comma terzo dell'attuale art. 19.
Con
l'art. 52 si propone l'inserimento di un ulteriore periodo
al primo comma dell'art 200, che consiste nel recepimento
delle disposizioni già contenute nell'art. 3, comma
1, della legge 17 luglio 1975, n. 400, recante "Norme
intese ad uniformare ed accelerare la procedura di liquidazione
coatta amministrativa degli enti cooperativi".
Il comma 1 di detto art. 3, infatti, dispone: "Dalla
data del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa
di uno degli enti di cui all'art. 1 della presente legge,
sui beni compresi nella liquidazione, non può essere
iniziata o proseguita alcuna azione esecutiva individuale
anche se prevista ed ammessa da leggi speciali in deroga del
disposto dell'art. Sl del regio decreto 16 marzo 1942, n.
267, né possono acquistarsi diritti di prelazione sopra
i beni mobili dell'ente né iscriversi ipoteche per
causa o titolo anteriori alla data del provvedimento di liquidazione".
Pare opportuno estendere tali disposizioni, semplificandone
il testo, a tutte le ipotesi di liquidazione coatta amministrativa
rientranti nella disciplina della legge fallimentare, non
essendovi ragione per una limitazione di esse alla sola liquidazione
coatta degli enti cooperativi.
Con
l'art. 53 viene proposta la modifica del secondo comma dell'art.
206, coerente con quella dell'art. 35. Essa rende superflua
la disposizione dell'art. 4 della citata legge n. 400/1975
("A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge,
il limite di lire 50 mila previsto dal secondo comma dell'art.
206 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, è elevato,
anche per le procedure di liquidazione già iniziate,
a lire 2 milioni").
Con
l'art. 54 vengono proposte modifiche degli artt. 207, 208
e 209 che mirano a rendere più semplice e snella la
formazione dello stato passivo e ad imporre a tale attività
tempi certi di durata, a garanzia dei diritti degli interessati.
La nuova disciplina è, altresì, in linea con
le modifiche al procedimento di verificazione dei crediti
nel fallimento e con le pronunce della Corte costituzionale.
Nell'art. 209 in particolare, si recepiscono: a) la sentenza
22 maggio 1987, n. 181, che ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo l'attuale primo comma, "nella parte in cui
non prevede che l'imprenditore individuale o gli amministratori
della società o della persona giuridica soggetta ad
amministrazione straordinaria siano sentiti dal commissario
con riferimento alla formazione dell'elenco indicato nello
stesso art. 209"; b) la sentenza 2 dicembre 1980, n.
155, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'attuale
secondo comma, "nella parte in cui non prevede che il
termine per le opposizioni dei creditori in tutto o in parte
esclusi decorra dalla data del deposito, nella cancelleria
del tribunale del luogo dove l'impresa in liquidazione coatta
amministrativa ha la sede principale, dell'elenco dei crediti
ammessi o respinti, formato dal commissario liquidatore, anziché
dalla data di ricezione delle raccomandate con avviso di ricevimento,
con le quali il commissario liquidatore dà notizia
dell'avvenuto deposito ai creditori le cui pretese non sono
state in tutto o in parte ammesse "; c) la sentenza 29
aprile 1993, n. 201, che ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo l'attuale secondo comma, "nella parte in
cui prevede che il termine per proporre le opposizioni e le
impugnazioni decorre dal deposito in cancelleria dell'elenco
dei crediti ammessi, anziché dalla data di ricezione
della lettera raccomandata con avviso di ricevimento, con
la quale il commissario liquidatore dà notizia dell'avvenuto
deposito".
Con
l'art. 55 si introduce un ulteriore comma dell'art. 210. L'aggiunta
consiste nel reperimento della disposizione contenuta nell'art.
5 della legge 17 febbraio 1975, n. 400, e si coordina con
le nuove disposizioni degli artt. 106, 108 e 108-bis, nonché
con quella dell'art. 64 del d. lgs. 270/1999. L'art.5 della
citata legge 400/1975 dispone: "Nelle vendite dei beni
compresi nelle procedure di liquidazione disciplinate dalla
presente legge, avvenuto il versamento del prezzo da parte
dell'acquirente e la stipula dell'atto di vendita, l'autorità
di vigilanza - su richiesta del commissario Iiquidatore vistata
dal comitato di sorveglianza - ordina con decreto che si cancellino
le trascrizioni dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie,
nonché le trascrizioni dei sequestri e delle domande
giudiziali, esonerando i conservatori dei pubblici registri
da ogni responsabilità".
L'art. 64 del d. lgs. 270/1999, a sua volta, dispone: "La
cancellazione delle iscrizioni relative a diritti di prelazione
e delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi
sui beni trasferiti è ordinata dal Ministro dell'industria
con decreto nei quindici giorni successivi al trasferimento".
Con
l'art. 56 si introduce una disposizione che ha (al pari di
quella dell'art. 119) la finalità di consentire ai
creditori di venire tempestivamente a conoscenza della chiusura
della procedura, evitando a loro i tempi e i costi di richieste
di informazioni.
Con
l'art. 57 viene proposta la modifica del secondo comma dell'art.
214, onde incrementare la garanzia del diritto di difesa.
La proposta di modifica del quarto comma è coerente
con quella dell'art 131.
Con
l'art. 58 viene abrogato l'art 241 in conseguenza dell'abolizione
dell'istituto della riabilitazione.
Con
l'art. 59 si propone l'abrogazione degli articoli 256, 262
e 264, contenenti disposizioni transitorie ormai non più
attuali.
Con
l'art. 60 si introduce una norma transitoria, destinata ad
operare per i soli agenti di cambio ancora in carica ai sensi
dell'art. 201 del d. lgs. 24.2.1998 n. 58.
Con
l'art 61 si propone l'abrogazione degli articoli 3, comma
1, 4 e 5 della legge 17 luglio 1975, n.400, come conseguenza
del recepimento delle menzionate disposizioni della legge
speciale negli articoli 200, 206 e 210 della legge fallimentare.
L'intervento,
limitato alla modificazione delle norme regolatrici della
materia, non comporta interventi su strutture o personale
giudiziario e, conseguentemente, non importa oneri finanziari
a carico dello Stato.
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